Lo scrittore ceco Miloš Crnjanski

Il male e l'identità sono uniti nel grande quadro corale di Miloš Crnjanski

Vanni Santoni

“Romanzo di Londra”, il miglior romanzo mondiale sull’esilio

Fino a qualche anno fa, tra tanti libri Mimesis di cui sono fiero possessore, c’era un solo romanzo, nella forma dell’indispensabile trittico dei Sonnambuli di Hermann Broch, che peraltro non mi era stato facile ricomporre dato che avevo prestato il primo volume – Pasenow o il romanticismo – senza mai vederlo tornare, e ci ho messo un po' prima di procurarmene una copia da riunire con Esch o l’anarchia e Huguenau o il realismo, il secondo e terzo.

 

Dal 2017 le cose nella mia libreria sono cambiate, in virtù del lancio della collana “eLIT” diretta da Massimo Rizzante e dedicata ai vincitori dell’European Union Prize for Literature, ma anche al recupero di opere chiave della letteratura europea ancora non disponibili nella nostra lingua. Diciannovesimo titolo della collana, che annovera, solo per pescare tra le uscite recenti, anche il notevole La sottomissione del romeno Eugen Uricaru, e che ha trovato, a metà del proprio percorso finora, una nuova e più convincente veste grafica, è il fondamentale Romanzo di Londra, ultimo libro di Miloš Crnjanski, autore da sempre penalizzato, nella portata editoriale delle sue opere, dallo scrivere in una lingua considerata minore, quale è il serbo: basti pensare che il suo capolavoro Migrazioni, pubblicato in forma completa nel 1962, uscì in francese solo quattordici anni dopo, e nelle altre maggiori lingue europee solo dopo il grande successo ottenuto da quella traduzione (da noi ha visto lo scaffale in due volumi usciti rispettivamente nel 1992 e nel 1998 per Adelphi).

 

Così, anche Romanzo di Londra, considerato a buon diritto il miglior romanzo mondiale sul tema dell’esilio, trova solo adesso una traduzione italiana, per mano di Alessandra Andolfo (e cogliamo l’occasione per un plauso a Mimesis, che non si colloca soltanto nel crescente novero delle case editrici che appongono il nome del traduttore in copertina, ma anche in quello, decisamente più ristretto, che all’interno del volume ne riportano la biografia), prima ancora dell’uscita di una traduzione inglese, prevista per la primavera del 2020, che permetterà finalmente di dare una voce al nome inciso nella lapide blu che si può incontrare a Queens Court, a Londra, poco sopra Hyde Park – “Miloš Crnjanski, 1893-1977, Serbian author, lived and wrote here, 1953-1965”.

 

L’autore del “più grande romanzo sull’esilio” (oltre che di uno dei più grandi romanzi sulle migrazioni dei popoli) era infatti a sua volta emigrato e in esilio, naturalmente nella città che possiamo ritrovare nel titolo della sua ultima opera. Leggendo Romanzo di Londra e le peripezie del principe esule Nikolaj Rodionovič Repnin che, strappato dalla Rivoluzione d’Ottobre alla sua Russia e dopo anni di peregrinazioni in giro per l’Europa, si trova, alla fine della Seconda guerra mondiale, a vagare senza sosta assieme alla moglie Nadja per una Londra devastata, si fa presto a passare da un “Miloš Crnjanski, chi era costui?” alla certezza di aver di fronte un possibile classico, per il modo in cui il romanzo fa tardivamente incontrare il modernismo europeo con l’esistenzialismo, dando vita a un quadro corale – sono molti i “colleghi d’esilio” che il principe incontra, ognuno con la sua storia – capace di giocare, da una piovosa oscurità lacerata da lividi lampi espressionistici, anche coi registri della commedia. Ne esce un’ampia riflessione sul male e sull’identità, in cui Londra, la città in perenne cambiamento – e quanto è diversa, infatti, la Londra di Crnjanski da quella odierna: impossibile immaginare una simile distanza a Roma o a Parigi – diventa il simbolo stesso del flusso fangoso in cui i destini umani si dibattono, nell’occasionale illusione di aver preso il controllo del timone. Nessuna sovrapposizione con un’ipotetica terra promessa è possibile: il punto d’arrivo, o di ritorno, pare dirci Crnjanski, non esiste e non può esistere – perché non può esistere, in ultimo, alcuna pace nell’animo dell’uomo del Novecento che sia dotato di una qualche consapevolezza.

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