La grande letteratura parla di sciocchezze. E va bene così

Marco Archetti

È pura sartoria di rammendo, o meglio, un grandioso tentativo di rammendo dello stesso centimetro. È il fumo di un arrosto che non c’è

Di cosa parla, in fin dei conti, la grande Letteratura? Di sciocchezze. Nient’altro che di sciocchezze.

Ci ho pensato ieri e ne ero sempre più convinto – oserei dire definitivamente convinto – mentre terminavo “Il serpente”, romanzo del 1966 del semidimenticato Luigi Malerba, grande scrittore da nulla perché grande scrittore di nulla, ma appunto grande scrittore. Leggevo e chiedevo a me stesso: dopotutto di cosa dovrebbe mai parlare la Letteratura se non di inezie, di quisquilie, di bioccoli esistenziali, di relazioni che la nostra mente stabilisce tra una cosa e un’altra sotto le futili insegne di un’arbitrarietà severa? Pensavo agli autori che amo e mi domandavo: intorno a cosa hanno costruito quell’andante centripeto che è il loro grande, ininterrotto romanzo?

 

Come scriveva Piero Vietti in un pezzo cristallino, su questo giornale, a proposito di Dino Buzzati, i grandi scrittori girano sempre intorno a un’idea. Ma portando alle estreme conseguenze questo sacrosanto presupposto, aggiungo: quest’idea – cioè quest’idea che ripete se stessa – non è forse anche piccola, banale, un tarlo, una slabbratura del vedere e del sentire la vita? La grande Letteratura è sempre un discorso intorno a una scucitura. E’ pura sartoria di rammendo, o meglio, un grandioso tentativo di rammendo dello stesso centimetro, che poi quel centimetro riassuma in sé la lunghezza della vita se la si srotolasse tutta è un fatto, ma di lì non ci si muove: è il fumo di un arrosto che non c’è.

 

“Il serpente” – romanzo spiraliforme che s’avvita a se stesso – lo dimostra alla perfezione. La storia, la trama, la vicenda non esistono, però esiste una solida voce narrante, o meglio divagante, la quale osserva il mondo ridandogli forma e stabilendo repentine relazioni, nessi e coniugazioni fulminee – una voce umorale che fa, del proprio umore in altalena, il nervo lungo di un’inarrestabile testimonianza. Il lettore è incatenato: incatenato quando la voce racconta di come gestisce il proprio negozio di francobolli; incatenato quando è Miriam a prendersi tutto lo spazio; incatenato quando entra in scena Baldisseroni. E siccome, alla fin fine, “Il serpente” è un giallo senza giallo perché ogni fatto parrebbe inventato (femminofagia compresa) ciò che resta sono queste mirabolanti volute di fumo in assenza di arrosto, impalpabile ghirigoro di una voce che non molla un momento e che vola avanti e indietro nel tempo esplorando tutti gli angoli dell’aria e accumulando dettagli e cretinate, cretinate filosofiche, cretinate importanti come quelle di cui è costituita la nostra vita.

 

La cretinata più trionfale intorno a cui è costruito questo romanzo è l’odio per Baldisseroni. Mi si permetta di dire che Baldisseroni, per meritarsi quest’odio, non ha fatto un bel niente: è un innocuo collezionista di francobolli e di schegge di marmo che raccoglie e classifica saccheggiando cantieri. Sì, è un grande classificatore, Baldisseroni, ma dietro questa sua smodata smania la voce narrante vede chissà cosa, e così, pagina dopo pagina, con tragicomico accanimento, costruisce, forbisce, tornisce il suo odio sempre più inenarrabile via via che lo narra. Ed ecco che Baldisseroni lievita suo malgrado e diventa l’emblema di tutto ciò che detestiamo senza sapere perché, di tutto ciò che detestiamo perché è così che deve andare, perché la vita è quelle tre o quattro sciocchezze senza importanza cui conferiamo importanza, collezionisti, noi, di sentimenti inspiegabili da cui pretendiamo spiegazioni. Baldisseroni lievita dentro questa voce che lo accusa, ma Baldisseroni non esiste. E non solo non esiste narrativamente – “Il serpente” è un trip tra vero e falso, un assolo implausibile della fantasia di un nullafacente – ma non esiste nemmeno in quanto personaggio odiabile, perché odioso non è, è solo il fumo di un arrosto a priori, come in fondo è tutto “Il serpente”, il romanzo più vicino a “Cosmo” di Gombrowicz che si possa immaginare. Appunto, “Cosmo” è un altro grande racconto di niente: lì, ogni nesso si regge allacciandosi – intrallazzandosi – con altri nessi, e così come si allaccia potrebbe anche non allacciarsi, eppure tutto sembra obbedire a Necessità.

 

“Io stavo lì a guardare la pioggia, imbambolato. Se non ci fossi io qui a guardare, pensavo, pioverebbe lo stesso?”. La grande Letteratura parla sempre di sciocchezze, di scarafaggi, di fissazioni nate per caso, di cappotti e di nasi, di quel centimetro che non si potrà mai rammendare ma non è la Morte, non è il Destino, non è il Bene e non è il Male: è un omino di nome Baldisseroni, solo un ridicolo omino che colleziona francobolli.

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