Il Figlio

Annalena Benini

Annalena Benini racconta sul Foglio i figli, i genitori, i figli degli altri. Scrivete tutto quello che vi passa per la testa a [email protected].

Annalena Benini, aiutata da altre firme foglianti e da voi lettori racconterà periodicamente i figli, i genitori, i figli degli altri, quello che non si dovrebbe mai fare e che quindi facciamo sempre, le teorie e le catastrofi, le battaglie, gli oggetti, le meraviglie e le ossessioni intorno al mondo piccolo e al modern parenting.

 

Scrivete ad Annalena tutto quello che vi passa per la testa a [email protected]. Le migliori e più significative verranno pubblicate online e su carta.

 

 


 

Il Figlio del 29 luglio 2016

 

 

Una banda di ragazzini alla scoperta del mondo (senza adulti)

(Venerdì 29 luglio 2016)

 

 

Ecco che cosa fanno adesso tutto il giorno i bambini sugli scogli: non pescano più i granchi per liberarli subito dopo averceli mostrati, non corrono più avanti e indietro con i retini e i secchielli e non fanno nemmeno più, o almeno non con vera concentrazione, le gare di gamberetti (chi riesce a trovare più gamberetti nascosti e mimetizzati, ma soprattutto chi trova quei pesci travestiti da mucchietto di sabbia, ha vinto). Stanno seduti là, il più lontano possibile dagli adulti, con le gambe che dondolano sopra il mare, e si raccontano i segreti. Anche i segreti su come catturare molti più Pokemon, o come ottenere il Fiorefante, l’elefante hippie pieno di fiori con il simbolo della pace disegnato sulla fronte, ma questi segreti, per la prima volta, ci vengono raccontati con un po’ di diffidenza e di frettolosità, con l’aria anche un po’ altezzosa di chi sta pensando di perdere tempo e sprecare parole, perché noi adulti con le nostre conversazioni sempre uguali non possiamo davvero capirle. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

L'umano nell'uomo

(Venerdì 29 luglio 2016)

 

Una madre con in braccio il suo bambino ci guarda da cinquecento anni da un dipinto da Raffaello Sanzio: è la Madonna Sistina. L’opera, ha detto il grande scrittore russo Vasilij Grossman, che più di tutte, tra quelle considerate immortali, riesce a mostrarci l’“umano nell’uomo”. Quel quadro ci parla dell’indicibile, perché “c’è, in questa raffigurazione visiva dell’anima di una madre, qualcosa che la mente umana non riesce a cogliere”, e che tuttavia “riesce a farci battere il cuore con la sua straordinaria novità”. E’ “accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina”, conclude Grossman, che “continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola” (“Il bene sia con voi!”, Adelphi). Mi capita da un po’ di tempo di ripensare con una partecipazione nuova a queste parole dell’autore di “Vita e destino”, uno dei libri più belli e importanti mai scritti sul totalitarismo. Grossman le dedicò alla Madonna Sistina dopo averla vista a Mosca nella primavera del 1955, quando la tela, rimasta inaccessibile al pubblico per dieci anni, venne esposta per un breve periodo, alla vigilia della sua restituzione alla pinacoteca di Dresda (dalla città tedesca le truppe sovietiche l’avevano prelevata dieci anni prima, quando il nazismo fu sconfitto, lì è tornata e si trova tuttora). Le parole di Grossman mi colpiscono in modo nuovo. [Continua a leggere l'articolo di Nicoletta Tiliacos]

 


 

Essere popolari a Roma nord, e poi un giorno rispondere: "Scialla" a un papà in incognito

(Venerdì 29 luglio 2016)

 

L’universo adolescenziale si divide in due categorie: una grande massa indistinta, dove sono inseriti tutti, compresi quelli che anche nelle crudeltà adolescenziali vengono definiti “gli sfigati”, e una ristretta casta privilegiata, agognata e imitata: appunto, i popolari. Se diventi popolare hai svoltato, se vieni riconosciuto come popolare hai vinto la prima battaglia della vita. Ma per diventare popolari non basta essere più belli e più simpatici, come è sempre stata impostata la selezione nella giungla dei brufoli e delle inquietudini della pubertà: occorre indispensabilmente un’altra dote, quella di conoscere molte persone e da molte persone essere conosciuti. Una fama non priva di accenti etici (la ragazzina troppo disinvolta o il ragazzetto troppo prepotente non accedono a questo Olimpo reputazionale), ma basata su un concetto più quantitativo che qualitativo. I popolari sanciscono le mode, scelgono i posti dove è giusto radunarsi, gli altri seguono e ambiscono un giorno a diventare popolari a loro volta. [Continua a leggere l'articolo di Andrea Vianello nella rubrica "Padri"]

 


 

La lettera. Perdere una ragazza perché non si va in Grecia in agosto: i giorni più belli

(Venerdì 29 luglio 2016)

 

Cara Annalena, ti scrivo perché tu fai “Il figlio” ed è quindi per me come scrivere a una madre, anche se sconosciuta, e visto che non ti conosco posso dirti quasi tutto quello che a mia madre non riesco a dire. Ho ventitré anni e sono molto innamorato di una ragazza bellissima che mi ha lasciato. Mi ha lasciato perché studio troppo, lavoro troppo, dice lei e forse è vero, sto troppo a Venezia e vado poco al mare con lei, non la porto fuori a divertirci e lei diventa triste, dice che le manco e poi si arrabbia. Ma io Annalena la amo seriamente, però non ho un soldo, e ho tantissimo da studiare e da lavorare, lo faccio perché mi piace e ne ho bisogno, ma i messaggi con lei la sera erano la parte più bella della mia giornata e adesso non ci sono più. In agosto lei parte e va in Grecia con gli amici, che sono anche miei amici, ma mi si spezza il cuore al pensiero di lei in costume da bagno con gli altri e non con me, ma che cosa posso fare? Pregarla di ritornare con me, di stare con me a Venezia in agosto? Non voglio chiedere soldi ai miei genitori, non me li darebbero e comunque hanno un sacco di problemi, ma è possibile perdere la donna della tua vita perché non si può andare in vacanza insieme? E’ possibile perdere quello che ho di più bello perché non sono fortunato economicamente e anche perché so, a differenza di molti della mia età, quello che voglio fare nella vita? In ogni caso grazie, mi sono sfogato e forse adesso le scriverò un messaggio, ma so già che non mi risponderà.
Riccardo A.

Caro Riccardo, scrivile un messaggio, e poi una lettera,  e poi telefonale e poi va’ da lei. Non lasciare che agosto vinca. Se tu fossi mio figlio vorrei aiutarti ad andare in Grecia, però allo stesso tempo sarei molto fiera della tua determinazione e della tua passione dominante, e forse la tua passione dominante non è per la ragazza che ti ha lasciato (che se fossi tua madre troverei probabilmente capricciosa e egoista), ma è per quello che stai facendo a Venezia. Comunque, se è la donna della tua vita, non la perderai. Tornerà, ti bacerà, diventerà di nuovo triste, poi sarà felice ancora, e un giorno molto lontano guarderai questa estate pazza e penserai che sono stati i tuoi giorni più belli.

 


 

Non era il sentimento paterno che si era aspettato. Era la coscienza di un nuovo lato vulnerabile

(Venerdì 29 luglio 2016)

 

Guardando quel minuscolo misero essere, Lèvin faceva vani sforzi per trovare nella propria anima i segni d’un qualche sentimento paterno. Verso di lui provava soltanto disgusto. Ma, quando lo denudarono e guizzarono i braccini sottili, i piedini di zafferano, anch’essi con i ditini, e persino l’alluce che si distingueva dagli altri, e quando vide che Lizavèta Petròvna prendeva quei braccini simili a morbide molle che si protendevano, e li rinchiudeva in panni di tela, lo prese una tale compassione per quell’essere e una tale paura che lei gli facesse male che la trattenne per un braccio (…). E Lizavèta Petròvna sollevò verso Lèvin su una sola mano (l’altra sosteneva soltanto con le dita la nuca dondolante) quello strano essere rosso che si dondolava e nascondeva la sua testa sotto gli orli delle fasce. Ma c’erano anche il naso, gli occhi che guardavano storto e labbra che succhiavano.“Un bellissimo bambino!” disse Lizavèta Petròvna. Lèvin sospirò con amarezza. Quel bellissimo bambino gli suscitava soltanto una sensazione di disgusto e di pietà. Non era affatto il sentimento che si era  aspettato. (…)
 “Guarda adesso”, disse Kitty, voltando verso di lui il bambino affinché potesse vederlo. Il visino senile a un tratto si corrugò ancor di più e il  bambino starnutì. Sorridendo e trattenendo a fatica lacrime di commozione, Lèvin baciò la moglie e uscì dalla stanza buia. Quel che provava per quel piccolo essere non era affatto ciò che si era aspettato. Nulla di allegro e gioioso c’era in quel sentimento: al contrario, una nuova tormentosa paura. Era la coscienza di un nuovo lato vulnerabile. E questa coscienza nei primi momenti fu così tormentosa, la paura che quell’essere inerme potesse essere colpito era così forte, che a causa di essa egli non avvertì la strana sensazione di gioia insensata e perfino di orgoglio provata quando il bambino aveva starnutito.
Tolstoj, “Anna Karenina” (Garzanti)

 


 

Il Figlio del 22 luglio 2016

 

Le sere d'estate al mare, con tutti quegli abbracci finiti per sempre

(Venerdì 22 luglio 2016)

Le sere d’estate quando si deve fuggire soltanto dalle zanzare, uscire di casa con il costume ancora addosso, la sabbia nei capelli, con le monete giuste per il gelato nei trenta secondi in cui non è ancora caduto per terra: e allora camminiamo verso il posto dei bambini, io trascinata e loro saltellanti, mai stanchi, verso un pavimento di legno davanti al mare su cui sbucciarsi le ginocchia e imparare ad andare in bici senza mani e sullo skateboard senza freni. C’è anche l’omino con lo zucchero filato che appiccica ogni cosa e la inghiotte, così dentro la nuvola rosa di quello zucchero si incastrano rametti, sabbia, chiavi di casa, magliette di altri bambini che passano correndo, stelle cadenti che qualcuno giura di avere già visto passare in cielo. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

L'isola che non c'è

 

(Venerdì 22 luglio 2016)

 

Vanno madre e figlia: grossa la madre, piccola la figlia. Vivono camminando, camminano vivendo lungo un tragitto prestabilito, ma a loro ignoto o parzialmente tale. In qualche modo incomprensibile e pertanto sacro come ogni mistero le due femmine  sopravvivono. La madre ha sempre una falcata più lunga di quella della figlia, la figlia piccola invidia molto la madre che calza stivaletti come il gatto del marchese di Carabas. La figlia ignora che un giorno essa stessa indosserà stivaletti analoghi, e la madre ormai vecchia sarà relegata in fondo al carro, condannata a barcollare  qualche passo indietro, e avrà piedoni deformi, incedere malfermo. I capelli assottigliati e spenti, da cui di regola emana un tanfo di decrepitezza in fieri. [Continua a leggere l'articolo di Rosa Matteucci]

