Rompere gli schemi

Vanni Santoni

Così i virtuosismi di Valeria Luiselli ci riconciliano con la letteratura americana contemporanea

Che tutto ciò che scrive Valeria Luiselli vada letto, lo capii al suo primo libro, “Carte false”, pubblicato da La Nuova Frontiera nel 2013. La scrittrice messicana, ma ormai da tempo newyorkese d’adozione (a pieno titolo: i suoi ultimi due libri, compreso quello di cui andiamo a parlare, sono stati scritti direttamente in inglese), metteva in campo un armamentario semantico, retorico e strutturale di tale raffinatezza da aver fatto pensare in molti – me compreso – a Borges, col quale aveva in comune anche alcuni temi che sono a loro volta approcci alla letteratura – su tutti, il doppio, il falso e l’intertestualità. Così, quando nel mercato di lingua inglese è approdato il nuovo romanzo “Lost children archive”, in libreria anche in Italia come “Archivio dei bambini perduti” nella traduzione di Tommaso Pincio, e si è scatenato l’hype che accompagna le uscite delle scrittrici e degli scrittori entrati nel pieno favore del sistema culturale americano e da lì di quello internazionale, sapevo che per una volta potevo crederci. Believe the hype!, perché da Valeria Luiselli non sarebbe arrivata la solita zuppa che negli ultimi tempi ci riserva la nuova letteratura americana contemporanea: niente lingua e struttura appiattita sugli standard e sui dettami dei Master in Fine Arts in scrittura creativa, dove insegna ormai buona parte degli scrittori americani e da cui vengono quasi tutte le nuove proposte di quell’editoria (secondo un copione sempre uguale: racconto sul “New Yorker” o su “Granta”, raccolta di racconti pompatissima e poi, se quella la sfanga, primo romanzo). No, Valeria Luiselli scriverà pure in inglese e sarà pur amata da quello stesso establishment letterario a stelle&strisce che ci ha portati a questa situazione (e ad andare immancabilmente a cercare le migliori novità letterarie in Romania, Ungheria e Bulgaria, o al limite in Francia, come una volta), ma reca con sé una tradizione e una capacità di osare che sono prima di tutto latine e poi ineludibilmente figlie della Weltliteratur.

 

Così, “Archivio dei bambini perduti”, nel raccontare la storia di una coppia in crisi che parte per un viaggio attraverso gli Stati Uniti assieme ai due figli non consanguinei (il maschio, di dieci anni, è figlio di lui; la femmina, di cinque, di lei) e nell’incrociarla a quella di due bambine messicane che negli Stati Uniti cercano invece di entrare, oltre che alla vicenda storica degli Apache esiliati dai loro territori – il tutto senza mai cadere in allegorie troppo smaccate – mette in campo un arsenale metodologico abbastanza ampio da riconciliare con la letteratura chi si trovasse, oggi, un filo sfiduciato. Le quattro parti del romanzo, che è anche un bel dramma familiare – mirabile la resa del modo di ragionare dei piccoli – e una reinterpretazione della più classica road novel americana, si alternano a “scatole d’archivio” di proprietà dei vari componenti della famiglia protagonista che contengono percorsi bibliografici, mappe, immagini, ritagli di giornale, appunti e certificati di morte. Finché, con la conclusione, arriva un ulteriore, inatteso (o meglio, atteso, per chi conosce già l’autrice) colpo di coda stilistico e strutturale: prima una frase di venticinque pagine che prende il lettore al diaframma e gli toglie il fiato, e poi un cambio di passo in controtempo, con una malinconica serie di Polaroid capaci di far dubitare, in modo squisitamente sebaldiano, della natura finzionale di quanto fin lì raccontato; e a suon di virtuosismi si finisce per rinnovare, in un modo che farà scuola, la forma stessa del romanzo documentale.