 


 

I pensieri di notte con tre bimbe che dormono

(Venerdì 22 luglio)

 

Stanotte mi sono svegliato alle tre. Ho aperto gli occhi nel buio, sono arrivati i pensieri e non sono più riuscito a dormire. Allora mi sono alzato, ho aperto ai cani e siamo andati a fare un giro in giardino. Fuori l’aria era calda, il cielo coperto da nuvole spesse, dal bosco arrivava un rumore come di corteccia grattata con forza. Virginia e io, la settimana scorsa, abbiamo visto un cinghiale dalla finestra del bagno, una volta gli scoiattoli, e adesso mi chiede ogni giorno di andare a vedere. Per i primi anni di vita è stata terrorizzata da ogni forma vivente, mentre oggi è diventata di colpo un’animalista convinta, si arrabbia perfino se schiaccio una zanzara. Quando il rumore è scomparso sono rientrato in casa, ho richiamato i cani e sono salito. [Continua a leggere l'articolo di Matteo Bussola nella rubrica "Padri"]

 


 

La lettera. Buon viaggio, figlio con un piede ancora in terra e l’altro già nel mare

(Venerdì 22 luglio)

 

Cara Annalena, ho scritto questa lettera di saluto a mio figlio. Bella idea “Il Figlio”, davvero.
Non abbiamo fatto altro che separarci, io e te. Così mi sembra la nostra storia, una catena di separazioni successive. La prima volta è stata quando sei nato. Al posto delle capriole che mi facevi nella pancia il vuoto. Ogni acquisizione di autonomia è stata separazione. Tutte quelle prime volte, dallo svezzamento in poi. Il primo giorno alla scuola materna, tu che ti aggrappavi al mio collo e ti disperavi e la maestra che diceva “non si faccia arpionare”. Aveva ragione, ma le avrei dato una sberla. E la prima gita scolastica e la prima vacanza studio all’estero. E quando, adolescente, te ne sei andato per sei mesi a studiare negli Stati Uniti e ci sentivamo su Skype e avevi sempre fretta, ché la notte americana chiamava con le sue sirene. Non fanno altro che andarsene, i figli. L’ho fatto anche io, decenni fa. Adesso vivi altrove, studi in un’altra città. Vengo a trovarti e sei tu a conoscere le strade e i mezzi pubblici da prendere. Entriamo in locali in cui ti conoscono e ti danno del tu. Mi presenti, “mia madre”, dici sorridendo, tutti ti trovano simpatico, sei sempre stato capace di comunicare con gli sconosciuti. E un po’ ho imparato da te, anche i genitori imparano dai figli. (…) Siamo alla vigilia di un’altra partenza, stai per andare ancora una volta al di là di un oceano. Ci sono abituata. E tu sei più grande, potrei anche non essere ansiosa. Ma non sarà proprio così. Mi raccomando, trova il tempo, trova dieci minuti per due chiacchiere su Skype, per un messaggio su Whatsapp ogni tanto. Io il tempo lo misuro da anni sulle tue giornate di cui non so più nulla. Anche se da quando mi sveglio (all’alba) a quando vado a dormire (tardi) faccio mille cose, inseguo i minuti, corro e mi affanno, c’è un altro ritmo nascosto, scandito dalle domande sciocche delle madri, si sarà alzato? Avrà pranzato? Sarà tornato a casa? Starà dormendo? Buon viaggio, ragazzo.

Rosalia Messina

Cara Rosalia, non fanno altro che andar via, quindi buon viaggio a tutti i ragazzi: è bello che partano, è bellissimo quando tornano e lasciano le cose in giro e hanno così fame che forse non hanno mai mangiato prima di adesso, e si addormentano, così grandi, ancora piccoli, sul divano. Ricordatevi di mettere in carica il telefono.

 


 

Charlie Ravioli, l’amico immaginario di una bimbetta newyorchese, è troppo impegnato per giocare

(Venerdì 22 luglio)

 

Mia figlia Olivia, tre anni appena compiuti, ha un amico immaginario che si chiama Charlie Ravioli. Olivia sta crescendo a Manhattan, e quindi Charlie Ravioli ha moltissimi tratti locali: vive in un appartamento “fra Madison e Lexington”, cena con pollo alla griglia e frutta, da bere prende acqua, ed essendo arrivato alla bella età di sette anni e mezzo, si sente grande – o è ritenuto tale. A ben vedere, però, l’aspetto più tipicamente locale dell’immaginario compagno di giochi di Olivia, è che ha sempre troppo da fare per giocare con lei. Olivia si porta il cellulare giocattolo all’orecchio e noi sentiamo quello che dice mentre ci parla dentro: “Ravioli? Sono Olivia…Sono Olivia. Vieni a giocare? D’accordo, richiamami. Ciao”. Poi lo chiude di scatto e scuote la testa. “Becco sempre la segreteria” dice. Oppure ci comunica: “Oggi ho parlato con Ravioli”. “Ti sei divertita?” ci informiamo io e mia moglie. “No, era pieno di lavoro. Su una televisione”.
In un giorno fortunato, Olivia “s’imbatte” nel suo invisibile amico e poi vanno insieme in un caffè. “Mi sono battuta in Charlie Ravioli” annuncia a cena. “Abbiamo preso un caffè, ma lui era di corsa”. A volte sospira di fronte alla propria incapacità di conciliare gli impegni suoi e dell’amico, ma accetta la situazione come qualcosa di inevitabile: la vita è fatta così. “Mi sono battuta in Charlie Ravioli. Stava lavorando”. Poi aggiunge, illuminandosi: “Ma siamo saltati su un taxi”. “E poi che è successo?”, le chiediamo noi. “Abbiamo pranzato al volo”, spiega.
Adam Gopnik, “Una casa a New York” (Guanda)

 


 

Il Figlio del 15 luglio 2016

 

Come si tradiscono le madri, come si distruggono gli armadi

(Venerdì 15 luglio 2016)

 

Ho iniziato a tradire mia madre quando ero piccola: andavo in prima elementare e incontravo le madri dei miei compagni, immaginavo di andare a casa con loro, immaginavo che fossero loro mia madre. Mia madre era molto giovane e molto bella, forse la madre di cui si poteva andare più fieri all’uscita da scuola, e certe volte veniva a prendermi addirittura in motorino, con i jeans scoloriti e le magliette americane: io avevo sette anni e lei trentadue, ne dimostrava venticinque, appena c’era un po’ di sole era già abbronzata, il sorriso le illuminava la faccia e nessuno faceva battute belle come le sue, io non le capivo sempre ma vedevo che ridevano tutti. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

Io non sono lui

(Venerdì 15 luglio 2016)

 

Elia sfila sigarette dai pacchetti che suo padre lascia in giro, va a fumarle dietro casa, seduto sui talloni con la schiena contro il muro, tremando. Quando finisce corre dentro e si lava i denti. Passa il tempo in camera a leggere fumetti, ha smesso di uscire con gli amici, che pure loro hanno padri strani, padri che bevono o alzano le mani, padri frustrati, ma sono padri che almeno non immaginano complotti, non scrivono lettere chiusi in garage di notte e di giorno, non stanno con lo sguardo perso e la sigaretta appesa alle labbra stravaccati sulla sedia della cucina. Sono padri violenti forse, ma non sono padri che stanno ammattendo, e questo fa la differenza quando il mondo è una piccola casa sulla collina e un paese là sotto che chiacchiera e basta. Elia è il protagonista di “La vita felice” (Einaudi), ultimo preciso e sconvolgente romanzo di Elena Varvello. [Continua a leggere l'articolo di Paola Peduzzi]

 

 

 

 


 

A che serve la letteratura con un figlio assetato che di notte si trasforma in Mister Hyde

(Venerdì 15 luglio 2016)

 

La potenza delle urla di nostro figlio frantuma il silenzio del parco vicino, squarcia lo spazio arancione della via desolata. Io provo a trattenerlo, lui si divincola e si dispera, inarca la schiena. Certe volte, il suo autolesionismo è tale che il mio è solo uno sforzo di protezione e contenimento. Provo a evitare qualsiasi colpo possa infliggersi alla nuca o alle tempie. Vivo fisicamente il sogno e l’orrore di ogni padre, personifico l’impossibile pretesa del genitore che vuole sottrarre il proprio figlio dal patimento del dolore. Di giorno, ogni mattina, con la luce, è tutto diverso. Ma di notte lui affronta sempre quel tunnel della solitudine e si trasforma. Per questo l’ho chiamato Mister Hyde. [Continua a leggere l'articolo di Vins Gallico]

 


 

Mio figlio non mi parla. Mi chiedo perchè l'amore abbia bisogno di contrasto

(Venerdì 15 luglio 2016)

 

Mio figlio non mi parla. Lo so che mi ama, ci mancherebbe, e so che mi ama specialmente quando mi dice che mi odia, che non so niente di lui, e che non ha nulla, ma proprio nulla, in comune con me.
So anche che la sua è l’età in cui i figli non parlano con i padri, e li attaccano con violenza, li prendono in giro, se ne vergognano e li umiliano. Li uccidono, insomma.
Tutte queste cose le so, perché qualche libro l’ho letto, ma soprattutto perchè le ho fatte anch’io con mio padre. Sembra ieri.
Poi però mio padre se n’è andato proprio mentre lo insultavo e lo prendevo in giro, e non ho mai avuto il tempo di riconciliarmi. Mi chiedo se sia stato il destino o il Padreterno a decidere che succedesse così. E se quell’addio improvviso fosse un suo modo di rispondermi.
Comunque sia, mi porto dentro questo tormento dall’ultimo giorno in cui ha tentato di parlarmi, e poi, quando me l’hanno fatto vedere la mattina dopo, sdraiato sul letto con il vestito blu e il rosario in mano, già composto per la bara.
Fino alla sera prima facevo tutto il contrario di quello che mi diceva, e lo facevo in maniera che se ne accorgesse: era il mio modo di comunicare, di diventare grande, ma ora lo maledico quel mio linguaggio.
E’ stato così sin dall’inizio dei tempi, non m’illudo certo di cambiare il modo in cui si diventa uomini, ma mi chiedo perché l’amore abbia bisogno di contrasto. Perché debba travestirsi da odio. Perché debba arrecare dolore.
A mio figlio vorrei dire che mi fa soffrire. E di parlarmi, perché lo conosco bene, questo suo linguaggio, ma ho voluto dimenticarlo.
Vorrei dirgli che quando cerco di parlargli provo a spiegare com’è che si diventa uomo. Perché è quello che deve fare un padre, ed è questo il linguaggio della mia età.
Mi chiedo se amare significhi trovare il linguaggio giusto.
Ma poi penso che forse anch’io devo diventare un uomo. E che forse in realtà non lo diventiamo mai. 

Antonio Monda
Tratto da “The Book of Men, eighty writers on how to be a man”, antologia americana curata da Colum McCann

 


 

Guardai quella ragazza e pensai: com'è colorata, da grande voglio essere identica a lei

(Venerdì 15 luglio 2016)

 

Mi chino a raccogliere le polaroid. Mostrano una persona che sia io che lui conosciamo benissimo. La conosciamo proprio così, con questo viso felice. E’ entrata nella nostra testa una mattina che ce ne stavamo fermi – io lui mamma – in una strada tranquilla di Roma. Eravamo venuti apposta da Napoli. Ci sentivamo dentro un grigiore terrorizzato e aspettavamo proprio lei. Mamma ce lo spiegò: aspettiamo, disse, che esca da quel portone insieme a papà. E infatti, quando nostro padre e questa ragazza uscirono – com’erano belli insieme, luccicavano –, mamma ci disse: ecco, vedete com’è contento papà, quella è Lidia, la donna per cui ci ha lasciati. Lidia: il nome mi sembra tuttora un morso d’animale. Quando mamma lo pronunciava, la sua disperazione diventava la nostra, ci sentivamo in tre dentro un corpo solo. Ma in quell’occasione io guardai quella ragazza attentamente e mi si ruppe intorno l’organismo unico di cui ero parte. Pensai: com’è bella, com’è colorata, da grande voglio essere identica a lei. Di quel pensiero sentii subito la colpa, la sento ancora, è una vita che la sento. Mi resi conto che non volevo più assomigliare a mia madre e che perciò la stavo tradendo. Se avessi avuto il coraggio avrei gridato volentieri: papà, Lidia, voglio venire a passeggio con voi, non voglio stare con mamma, mi spaventa. Invece adesso, in questo preciso momento, provo per mia madre e per me una grande pena. Lidia è nuda, ed è abbagliante. Noi due non siamo così, non lo siamo mai state, la presenza segreta di queste foto lo dimostra. Da Lidia mio padre non si è mai separato, e come avrebbe potuto: l’ha tenuta nascosta nella sua testa e nella nostra casa per tutta la vita. Noi, invece, anche se è tornato, ci ha lasciate. E adesso che sono molto più vecchia di Lidia in queste foto, e anche più vecchia di quanto fosse mia madre a quel tempo di dolore insopportabile, nel vederla mi sento ancora più umiliata.

Domenico Starnone, “Lacci” (Einaudi)

 


 

Il Figlio dell'8 luglio 2016

 

Il teatro del perfetto papà moderno è una spiaggia affollata

(Venerdì 8 luglio 2016)

 

 

La ragazza sulla spiaggia è bella e gioca con sua figlia, che sta imparando a dire mamma, a prendere la sabbia in mano, a toccare l’acqua con i piedi. La bambina lancia piccoli urli di gioia e tutti si fermano a guardarla: già si mette in posa, a nove o dieci mesi, non può averne di più, mentre la mamma seduta sulla sabbia accanto a lei le scatta foto con il telefono. La mamma la chiama per nome, sorridendo con dolcezza, con quella totale dedizione amorosa e stupita che i bambini piccoli calamitano a sé, lei gira la testa, spalanca ancora di più lo sguardo e resta ferma il tempo necessario alla foto. Poi ricomincia ad accarezzare la sabbia, a cercare di infilarsene il più possibile in bocca. E’ una bambina nuova, appartiene al mondo nuovo, sa toccare uno schermo per ottenere luci e suoni, sa fissare con intensità quei cosi che tutti, anche i nonni, gli amici dei nonni, i bambini grandi, le puntano addosso per avere un sorriso, una guancia morbida, una foto del costumino con i cocomeri. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

Perdere i superpoteri

(Venerdì 8 luglio 2016)

 

Quand’è che smettiamo veramente di sentirci figli? Succede a tutti o solo ai migliori (o ai peggiori) di noi? Dobbiamo aspettare la morte dei nostri genitori oppure tanto vale rassegnarci al fatto che figli lo saremo per sempre o che non lo siamo mai stati? Ciascuno ha una risposta diversa, eppure io so con certezza che a me è successo in quel momento lì, quel giorno preciso e nessun altro. Il giorno in cui ho aperto la prima busta paga e dentro c’era uno stipendio miserello, ma io non leggevo i numeri, leggevo solo “fine dell’adolescenza” ed era una scritta forte, che lampeggiava. Il giorno prima di trasferirmi nel nord della Germania dove avrei avuto una casa tutta mia, mangiato quello che mi pareva e invitato a dormire chi volevo. Il giorno in cui, fuori dalle elementari, mio padre mi aspettava in mezzo agli altri genitori e non mi sembrava solido come loro ma debole e malato e avevo paura che svenisse o finisse travolto dalla folla. [Continua a leggere l'articolo di Nadia Terranova]

 


 

Una stanza d'opedale, una figlia che piange

(Venerdì 8 luglio 2016)

 

Dal momento in cui ti dicono che tua figlia di pochi mesi deve essere ricoverata d’urgenza ti dici: No, non a lei, non a me. Guardi tua moglie che la tiene mentre le entrano nelle piccole braccia con aghi che sembrano enormi e ti sforzi di sembrare forte, un argine alla preoccupazione, sperando di non dover essere la spalla su cui piangere. Non ce ne sarà il motivo, passerà tutto. Poi tua moglie prende tua figlia, la stringe forte e diventano della stessa sostanza. Un padre il proprio dolore lo capisce in ritardo perché non sa come si fa. Un padre è abituato a essere una figura d’amore in supplenza, non ha generato, non ha partorito, i figli li vede al mattino e alla sera, ha quasi paura dell’intimità assoluta di questi esseri piccoli e bisognosi. [Continua a leggere l'articolo di Michele Rossi]

 


 

La lettera. Insonnia d’amore, e forse due nonni in cima all’Empire State Building

(Venerdì 8 luglio 2016)

 

Cara Annalena, le chiedo di inoltrare questa mia risposta alla signora Maria Cristina.
Cara Nonna Maria Cristina,
ho letto la sua accorata lettera sul Figlio del primo luglio 2016. Sono anch’io vedovo da molti anni e per anni ho aiutato mio figlio e mia nuora, impegnati con il loro lavoro, a crescere due nipotine; facevo la minestrina la sera e aiutavo le bambine a mangiarla. Poi lavavo i piatti (mia madre e mio padre buonanime mi avevano insegnato anche questo, oltre ad aiutarmi a divenire pediatra e libero docente).
Una sera mio figlio, gentilmente devo dire, mi ha detto che “sì, nonno lava i piatti, ma non li sciacqua bene”. La conseguenza è stata che non ho più lavato neanche un bicchiere, pur continuando a fare la minestrina e a darla a quelle povere bambine. Veda lei se può derivarne un qualche insegnamento …pediatrico. Un caro saluto nonnesco

Nonno G (Gianni Ceccarelli, pediatra)

Caro Gianni, ho inoltrato la lettera, come mi ha ordinato. La signora Maria Cristina aveva scoperto di “essere lo zimbello” della famiglia di suo figlio per l’attenzione all’ordine, alla pulizia della casa e alla cura dei nipoti. Era offesa e amareggiata e aveva rinunciato alla villeggiatura con i bambini. Ora, considerando l’estate che esplode e anche “Insonnia d’amore” e “C’è posta per te”, due film molto importanti per la vita sentimentale di chi scrive lettere, sarebbe giusto che voi due vi incontraste in cima all’Empire State Building, o anche più vicino, a Piazza Navona. Potreste ridere dei vostri figli e delle loro fissazioni e andarvene un po’ in giro senza pensare alla minestrina delle bambine. Quando tornerete, i vostri figli vi abbracceranno forte e i nipoti vi imploreranno di restare.

 


 

Tu cresci e io perdo la forza, mi si staccano pezzi di armatura a ogni passo. Vorrei portarti al mare

(Venerdì 8 luglio 2016)

 

Per ogni anno della tua vita c’è stato un dolce inganno di anestesia. Tenerti nelle braccia e dirti “guarda” mentre scendeva il liquido in vena. Ora che sei più grande l’inganno non è perpetuabile e mi dicono di parlar chiaro.
A parlare chiaro davvero: vorrei portarti al mare.
Spendere questi soldi di aereo per fittare un gozzetto e andare a fare il bagno al largo con i braccioli. Invece siamo in questa altra sala d’attesa con le gocce negli occhi e un obiettivo ben preciso: capire oltre quali vetri e di che spessore e consistenza e curva tu guarderai il prossimo anno.
Bisogna giocare d’astuzia e di pazienza, cioccolata e convincimento. Devo convincermi prima io che sia normale stare qui seduta ad aspettare che dicano il nostro nome, invece di stare su quel gozzo a nolo fuori Punta Solchiaro.
Mi convinco, ma mi riservo di non accettare. Attorno a noi, ci sono tanti Tiresia già più lungimiranti di me eppure così piccoli negli anni. Le madri li siedono ai loro posti di gioco, e loro con le mani nella plastilina formano il mondo. Noi tutte ci guardiamo, ci sorridiamo spesso, più del normale, più del dovuto. E’ il nostro patto implicito di madri in sala d’attesa.
I piccoli indovini sanno che fuori ci sono torvi canti d’uccelli e ululati di cani selvatici e città impure da passare al fuoco.
E così più tu cresci più io perdo la forza, mi si staccano pezzi d’armatura a ogni passo. Ecco: il medico chiama, devo dirti che è una sciocchezza e che ci vogliono cinque minuti.
Ma quando tu ti opponi a che mani altrui ti tengano le palpebre aperte e quello dice: “Lo mantenga”, io lo faccio.
Ti continuo a parlare nell’orecchio, ma poca cosa devono essere quelle parole, e in esse una frequenza che nega ciò che il verbo afferma.
Non accetto però lo faccio. Però non accetto.
Valeria Parrella, “Tempo di imparare” Einaudi

 


 

Il Figlio del 1 luglio 2016

 

Nella sabbia a faccia in giù per una pallina. La fortuna di perdere

(Venerdì 1 luglio 2016)

 

 

Nel posto di mare c’è una macchinetta rossa per vincere le palline di gomma. Si infilano cinquanta centesimi, si gira la manopola e si impugna il volante, perché sta per arrivare una pallina che bisogna guidare fino al traguardo evitando le buche. Se la pallina cade in un buco, è persa. Se invece arriva fino al buco giusto, dopo il percorso pieno di ostacoli, allora uscirà da un cancelletto e sarà per sempre sua. Nelle sue mani insabbiate, mentre la bacia e saltella ed è contento perché non aveva ancora vinto una pallina trasparente con dentro un pesciolino rosso che nuota nella gomma. Quando invece la pallina cade nel buco sbagliato, perché alla curva stringe troppo, lui si dispera e tira la sabbia. Ha un problema con la sconfitta, penso, non regge la competizione, se perde anche a biliardino la giornata è rovinata, se non pesca nemmeno un granchio dirà che vuole tornare a Roma. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

Silicone a merenda

(Venerdì 1 luglio 2016)

 

Ho avuto solo maschi e mi illudevo che l’educazione sessuale toccasse ai padri. Invece hanno rivolto a me qualunque domanda, pure su questioni teoriche e politiche: “Mamma, si può essere due mariti oppure due mogli?”. Ho risposto: “Certo”, mentre distribuivo barchette di mela a merenda. Per le faccende tecniche, all’occorrenza, gli insegnanti delle nostre scuole di sinistra e libertarie entravano nei dettagli. Ma dare per scontato che i bambini avrebbero creduto alle risposte degli adulti è stato un grave errore. [Continua a leggere l'articolo di Paola Tavella]

 

 


 

Domande oblique per scoprire la temperatura emotiva della figlia

(Venerdì 1 luglio)

 

Se a mia figlia infatti domandassi semplicemente: come stai? come risposta ne riceverei, ben che mi vada, un insopportato “uffa”, ma più di frequente un umiliante “vaffanculo”. Perciò, per indagare sul benessere spirituale di mia figlia oramai adulta e indipendente, ho deciso di aggirare l’ostacolo frontale e di chiederle subdolamente: hai forse chiamato il vivaio che da mesi dovrebbe aver già portato piante e vasi per la tua amata e invidiabile terrazza? ma lei risponde sempre: “No”. Secco, perentorio, ma non infastidito, e tanto meno umiliante. Mi accontento. Vado per gradi. Sto infatti diventando un esperto dell’indagine obliqua. Misuro la temperatura emotiva di mia figlia con domande apparentemente innocue, ma in realtà sempre orientate a un secondo fine. [Continua a leggere l'articolo di Pierluigi Battista]

 


 

La lettera. Una nonna molto offesa e un consiglio estivo: non lavare mai il pavimento

(Venerdì 1 luglio)

 

Gentile Annalena, Le scrivo questa lettera che spero leggerà per raccontarle la mia storia di nonna offesa (…), quest’anno ho deciso di non andare al mare con mio figlio e i miei nipoti a cui voglio molto bene e di cui mi sono sempre occupata quando mia nuora lavorava e era troppo stanca per fare questo e troppo impegnata per fare quell’altro e io che ero in pensione ho sempre cercato di essere gentile e utile ma adesso scopro, attraverso le confidenze della mia nipotina amatissima, che sono lo zimbello della loro famiglia. Si burlano di me perché sono ordinata, perché ci tengo a sistemare tutto per bene, perché mi preoccupo per loro che non prendano freddo o caldo o abbiano fame, credo anche per le cose che dico. La mia nipotina è tanto innocente, ma io non posso fare finta di niente davanti a questa ingratitudine e maleducazione (…) Ho detto che non me la sento e sinceramente mi aspettavo un po’ più di comprensione. Passerò l’estate a casa da sola, sono vedova da molti anni, ma sarà meglio che essere il clown di mia nuora e non avere il rispetto di mio figlio. Che cosa ne pensa Lei? Dà ragione a loro perché sono più giovani?
Maria Cristina P.

Cara Maria Cristina, mi è tornato in mente leggendola un articolo di Natalia Ginzburg, pubblicato nella raccolta: “Mai devi domandarmi”. Si intitola: “I lavori di casa” e racconta di una madre e nonna che la mattina d’estate aspetta con apprensione che tutti, i figli, i figli dei figli, gli amici, le nuore siano andati al mare, lenti e rumorosi, per mettersi a lavare il pavimento con furia. Pensando al fatto che nessuno più lava a terra, considerandola una mortificazione dello spirito, e che nessuno più fa uscire i bambini di casa preso la mattina, ma lascia che ciondolino per casa, sbriciolando biscotti e lacrimando per l’indecisione dei genitori. Così la madre lava a terra e si chiede perché lo fa. “Se in memoria della propria madre o per un arido e maniaco piacere. Non lo fa per amore della casa; della casa, ha capito che non gliene importa nulla. Ciò che al mondo le importa sono i figli, e i loro dolci e riccioluti bambini: persone a cui non interessa affatto che i pavimenti vengano lavati o no”. Insomma, andrei al mare a non lavare mai, per il tempo in cui lei resterà là, il pavimento e tutto il resto.

 


 

Fuori! Là è la vita vera, il mondo, l’avventura. Uscire fuori dal nido e poi denudare la mente

(Venerdì 1 luglio 2016)

 

Con un’intensità maggiore o minore, ogni bambino aspira a diventare adulto e non vede l’ora di andarsene di casa, fuori dal suo nido oppressivo. Fuori! Là è la vita vera, il mondo, l’avventura. Là potrà vivere come vuole.
Col tempo il suo desiderio si avvera. E per un po’ è tutto assorbito da nuove prospettive, assorbito dall’impegno di costruirsi il suo nido, di fabbricarsi la sua realtà personale.
Poi, un giorno, quando è padrone della nuova realtà, quando può vivere come vuole, scopre improvvisamente che il suo vecchio nido non c’è più, che quelli che gli hanno dato la vita sono morti.
Quel giorno si sente come un effetto privato di colpo della propria causa. L’enormità della perdita la rende incomprensibile. La mente, denudata da questa perdita, si contrae e contraendosi non fa che ingrandire la vastità della perdita.
Lui, allora, si rende conto che tutta la sua giovanile ricerca della “vita vera”, il suo distacco dal nido, hanno tolto a quel nido ogni difesa. E’ già una disgrazia: ma almeno può darne la colpa alla natura. C’è però qualcosa di cui non può incolpare la natura, ed è la scoperta che ciò che ha ottenuto, la realtà che si è costruito, è meno solida della realtà del nido abbandonato: se c’è mai stato qualcosa di reale nella sua vita, era proprio quel nido, oppressivo e soffocante, dal quale aveva tanta voglia di andarsene.

Iosif Brodskij, “Fuga da Bisanzio”

 


 

Il Figlio del 23 giugno 2016

 

Il summer camp di “Shining”, la febbre alta e i baci sulle guance

(Venerdì 24 giugno 2016)

 

Sei ore dopo che avete abbracciato vostro figlio per salutarlo, e giurato che no, l’albergo di montagna non assomiglia per niente a quello di “Shining”, e sarà una settimana magnifica e faranno rafting, e  comunque sette giorni passano in fretta, sei ore dopo lo sguardo carico di apprensione e gratitudine lanciato al maestro del summer camp in bermuda color khaki, sei ore dopo la libertà, i progetti, l’ubriacatura da solitudine, a casa in mutande e vino ghiacciato, sigarette con la finestra chiusa e pensieri anche sconci, cominciano i messaggi. “Portatemi via da qui”. “Non ho amici”. “Mi fa schifo”, “Ti prego mamma, se mi vuoi bene vieni a prendermi”. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 

 


 

E’ per il tuo bene

(Venerdì 24 giugno 2016)

 

Mentre i miei compagni di classe facevano l’esame di maturità io ero in giro a fare promozione del mio primo romanzo, “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire”. Avevo lasciato la scuola pochi mesi prima perché, fra professori che mi toglievano il saluto e chi evitava di pronunciare il mio nome all’appello, e quel simpaticone che si divertiva a fare scritte oscene col mio nome davanti al cancello di scuola, non è stato facile. Non è stato facile nemmeno a casa far digerire quel libro e soprattutto il fatto che, nemmeno maggiorenne, avessi già spiccato il volo. Ma a casa niente è mai stato facile e se scrivevo e a sedici anni mandavo lettere di presentazione agli editori con manoscritto allegato era perché, appunto, a casa non volevo più starci. E quella era la mia occasione, anche se significava rinunciare all’esame di maturità, al diploma, a tutte quelle cose che avevo dato per scontate prima di avere la brillante idea di pubblicare un romanzo che in poco tempo si era trasformato nel caso editoriale più clamoroso degli ultimi venti anni. [Continua a leggere l'articolo di Melissa Panarello]

 


 

La linea frastagliata dei mie figli

(Venerdì 24 giugno 2016)

 

Sono vent’anni, più o meno, che porto i miei figli a scuola. Non perché mi sia intestardito nell’accompagnare chi tra pochi mesi avrà la patente e potrebbe quindi accompagnare me al lavoro. Ma perché sono vent’anni, più o meno, che mi riproduco con tenace ostinazione. Quando mi chiedono: “Lei quanti figli ha?” mi prendo sempre un attimo di sospensione per assestare il colpo e godermi la reazione dell’interlocutore. E’ una piccola debolezza da sadico, ma non posso farne a meno. So già che quando risponderò: “Quattro”, mi guarderanno come si guarda un lemure. Magari mi diranno: “Che bravo, che coraggio”, ma quasi sempre penseranno: “Che stupido irresponsabile”. E quando aggiungerò: “Da due mamme. Straordinarie, una vera benedizione”, questi dentro di sé aggiungeranno: “Che stronzo”. [Continua a leggere l'articolo di Andrea Romano nella rubrica "Padri"]

 


 

La lettera. Una madre che illumina le stanze e il coraggio di alzare la mano e dire: anch’io

(Venerdì 24 giugno  2016)

Cara Annalena, ho letto su questa sua pagina Figlio la lettera di M.Costantini, che si è sentita inadeguata come madre, non abbastanza bella e non abbastanza brava. Vorrei dire a lei e a tutte le madri come lei che non è colpa loro: siamo noi figlie, che non ci va mai bene niente. Io che non ho figli e ho tre cani e due uomini e un pappagallo, ci ho messo tanti anni di analisi e di infelicità ad ammetterlo: avrei tanto desiderato una madre così così, e per tutta la mia infanzia e anche dopo, quando cominciavo a lavorare, quando vivevo da sola, ho sofferto a causa della bellezza (ma non era solo la bellezza, era tutto l’insieme del corpo, la mente, il sorriso, i capelli, era che lei entrava in una stanza e la illuminava) di mia madre, che adesso non c’è più e mi manca ogni giorno. Io ho cinquantasette anni, quasi l’età di mia madre quando è mancata, ed era malata ma era sempre bellissima. Era simpatica, generosa, portava le gonne corte e io invece sempre i pantaloni perché non avevo le gambe belle come le sue, tutti gli uomini si innamoravano di lei, i padri delle mie amiche anche, sui mariti delle sue amiche ho alcuni sospetti e sono successe anche cose fastidiose sotto casa, ma le mie amiche mi dicevano che fortuna avere una madre così, che ti lascia fare tutto, che è sempre di buonumore. Volevano venire tutte a casa mia a dormire, non per me ma per mia madre! (…) Mio padre era molto fiero di lei, la guardava sempre, mio fratello anche era fiero e i suoi amici al liceo non facevano la corte a me, che avevo tre anni meno di loro ed ero sempre arrabbiata, ma a mia madre. Io le trovavo tutti i difetti del mondo, le dicevo che mi faceva vergognare con quelle gonne corte, le dicevo che le sue torte facevano schifo e invece faceva delle crostate deliziose con la crema, che a me non sono mai riuscite. Desideravo che sparisse o che diventasse vecchia e brutta. Che stupida sono stata! Anzi, che stronza. Cara M. Costantini e care tutte, spero di esservi d’aiuto: le figlie sono molto spesso stronze. Un saluto sincero,

A. Bassi

Cara A., posso soltanto alzare la mano e dire: anch’io.

 


 

Mio grande dad, ti voglio bene e accetto che tu sia l'uomo

(Venerdì 24 giugno 2016)

 

Mio grande Dad, (…) ti voglio bene, sei mio padre e ti amo come sei, così vivo, con quel tuo buon odore di pipa, le tue inflessioni di voce, il tuo modo di tirar fuori il fazzoletto di tasca e soffiarti il naso.
Abbiamo tutti la tendenza a fermarci all’aspetto esteriore, all’involucro del corpo che si logora, o all’immagine del padre che ci siamo creati una volta per tutte e alla quale facciamo ben poche concessioni.  Non osiamo scavare un po’ più a fondo e mettere in crisi quello che ci fa comodo pensare. Restiamo ciechi.
E io sono stata cieca (o meglio ho voluto esserlo) in particolare su un punto della tua vita privata, forse il più importante: il tuo affetto per Teresa. parli della “resistenza” che i tuoi figli manifestano nei suoi confronti. E’ vero. Per quel che riguarda me, non l’ho mai accettata, e spesso per ragioni vaghe che venivano dal mio subconscio. Oggi mi rendo pienamente conto di quanto fossi egoista: ti volevo tutto per me, sempre disponibile alle mie esigenze, ai miei capricci di bambina. Volevo in esclusiva il “mio” Dad. Non ammettevo che tu fossi l’uomo di un altro amore.
Ma perché tu, da parte tua, non ci hai mai presentato Teresa nel suo vero ruolo? speravi forse che avremmo capito da soli? Non è stato così. La sua posizione accanto a te era ambigua (…)
D’ora in poi accetterò Teresa di buon grado. Non posso continuare a respingerla e contemporaneamente a voler bene a te, dal momento che lei fa parte di te. Mi viene da dire: d’ora in avanti prendo tutto! Il mio Dad, l’uomo, e il suo amore per un’altra. Ho talmente bisogno di inglobarti tutto intero! Do un po’ i numeri, vero? Sembra la lettera di una donna all’amante o al marito. Io sono solo tua figlia, ma ti confesso che trovo affascinante dimenticarlo per un attimo e mostrarti il mio lato “femmina”. Con una strizzatina d’occhio. La tua piccola Marie-Jo

“Memorie intime” di Georges Simenon (Adelphi)

 


 

Il Figlio del 17 giugno 2016

 

Il magico potere del disordine e gli scherzi telefonici

(Venerdì 17 giugno 2016)

 

Questa non è una carta di merendina abbandonata sul tavolo accanto alla cannuccia del succo di frutta, sopra un quaderno con la copertina rotta, tre tappi di penna morsicati, una matita spaccata in due, una tazza da cui spunta il telecomando e un cavo di qualcosa, anche se nessuno in famiglia è mai riuscito a scoprire di che cosa (da dieci mesi proviamo, a turno, a infilarlo in ogni computer, tostapane, televisore, macchina fotografica, lettore dvd, lavastoviglie o ferro da stiro, e non lo spostiamo perché abbiamo paura di trovare un giorno l’oggetto in cui va infilato il cavo, ma avendo perso per sempre il cavo). Questo non è disordine, è un atto creativo, ha detto la maestra d’inglese hippie. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

Lo zoo di Puskin

(Venerdì 17 giugno 2016)

 

Se il sociologo va alle partite per guardare gli spettatori, la scrittrice per ragazzi va allo zoo a studiare i figli degli altri. No, non è vero, quando domenica scorsa ho comprato il biglietto per il bioparco ero in buona fede: volevo davvero rivedere i cercocebi e il licaone, salutare l’ippopotamo che la volta precedente non si era degnato di mostrarmi altro che il fondoschiena, prendermi tempo per analizzare il camaleonte yemenita e il piumaggio immacolato del cacatua delle Molucche. Sono nata nel secolo scorso, sebbene in tarda decade, e mi scuso con il presente ma non ho ancora aggiornato la vecchia, bizzarra idea che i musei siano luoghi di conoscenza; vado allo zoo con l’animo di un esploratore naturalista dell’Ottocento e un’acerba felicità dovuta alla convinzione che oggi tanti bambini fortunati possano fare lo stesso. [Continua a leggere l'articolo di Nadia Terranova]

 


 

Il progressista Pascale e la vena che si gonfia per il figlio ambientalista ma un po’ borbonico

(Venerdì 17 giugno 2016)

 

A volte nella scuola dove vanno i miei figli arrivano degli ambientalisti. Io mi lagno perché sono un progressista. Ora lasciamo stare mia figlia, pensa solo a studiare e va bene, mio figlio invece è quasi come ero io un tempo, cioè abbastanza sfaccendato. No, un momento, non proprio come me: io ero un totale perdigiorno – sempre rimandato, in italiano soprattutto. Nemmeno compiuta la maggiore età e già avevo la doppia tessera (Democrazia proletaria e Radicali) e stavo indaffarato con i ciclostili. Mio figlio, invece, studia, a volte il minimo indispensabile, a volte un po’ di più. Tuttavia è come me: il mondo fuori gli interessa più di quello dentro la classe. Quindi partecipa ai dibattiti. Dovrei essere contento, ma non posso nascondere la mia preoccupazione: quella di crescere un figlio reazionario. [Continua a leggere l'articolo di Antonio Pascale nella rubrica "Padri"]

 


 

La lettera. Le madri belle delle altre. Per non parlar del cane e del gatto sociopatico

(Venerdì 17 giugno 2016)

 

Cara Annalena, desidero ringraziarti perché mi dà molto sollievo leggere il tuo inserto, perché finalmente non mi sento più così tanto come negli anni scorsi una madre snaturata e incapace. Mi capitava spesso di svegliarmi la notte pensando a tutto quello che stavo sbagliando con mia figlia che adesso va in seconda media e già alle elementari preferiva le madri delle sue compagne di classe: tornava a casa dopo i pomeriggi di gioco in cui io facevo i salti mortali per andarla a prendere e mi diceva, per tutta la strada in macchina che di solito era anche lunga perché noi non abitiamo tanto vicine alla scuola, quanto era bella la madre di questa, quanto era simpatica la madre di quella, e che buone torte e che bei vestiti. A me non sembravano neanche così simpatiche e belle, però sorridevo e le davo ragione e le proponevo di invitarle qualche volta a casa nostra, noi abitiamo da sole perché mio marito ha preferito un’altra vita in un’altra città con un’altra donna e un altro figlio, ma lei diceva sempre no, no, mi diverto di più quando vado io. A me invece una volta ha detto: se vieni a prendermi a scuola puoi vestirti un po’ bene? Insomma cara Annalena è stata dura, e anche adesso non è tanto facile perché comincia questa specie di adolescenza e lei si chiude in camera e mi risponde molto male e a volte piange e a me sembra sempre che sia colpa mia. Adesso però mi ha detto che vorrebbe tanto un cane e che sarebbe tanto felice e io non so che cosa fare perché lavoro tutto il giorno, e il padre le ha detto che le regalerà questo cane per il compleanno e io vorrei dirgli: poi vieni tu a portare fuori il cane? Non è facile essere una brava madre. Cari saluti

M. Costantini

Cara M., i miei figli vorrebbero tanto un cane ma è complicato perché abbiamo un gatto sociopatico. Alla fine ho promesso un coniglio, a settembre, anche perché i conigli non bisogna portarli fuori la sera. Mia figlia è molto contenta ma anche sospettosa, non si fida, e ieri mi ha detto: “La nonna dice che il coniglio è molto delicato. Ho paura, mamma, che se te ne occupi tu morirà presto”.

 


 

Tutti i fratelli sono Karamazov. Una sorella è una specie di miracolo

(Venerdì 17 giugno 2016)

 

Per un maschio, avere una sorella è una specie di miracolo. Inspiegabile, in sé, eppure serve a spiegare molte cose, praticamente tutte. Mi arrischio a sostenere che gli uomini privi di sorelle crescono fino ad avere del mondo un’esperienza pregiudiziale e ristretta. E’ ridotto il loro modo di vedere, di sentire e di comunicare agli altri ciò che sentono e vedono. L’angolo si chiude nella ripetizione di un paesaggio sempre uguale. Meglio allora essere figli unici, condizione che ti obbliga a inventarti rapporti in tutte le direzioni poiché nessuno ti viene consegnato come naturale. Un maschio con uno o più fratelli maschi è prigioniero di una galleria di specchi, vede se stesso replicato in figure che si fanno concorrenza fra loro, si imitano o si sfuggono, lottano e combattono, si alleano e si aiutano e si ingelosiscono e si uccidono proprio perché simili, troppo simili. L’affratellamento nasconde, al suo interno, un’insidia nata da un eccesso di affinità che, quando non si limita a essere fisica, interessa in modo drammatico il ruolo e il destino di ciascuno. (…) Tutti i fratelli sono per forza Karamazov.
Una sorella è invece un dono incomparabile. Più grande, la si può amare e farsene scudo, più piccola, adorare. Se è una nostra replica o se noi siamo la sua, il semplce fatto di appartenere all’altro sesso la rende un essere unico, straordinario, perché del tutto familiare e del tutto alieno.


Edoardo Albinati, “La scuola cattolica”
Rizzoli (pagg 1294, 22 euro)

 


 

Il Figlio del 10 giugno 2016

 

Finisce la scuola, inizia l’emergenza delle non vacanze

(Giovedì 10 giugno 2016)

 

All’improvviso, è finita. E’ suonata la campanella e i bambini di quinta elementare sono usciti, ognuno aggrappato alla maestra come poteva (le maestre hanno molte mani e molte braccia e riescono sempre ad abbracciarli tutti), e tanti piangevano, altri ridevano ma di un riso nuovo, come un fremito all’angolo della bocca, i pugni stretti, si guardavano intorno per vedere dov’erano le madri, o le nonne (c’era un solo padre davanti a scuola quel giorno, in bermuda sandali e marsupio, molte gli sorridevano e gli dicevano: bravo, una ha detto perfino: bel marsupio). Le madri e le nonne, e le baby sitter e le maestre, piangevano e si abbracciavano per salutarsi, e anche quelle che si stavano azzuffando su WhatsApp nelle chat della classe hanno fissato una tregua per commuoversi in pace, sicure comunque che non si è trattato di un addio alle armi: di lì a pochi minuti hanno ripreso a lottare, come se fosse già settembre. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

Dove c’è un bambino

(Giovedì 10 giugno 2016)

 

Non è solo il bar/ristorante, dove i bambini ti si affollano soprattutto e non metaforicamente tra i piedi, anche se vicino a casa, nel romano quartiere Esquilino, c’è un locale che talvolta ospita molte mamme con bambini (bambini riflessivi, dunque vestiti di cachemire e vellutini, tipo piccoli Baby George ma in quota società civile). Lì ci sono queste mamme che ascoltano Lucio Dalla e bevono moltissimo mentre questi Baby George riflessivi-aggressivi giocano a terra con delle costruzioni di legno ecocompatibili, e tu inciampi in questi pargoli col tuo Franciacorta in mano e le mamme alzando l’occhio già allucinato dal loro Margarita ti guardano con disprezzo perché non cedi loro il passo (ai bimbi gentrificati). [Continua a leggere l'articolo di Michele Masneri]

 


 

Stefano Bartezzaghi e quel brivido al coccige ogni volta che qualcuno dice: “Sei un bravissimo papà”

(Giovedì 10 giugno 2016)

 

Lei parlava seduta di fronte a me, io non ero veramente interessato. A distrarmi era anche uno strano fastidio crescente, non proporzionale alla lieve noia del colloquio, colloquio che a un certo punto virò sul personale. “Sono sicura che sarai un bravissimo papà”, mi disse. Era, lo capivo, sinceramente intenzionata a conferirmi una patente sulla fiducia, come il Nobel per la Pace a Barack Obama neoeletto; io però ci sentivo una nota stonata. Non fu comunque quello il motivo per cui poco dopo saltai in piedi, all’improvviso. Doveva scusarmi: non riuscivo proprio a rimanere lì e soprattutto non potevo più stare seduto, non sapevo perché. Me lo rivelò un medico il giorno dopo, impiegando una parola che ignoravo: coccigodinìa. E’ la pungente infiammazione di una minima terminazione nervosa laggiù, dove c’è il ricordo della coda; sue possibili cause: o trauma o stress. [Continua a leggere l'articolo di Stefano Bartezzaghi, nella rubrica "Padri"]

 


 

La lettera. Flami pensa al futuro e Francesco De Gregori ricorda “un senso di libertà”

(Giovedì 10 giugno 2016)

 

Cara Annalena, Flami si alza dalla sedia, saluta con voce leggera e se ne va, portandosi dietro le borse sotto gli occhi, le mani sudate e un meritato sollievo che le massaggia le tempie. L’esame di maturità è andato bene, qualche volta lo rivivrà in sogno. Flami legge Raimond Carver e David Foster Wallace ma non ha il coraggio di leggere nel suo domani. A casa s’interroga con i suoi genitori, ma i loro consigli sono senza forma e senza peso. Lei ha chiesto come potrebbe prepararsi a un futuro popolato di lavori oggi sconosciuti. E loro hanno scritto nell’aria in stampatello maiuscolo che dovrà salvarsi dai rimpianti. Flami li osserva. Eccoli lì, due tipi assurdi catturati dai loro pensieri che induriscono come colla a presa rapida. Anche i genitori hanno i loro fantasmi. Ora Flami sa che può scontrarsi benissimo con le proprie paure, purché non le rimangano incollate addosso. Cari saluti.
Antonio Cianfarini

Caro Antonio, c’è un passo del libro-intervista di Francesco De Gregori con Antonio Gnoli, “Passo d’uomo” (Laterza) in cui De Gregori ricorda il rapporto con suo padre, funzionario di biblioteche preoccupato che la musica “rovinasse” Francesco e suo fratello, ma che comunque “ci portava in dono un certo senso di libertà”. Però una volta impedì al fratello Luigi di leggere “Furore” di Steinbeck, e non amava nemmeno che i figli leggessero romanzi di fantascienza. Ci si ricorda di certi gesti dei genitori, se ne dimenticano altri, importantissimi, e all’improvviso, spesso tardi, si scoprono cose nuove. Francesco De Gregori ha raccontato: “Qualche tempo fa ritrovai un passo di Kahlil Gibran annotato e sottolineato da mio padre, dove si dice che i figli non appartengono ai genitori: ‘Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri, poiché essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi ma non le loro anime, poiché abitano in case future, che neppure in sogno potrete visitare. Cercherete di imitarli, ma non potrete farli simili a voi”. Potrete portare in dono un senso di libertà.

 


 

Papà ci è sempre sembrato quello che era: schizzato, a tratti matto, un grande indifeso ubriacone

(Giovedì 10 giugno 2016)

 

Papà, a noi ci è sempre sembrato quello che era. Mio fratello Nic, mia madre ed io, lo abbiamo sempre visto per quello che era, un essere tremendamente fragile, uno sbandato, iperemotivo, schizzato, a tratti anche matto, e un grande indefesso ubriacone. Ho detto a mio fratello, un po’ per ridere un po’ no: Sai, pensandoci adesso credo che in fondo l’unica vera autentica passione della sua vita, l’unico punto fermo, quello a cui ha veramente tenuto fede fino all’ultimo è stato la bottiglia. Mia madre è andata a rovistare nei diari che Renato ha sempre scritto durante tutta la vita e specie nelle serate alcoliche e ci ha trovato, ancora fino a poche settimane prima della morte, ci ha trovato segnati una serie di wischetti che lui aveva tirato giù con piacere e anche con senso di spregio verso tutta l’umanità, in particolare verso i dottori che volevano sottrargli la sua amata compagna di vita, la sua steslla polare, la sua bottiglia. E poi verso i passati superiori di quando era carabiniere (i vari tenenti, colonnelli, generali eccetera a cui non aveva smesso di portare rancore anche a distanza di venti, trenta, cinquant’anni dai fatti). E per finire, verso l’amata moglie che comunque, anche se in gamba e bella come un’attrice, un chiaro difetto ce l’aveva, che continuava a rompergli il cazzo sul bere.

Rossana Campo, “Dove troverete un altro padre come il mio” (Ponte alle Grazie, pagine 160, euro 13) 

 


 

Il Figlio, edizione speciale

 

 

Mamme e papà scrivono, Annalena risponde

 

 

Dubbi e racconti di genitori alle prese con i loro figli. Ecco alcune delle numerose lettere che arrivano in redazione. Non perdete le prossime puntate. [continua a leggere]

 

 


 

Il Figlio del 2 giugno 2016

 

Il pane e le rose. Ecco il ritorno della madre perfetta

Giovedì 2 giugno 2016

 

Arrivata davanti all’ingresso del teatro le ho viste, riunite in piccoli gruppi, l’aria euforica e sicura di chi non ha scordato niente, e i fiori in mano. Io non avevo fiori (per le bambine alla fine del saggio? Per ringraziare le maestre di danza? O erano regali dei mariti, dei fidanzati, degli amanti?) e in mano stringevo solo un biglietto trovato sul parabrezza del motorino: ma come parcheggi merda merda merda merda. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini ]

 


 

Quanto hai bevuto?

Giovedì 2 giugno 2016

 

Se avete un figlio o una figlia under diciotto e siete preoccupati da possibili ubriacature, sappiate che non c’è un rimedio, una regola o un trucco sicuro per evitarlo ma esistono alcuni comportamenti utili per contenere il danno sperando di far rientrare i nostri figli nel cinquantacinque per cento che beve meno di una volta al mese, tenendoli alla larga dagli ottocentoventimila minori che negli ultimi trenta giorni hanno fatto almeno una volta “binge drinking”: ovvero cinque birre o cinque shottini uno dietro l’altro (dati europei Espad). [Continua a leggere l'articolo di Alessandra Di Pietro]

 


 

Quando i figli si svegliano

Giovedì 2 giugno 2016

 

La mattina mi sveglio presto, perché spero di avere il tempo di bermi una enorme tazza di caffè e leggermi i giornali sull’iPad. Ma mio figlio, che è piccolo, sente i miei passi, mi chiama e dice: ho finito di dormire. In quel momento a me prende un crampo allo stomaco, una specie di materiale pesante che si piazza sullo stomaco e poi tende a scavare come se volesse penetrare. Mio figlio comincia a farmi domande. Io ho i pensieri ancora annebbiati, voglio leggere il giornale e voglio bere il caffè, ma ho questa specie di sottofondo che vuole attenzione e gliela devo dare, quindi un po’ cerco di godermi le mie cose, un po’ do retta a lui, e non mi godo davvero il caffè e il giornale – e non do davvero retta a lui. Devo dire che se ho una caratteristica come padre è che riesco a fare tutto, e però faccio tutto abbastanza male, oppure male; però faccio tutto. [Continua a leggere l'articolo di Franceso Piccolo, nella rubrica "Padri"]

 


 

La lettera. Franca che si interessava alla vita di tutti, Marta che porta con sé la sabbia

Giovedì 2 giugno 2016

 

Cara Annalena, “Tu sei gas, non sei materia”. Diceva così Franca a Luca quando lui la travolgeva con quel suo spirito esuberante. “Lo è ancora, gas”, mi ha detto Franca quando Luca non c’era più. “E’ in ogni parte di questa casa, è sui muri, nei libri che fino all’ultimo non ha smesso di studiare, è dentro di me”. Aveva il braccio teso e la mano spalancata come per mostrarmi che non c'era spazio in cui Luca non fosse presente. Durante la malattia le chiedevo come stesse Luca, ma soprattutto come si sentisse lei. Franca rispondeva semplicemente: pensami. Mi domandavo come le potesse bastare. Non l’ho mai sentita lamentarsi o arrabbiarsi per quella cosa contro natura che le stava succedendo. (…) Ogni volta che andavo a farle un saluto, aveva preparato qualcosa per la mia bambina, lei aveva la forza di pensare al figlio di qualcun altro. (…) E mi chiedeva se andava tutto bene a scuola, con lo sport, con gli amici. Si interessava alla nostra vita, lei che non sapeva come avrebbe potuto continuare senza Luca aveva un pensiero intenso e sincero per noi. “Odio tutti i ragazzi di 26 anni che vedo”, era un pomeriggio di inizio gennaio, buio e piovoso. Non le ho chiesto come avesse passato le feste di Natale, non sono neanche riuscita a immaginarlo. “Oggi sto così”. Ci saranno state altre giornate così, dopo, anche se non me lo ha detto, però in primavera Franca ha preso un decisione: è tornata al lavoro. Franca è una maestra, adora quello che fa, ama i bambini, Franca non odia nessuno.      
Riccarda Dalbuoni


Cara Riccarda, un libro molto bello racconta il dolore degli altri, osservato, condiviso, alleviato, e il dolore sommerso,  intimo, che scava dentro e cambia la vita. Si intitola “Nessuno esca piangendo” (Utet), è il memoir di Marta Verna, medico pediatrico che vive le sconfitte e le vittorie dei suoi pazienti, e paziente lei stessa, con il marito, mentre cercano di avere un figlio senza riuscirci. “Quando si diventa adulti non si è mai né completamente tristi, né completamente felici”. Si impara a portare con sé il dolore, come sabbia, anche sapendo che nemmeno un granello di quella sabbia volerà mai via.

 


 

Mia madre è molto strana. Si arrabbia e ama

Giovedì 2 giugno 2016

 

Mia madre è molto strana.
Mia madre non somiglia affatto a una madre. Le madri ammirano sempre il loro bambino e i bambini in genere, invece a Marina non piacciono i bambini piccoli. Ha i capelli castano chiaro, che si arricciano ai lati. Ha gli occhi verdi, il naso con la gobba e le labbra rosa. Ha una figura slanciata e delle mani che mi piacciono.
Il suo giorno preferito è l’Annunciazione. E’ malinconica, svelta, ama la Poesia e la Musica. Scrive poesie. E’ paziente, sopporta sempre a più non posso. Si arrabbia e ama. Deve sempre correre da qualche parte. Ha un cuore grande così. La voce dolce. Il passo rapido. Marina ha le mani piene di anelli. Marina di notte legge. Ha quasi sempre gli occhi che prendono in giro. Non le piace essere tormentata con domande stupide, allora si arrabbia molto.
Qualche volta va in giro come persa, ma all’improvviso pare come che si svegli e comincia a parlare, e poi di nuovo sembra che parta per chissà dove.


Dicembre 1918
Ariadna Efron, 6 anni
da “Marina Cvetaeva, mia madre”
(La Tartaruga edizioni)

 


 

Il Figlio del 26 maggio 2016

 

 

Fratelli di lotte, botte e regali. Viva la società incivile

Giovedì 26 maggio 2016

 

Sangue. In genere esce dalle ferite solo dopo che si sono urlati le cose più terribili, ma la maggior parte delle volte si accontentano di un livido sulla coscia, un calcio tirato bene con le scarpe dure da ginnastica, oppure qualche sberla alla cieca, in bagno, mentre dovrebbero lavarsi le mani e la faccia e invece litigano perché “mi fa schifo che tocchi il mio asciugamano”, “tu fai schifo”, “tu di più”, “ti odio”, “sei il fratello più scemo del mondo”, “tu sei la più bassa della terra e tutti ridono di te”. Gridano queste cose e nel frattempo sputano dentifricio, calpestano asciugamani, sbattono la porta, schizzano l’acqua, costruiscono e lanciano palline bagnate di carta igienica, velocissimi, e sempre urlano mamma. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

Fammi il dinosauro

Giovedì 26 maggio 2016

 

Come fare in modo che il figlio diventi una persona di successo nella vita e nel lavoro, che non sia un depresso e/o un fallito, che non si perda durante l’adolescenza e non si trasformi in un adulto impresentabile in società e magari anche incapace di trovare lavoro? Tutti i genitori ci pensano, ognuno trova (o crede di trovare) il modo per dare al bambino o alla bambina i migliori strumenti per evitare il disastro. E magari si pensava che fosse utile, se non indispensabile, per favorire il successo da grandi, scegliere la scuola giusta, preoccuparsi che il figlio sappia che cos’è un libro, fargli studiare l’inglese, fargli fare uno sport, fargli frequentare i coetanei, farlo viaggiare, fargli respirare aria buona, ascoltarlo e consigliarlo al primo insorgere di un problema. [Continua a leggere l'articolo di Marianna Rizzini]

 


 

La distanza tra me, che volevo essere Mick Jagger, e i miei figli

Giovedì 26 maggio 2016

 

Il giorno più spaventoso della mia vita di genitore – quello in cui ho misurato tutta l’incolmabile distanza tra due diverse generazioni: di qua gli adepti al culto di “Happy Days”, di là i nativi digitali – è stato quando due anni fa ho portato i miei due figli al Romics, un festival che alla Fiera di Roma riunisce un’umanità ricompresa in un’ideale ellissi i cui due fuochi sono il nerd quarantenne in tutto simile al proprietario del “Sotterraneo dell’Androide e Negozio delle Figurine da Baseball” di Springfield (copyright Simpsons) e un frankensteiniano incrocio tra Margherita e Matteo, sangue del mio sangue, all’epoca rispettivamente di anni tredici e undici. [Continua a leggere l'articolo di Leonardo Colombati, nella rubrica "Padri"]

 


 

La lettera. Come provare a difendersi dagli psicodrammi dei genitori senza sembrare snaturati

Giovedì 26 maggio 2016

 

Cara Annalena, ho accolto con grande soddisfazione la notizia della tua rubrica sui figli. Ho pensato, chi può raccontare meglio questo mondo che faccio così fatica a capire! In verità più quello delle madri e dei padri che quello dei figli, che mi sembra vivano di riflesso le neo nevrosi dei genitori. Sono anch’io madre, 46 anni, di due maschi di 11 e 8 anni, e con loro inizio a essere alle prese con i più comuni interrogativi: prime uscite, cellulari sì cellulari no, educazione al corretto uso di internet e roba del genere. Mi metto in gioco un po’ improvvisando e un po’ mettendo in pratica gli insegnamenti ricevuti dai miei genitori che, seppure all’antica, ho apprezzato per essere riusciti a trovare un equilibrio tra rigore e apertura mentale. Quello che mi lascia sempre più perplessa, soprattutto ultimamente, è il mondo dei genitori, soprattutto delle mamme, con le quali ho prevalentemente a che fare. Sempre più agitate per un nonnulla, sembrano tante ragazzine in difficoltà a dover gestire un figlio quando hanno già tanti problemi a dover gestire se stesse. Così piccoli episodi insignificanti, che possono accadere ogni giorno in ogni classe del mondo, finiscono per dare vita nelle famigerate chat di classe a psicodrammi collettivi dai quali si fa fatica a tenersi fuori. Tu che pensi? Come fare a mantenere un’autonomia di pensiero senza essere etichettata come madre snaturata, disinteressata o snob?
Gabriella Carrino

Cara Gabriella, l’altra sera ho ricevuto il messaggio di una madre disperata: diceva che in classe mia figlia aveva preso in giro la sua che, troppo sconvolta, non voleva tornare a scuola mai più. Mia figlia, a testa in giù sul divano, negava. Le ho chiesto di telefonare alla bambina per chiarire. “Ma perché? Quando lei si comporta male con me tu non scrivi a sua madre”. Ho insistito, poi l’ho minacciata, poi l’ho implorata. Ho composto io il numero e lei ha telefonato, con le lacrime agli occhi per l’ingiustizia. Ho origliato. Pronto Giulia? Ciao sono io, sei arrabbiata per qualcosa? No? Ah scusa, sai mia madre è un po’ strana, ci vediamo domani.

 

 


 

Era un po’ raffreddatina. Se serve un papà, sono qui

Giovedì 26 maggio 2016

 

Ieri mattina abbiamo accolto venti signore portate dalla Capitaneria di Porto che erano tutte ustionate. Le abbiamo portate subito immediatamente al pronto soccorso per trattarle, medicarle. E poi diverse ne abbiamo portate con l’elicottero di soccorso a Palermo nel Centro delle grandi ustioni. Insieme a queste signore c’era anche una bambina.
Una bambina piccola, bellissima. E immediatamente ci hanno detto, concordemente, un po’ tutte, che la bambina aveva perso la mamma durante il viaggio, una mamma che oltretutto era pure incinta, e la bambina è rimasta da sola. Allora l’hanno presa loro. Devo dire che l’hanno custodita bene perché la bambina aveva un ottimo stato di salute. E appena ho sentito la storia ovviamente l’ho presa e l’ho portata al mio presidio per visitarla. Era un po’ raffreddatina, però una bambina bellissima, era serena. L’abbiamo fatta mangiare, il latte, ha bevuto tanto latte, ha bevuto l’acqua, l’abbiamo un po’ idratata. Certamente una grave disgrazia per questa bambina: non ha più la mamma, è arrivata da sola e per noi è un grande dolore. Oggi arriverà un funzionario della Prefettura e della Questura che verrà a prendersela. Capisce bene, una bambinetta di nove mesi che verrà affidata a un centro dove verrà tenuta, sicuramente custodita molto bene in attesa di essere adottata.
Beh, sicuramente questa bambina potrà avere mille mamme ma, se c’è bisogno di un papà, sicuramente io sono qua, sono presente e lo farò con grande piacere.

Pietro Bartolo, medico di Lampedusa

 

 


 

Il Figlio del 19 maggio 2016

 

 

 

Mario attraverso lo specchio e i neuroni che ridono

 

Giovedì 19 maggio 2016

 

Di quello che è successo dopo Francesca non ricorda quasi niente, solo la voce di Roberto che chiede al dottore, in ospedale: “Quindi Mario non potrà guidare?”. Mario era nato da pochi giorni, dopo una gravidanza difficile, e il medico stava spiegando loro che aveva avuto uno stroke, un ictus. Forse nella pancia, forse appena uscito. Scoperto casualmente. Una parte di cervello, il quaranta per cento, bruciato, nella testa di un bambino di dieci giorni, che non muoverà il braccio sinistro perché non saprà di averlo, non metterà la gamba davanti all’altra perché semplicemente non la sentirà. Come se qualcuno vi chiedesse: mi dai la tua terza mano? Quale terza mano, che cosa stai dicendo, non ho una terza mano. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 

 

 


 

 

Vivi per miracolo

Giovedì 19 maggio 2016

 

 

Prima impresa: arrampicarsi sul cancello del condominio, approfittando della distrazione del padre neo-separato, e poi saltare direttamente sul muretto di fronte (anni otto). Seconda impresa: scalare la parete con ringhiera del magazzino della farmacia di famiglia dell’amica, al riparo da occhi adulti, e dondolare appese nel vuoto (anni nove). Terza impresa: andare in tre in bicicletta, al mare, di sera, senza mani e con i capelli bagnati (anni dieci). [Continua a leggere l'articolo di Marianna Rizzini]

 

 



Il giorno in cui i papà separati vanno dai loro figli

Giovedì 19 maggio 2016

 

Ma che giacca ti sei messo? Sembri una cassettiera…” ride divertita dietro i verdi occhi selvatici. Se ho la camicia fuori dai pantaloni, se ho una scarpa slacciata, se ho una maglia troppo sgargiante, qualsiasi cosa mi trasformi involontariamente in un clown, ride la madre di mio figlio. “Con tutte le belle giacche che hai… proprio non ti sai vestire”. Va bene, la giacca non sarà un granché, ma tiene caldo e para dal vento. E questo è l'importante, per chi va in moto. Da settembre a oggi ho fatto 3000 chilometri. [Continua a leggere l'articolo di Filippo Bologna nella rubrica "Padri"]

 


La lettera. Perché metti anche tu i jeans? Come ti vesti, mamma? Tu non sei me, io non sarò te

Giovedì 19 maggio 2016

 

Cara Annalena, qualcosa è cambiato. Lei è cambiata, non mi guarda più con gli occhi di chi vorrebbe imitarmi nei gesti, nel modo di portare i pantaloni sperando di diventare me, un giorno. Che bello, mamma, oggi abbiamo i jeans tutte e due! Mi diceva qualche anno fa. Oggi: perché anche tu i jeans? Il suo modo di guardarmi è critico, persino la mia migliore amica mentirebbe su come mi sta un vestito, ma lei no. Quando indosso qualcosa di nuovo, aspetto il giudizio, passo di lì quasi per caso mentre lei guarda la tv. E da dietro: troppo colorato! ma che roba è? ma ti pare, mamma? ti devo ricordare che ne compi 40? A me sembra un abbigliamento normale, forse un po’ informale, ma è il mio, mi ci sento bene, mi piacciono i colori. Allora penso che sia cambiato il suo modo di percepirmi: la nostra complicità rimane per altro, ma si ferma di fronte all'immagine che lei ha di me. Quando le chiedo perché, mi risponde: perché no! E dentro quella non risposta ci sta un motivo che forse nemmeno lei riesce a spiegarsi: perché, mamma, a me non piace e quindi non deve piacere neanche a te, perché io metto solo All Star rosa e non posso concepire che tu abbia venti paia di scarpe diverse, perché io, mamma, non ho ancora imparato che qualcuno possa essere molto divers, ma meraviglioso lo stesso e poi, mamma, lo sai che quando esci con un’amica a comprarti qualcosa e io non ci sono, mi dà fastidio, non so perché, ma vorrei esserci anche se ero a una festa divertentissima e nemmeno ti stavo pensando.

Riccarda Dalbuoni

Cara Riccarda, mia figlia non riesce a capire perché esistano nel mondo le scarpe con i tacchi, e perché una persona non totalmente pazza decida di camminare in punta di piedi, soffrendo, senza correre e senza saltare ma stando invece attenta al marciapiede e ai sanpietrini, e poi appena a casa lanciare via le scarpe e sospirare di sollievo. Le ho detto che un giorno forse lo farà anche lei. Che un giorno capirà. Capire cosa?, ha urlato, io non sono mica te. Forse dovevo preoccuparmi, ma ero così felice di avere lanciato via le scarpe, e non ho pensato niente.

 


 

Avevamo dieci anni e la finestra era aperta

 

Fernando invece urlava, rompeva cose, e la rabbia si autoalimentava, non riusciva a fermarsi, anzi i tentativi che faceva la moglie per bloccarlo lo rendevano più furibondo e se pure non ce l’aveva con lei finiva per picchiarla. Insistevo, quindi, nel chiamare Lila anche per tirarla fuori da quella tempesta di grida, di oscenità, di rumori della devastazione. Gridavo: “Lì, Lì, Lì” ma lei – la sentii – non smise di insultare suo padre.
Avevamo dieci anni, a momenti ne avremmo fatti undici. Io stavo diventando sempre più piena. Lila restava piccola di statura, magrissima, era leggera e delicata. All’improvviso le grida cessarono e pochi attimi dopo la mia amica volò dalla finestra, passò sopra la mia testa e atterrò sull’asfalto alle mie spalle.
Restai a bocca aperta. Fernando si affacciò continuando a strillare minacce orribili contro la figlia. L’aveva lanciata come una cosa.
La guardai esterrefatta mentre provava a risollevarsi e mi diceva, con una smorfia quasi divertita:
“Non mi sono fatta niente”.
Ma sanguinava, si era spezzata un braccio.

Elena Ferrante, “L’amica geniale” (e/o)

 

 


 

Il Figlio dell'11 maggio 2016

 

 Se non vai a un pigiama party non sei nessuno

Mercoledì 11 maggio

 

Verso le tre del mattino ho incontrato in corridoio una delle bambine a casa nostra per il pigiama party. Perché non dormi?, le ho chiesto con tutta la gentilezza possibile, la gentilezza materna e cauta che si riserva ai figli quando non sono tuoi. Perché se dormo poi le altre leggono i miei segreti sul diario, ha risposto lei, stringendo un quaderno fra le braccia e dirigendosi verso la cucina dove mi sono sentita in dovere di seguirla. Margherita ha aperto il frigorifero, tirato fuori i resti del profiterol del compleanno, preso un cucchiaio sporco dal lavello e si è seduta a mangiare in silenzio. Ho cercato, con circospezione un po’ esasperata, di convincerla a tornare a letto. [Continua a leggere l'articolo di Annalena Benini]

 


 

 

Negoziati in famiglia

Mercoledì 11 maggio 2016

 

Negoziare sempre, negoziare tutto. La vita dei genitori è un negoziato permanente: che cosa fai nella vita tu? Gestisco trattative e dirimo controversie con i miei figli. Ogni tanto ritorna alla mente il consiglio della nonna, che fin dalla nascita dei nipotini ripeteva: perché fai scegliere a loro? Perché chiedi che cosa vogliono a cena, che vestiti preferiscono mettersi e dove desiderano andare in vacanza? L’eccesso di democrazia crea confusione, diceva, e tu rispondevi, guardandola dall’alto in basso infastidita, che la dittatura è per fortuna superata, noi siamo fieramente contro i regimi e per la libera scelta. Il consiglio non è stato accolto, i “te l’avevo detto” sono musica di sottofondo, ormai è tardi. Negoziamo. [Continua a leggere l'articolo di Paola Peduzzi]

 


 

La passione per il maiale portapannolini dell’uomo che gridava: Figli? Ma quando mai

Mercoledì 11 maggio 2016

 

Non ci lasceremo mai, amore mio, te l’ho già detto. Ma se ti rivedo trafficare con le mani nel mio “porcellino” non rispondo di me, e forse me ne vado. Tra l’amore eterno e il porcellino porta pannolini usati c’è un mondo di mezzo, una terra nuova e fiorita di vita imprevista: una donna invincibile, e un figlio, anzi una figlia già indispensabile come l’Aurora che illumina la grotta di un passato orgogliosamente solitario (figli? Ma quando mai…). La mia relazione col porcellino è iniziata per colpa sua, di Valeria, come spesso accade quando le donne scoprono le offerte di Prénatal e le giudicano imperdibili, dissolvendo l’ultima immagine di una selvaticità maschile in omaggio alla quale, illuso, vagheggiavo per mia figlia pannolini cotonati da lavare nel Tevere, body in pelle di capra, latte di cerva bianca, immersione in acque sorgive ghiacciate, sonno in culle di giunco intrecciato e, appena possibile, giochi innocenti come il lancio della bimba da una riva all’altra del fiume, legata a un giavellotto. [Continua a leggere l'articolo di Alessandro Giuli per la rubrica "Padri"]

 


La lettera. Storia nostra e di Giovanni che ha un cromosoma in più ed è un supereroe

Mercoledì 11 maggio 2016

 

Cara Annalena, lei parla spesso di figli, di disavventure e di gite scolastiche, e ci fa sorridere e a volte anche commuovere, perché quello dei bambini è un mondo straordinario e penso che loro siano infinitamente meglio di noi adulti. Però mio figlio, che adesso ha cinque anni e io e mia moglie amiamo con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutto ciò che abbiamo a disposizione e speriamo per altri cento anni, ha la sindrome di Down. Non fa le battute brillanti che lei racconta nei suoi articoli (anche se in effetti sarebbe capace di fare quello che lei ha raccontato di sua figlia: rimettersi in testa un pidocchio per compassione, ma penso che lei se lo è inventato), non ha tanti amici e non so se imparerà a contare, se andrà in gita scolastica, se avrà una fidanzata, se dovrà andare in ospedale ancora più spesso di adesso. E’ un bambino meraviglioso, buono, troppo buono, allegro, amorevole, ma noi ci sentiamo, sinceramente, un po’ lontani dal mondo e abbiamo paura di non riuscire a farlo accogliere e anche di non riuscire a proteggerlo. Lei descrive spesso un mondo in fondo buono, ma le assicuro che è molto fortunata o ha molta fantasia. Cordiali saluti.

Carlo G., Padova

Caro Carlo, la storia del pidocchio era vera, così vera che forse adesso il pidocchio ci sta leggendo, circondato dai suoi figli. Ho appena letto un libro, “Mio fratello rincorre i dinosauri, storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più” (Einaudi stile libero), di Giacomo Mazzariol, un ragazzo di diciannove anni, fratello maggiore di Giovanni, che adesso ne ha tredici, è down e ha il sorriso più largo degli occhiali. Giacomo ha raccontato la delusione e anche il fastidio per un fratellino che aveva paura delle scale mobili e dell’erba, e che non faceva le capriole e le macchinine le metteva solo in bocca. Voleva tanto un fratello supereroe, e ci ha messo un po’ di anni, e di vergogna, a capire che genere fantastico di supereroe con il sole in tasca sia suo fratello Giovanni. Adesso anche il mondo gli piace di più, perché c’è Giovanni a guardarlo con lui.

 


 

Goditi questi anni, finché non lo farà anche a te

 

“Eccolo qui! Lo sposo! Congratulazioni! Sei molto elegante, Tom, come è giusto che sia”. Mi stritolò la mano nella sua stretta. “Dovevo essere qui due ore fa, ma abbiamo avuto un problema con l’aereo. Dov’è la mia bambina?”.
Cercai di rispondere con freddezza, ma il mio tono era semplicemente oggettivo. “Non ti vuole qui”.
“Non vuole il suo unico genitore alla sua festa di nozze?”. David si guardò intorno, appellandosi ai nostri ospiti silenziosi. Lo stereo suonava Remote Control. “E’ la mia persona preferita al mondo. Come potrei perdermi la sua festa di nozze?”.
“Credo davvero che sia meglio se te ne vai”.
David mi ignorò e bussò alla porta della camera da letto. “Anabel, tesoro? Vieni fuori con noi, prima che il vino si riscaldi”.
Con mia sorpresa, la porta si aprì immediatamente. Anabel tirò indietro la testa e sputò in faccia a David. La porta si richiuse con violenza.
Tutti videro, nessuno disse una parola. Mentre Remote Control andava avanti, David si pulì gli occhi dallo sputo. Quando abbassò la mano sembrava invecchiato di dieci anni. Mi sorrise debolmente. “Goditi questi anni, disse, finché non lo farà anche a te”.

Jonathan Franzen, “Purity” (Einaudi) 
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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.