Il summer camp di “Shining”, la febbre alta e i baci sulle guance – Il Figlio, lo speciale di Annalena

Annalena Benini
Sei ore dopo che avete abbracciato vostro figlio per salutarlo, e giurato che no, l’albergo di montagna non assomiglia per niente a quello di “Shining”, e sarà una settimana magnifica e faranno rafting, e  comunque sette giorni passano in fretta, sei ore dopo lo sguardo carico di apprensione e gratitudine lanciato al maestro del summer camp, cominciano i messaggi.

Sei ore dopo che avete abbracciato vostro figlio per salutarlo, e giurato che no, l’albergo di montagna non assomiglia per niente a quello di “Shining”, e sarà una settimana magnifica e faranno rafting, e  comunque sette giorni passano in fretta, sei ore dopo lo sguardo carico di apprensione e gratitudine lanciato al maestro del summer camp in bermuda color khaki, sei ore dopo la libertà, i progetti, l’ubriacatura da solitudine, a casa in mutande e vino ghiacciato, sigarette con la finestra chiusa e pensieri anche sconci, cominciano i messaggi. “Portatemi via da qui”. “Non ho amici”. “Mi fa schifo”, “Ti prego mamma, se mi vuoi bene vieni a prendermi”. I figli furbi di madri apprensive selezionano con più attenzione le torture psicologiche: “Qui è pieno di burroni, nessuno sta attento a noi, ho paura”. I figli più piccoli, che sono andati al campo estivo senza telefono e senza tariffa estiva con messaggi illimitati, fanno chiamare direttamente dai responsabili: “Febbre alta, rifiuta la tachipirina”. “Dice che gli fa malissimo la gola, ma abbiamo l’impressione che stia mentendo”.

 

L’euforia è svanita, il programma della serata e dei prossimi giorni di trance è distrutto. Niente di quello che si era sognato durante l’inverno si realizzerà: imbucarsi a una festa, scrivere un romanzo, mandare un messaggio alla ragazza dell’enoteca, passare a prenderla in Vespa con addosso la maglietta di un concerto, o tuffarsi in una fontana, finire a bere gli shottini di tequila nei bar dei ventenni, recuperare il matrimonio, divorziare, ballare, fare un altro figlio. Bisogna andare a riprendere il ragazzino al campeggio, ha le convulsioni. Oppure no, bisogna lasciare che se la cavi da solo questa volta. E’ grande. Sta facendo finta. Gli farà bene. “Non lascio mio figlio con la febbre alta da solo in montagna nelle mani di un uomo in bermuda”. “Non ha la febbre alta, ha trentasette e tre, quell’uomo porta i bermuda perché è il suo ruolo, un ruolo in bermuda”. “Parli così perché non hai letto La settimana bianca di Carrère, non conosci lo strazio di un bambino con la febbre in un posto sconosciuto”, “L’ho letto invece, e l’assassino era il padre, meglio stare con gli animatori che con i genitori, anche senza febbre”, “Dici cose strumentali”, “Ma non mi muovo da questo divano”.

 

La discussione può durare anche per sempre, e in ogni caso molto oltre la fine del campo estivo. Di solito la febbre passa invece in un paio d’ore (nel caso in cui si sia andati davvero a prendere il figlio in montagna, la febbre passa nel momento in cui sale in macchina, e il giorno dopo bisogna riportarlo), il ragazzino si diverte, impara anche un po’ di inglese (impara: room, mister e breakfast, parole che conosceva anche prima, ma adesso le dice molto meglio quindi davvero ne è valsa la pena), si diverte, litiga con il compagno di stanza e gli riempie i capelli di fango raccolto vicino al torrente, si innamora di una bambina di Terni e quando torna a casa con il pullman e con il maestro color khaki, la madre gli tende le braccia e piange, dice: come sei cresciuto, sei diventato più alto, amore mio. Sono solo sei notti, ma è come se fosse passato un anno, perché lui adesso si scosta, si vergogna, la ragazzina di Terni lo guarda da sotto la frangetta e ride, e lui decide che da questo momento non sopporterà mai più le smancerie di sua madre, perché è diventato grande.

 

“Ciao” è il massimo che riesce a dire, masticandolo. “Ciao” accompagnato dal lancio del trolley carico di roba fangosa e bagnata. “Ciao” e il nuovo mondo è qui, il passaggio è compiuto: non scriverà mai più a sua madre: voglio tornare a casa. Non si farà più abbracciare, se non in circostanze eccezionali e segrete, non offrirà più le guance ai baci, e avrà l’aria di chi va solo per il mondo. Lo scopo del summer camp, la socializzazione, l’indipendenza, la crescita: ha funzionato tutto, maledizione. Christopher Hitchens, scrittore, giornalista e polemista inglese, ha ricordato nelle sue memorie quanto amasse la madre alla follia, ma lei lo mandò, bambino, in collegio per “farlo arrivare in alto”, lui soffrì enormemente, tornò a casa dopo due mesi per le vacanze di Natale, trasformato e distante, e chiamava sua madre “signora” e le dava del lei, per dispetto, per farla soffrire, anche se lei era “l’unica madre di cui si potesse andare fieri durante le visite in collegio dei genitori”.

 

Anche se lo scopo della tua vita è essere una madre allegra e dolce di cui andare fieri durante le visite in collegio, o alla fine del summer camp, o perfino soltanto alla fine di una giornata di intrattenimento estivo parrocchiale, con i bambini che giocano a tirarsi i palloncini d’acqua dopo avere ascoltato la storia di Madre Teresa di Calcutta, il prezzo da pagare per la fine della scuola e la necessità di riempire il tempo lungo dell’estate sarà sempre lo stesso: lui ce l’avrà con te. Non vorrà essere salutato, abbracciato, sbaciucchiato, salirà sul motorino, dietro, con indifferenza, risponderà a monosillabi, dirà che non ha fame, non è stanco, non ha niente, non gli manca sua sorella, non vuole un gelato, non vuole andare a mangiare la pizza, non vuole andare a vedere “Angry Birds”, e alla domanda imprudente e un po’ disperata: “Ma ti piace Valeria?”, risponderà serio: “Certo che no, lei non è proprio adatta a me”.  “E perché?”, “Perché lei è sempre felice”.

 

Lui invece adesso è infelice perché ha perso la guerra di palloncini d’acqua, “è stata una bruttissima giornata”, e non vuole andare mai più al campo estivo della parrocchia. Vuole stare a casa, in pigiama, guardare la televisione, annoiarsi, giocare a scacchi con il computer, non ascoltare nessuna storia su Madre Teresa di Calcutta, non vuole cantare nessuna canzone dopo avere giocato a moscacieca. Rivendica il diritto alla solitudine estiva, lo stesso al quale aspiriamo noi e per godere del quale ci inventiamo i summer camp in montagna o imploriamo i nostri genitori di portare i nipoti al mare anche se pioverà tutta la settimana.

 

A volte invece funziona tutto benissimo e la bambina si è ambientata subito al campo estivo, e telefona solo la sera velocissima e squillante, con quella voce piena di meraviglia e entusiasmo che rincorre le parole e le fa rotolare, le fa diventare vive: “Mamma sono strafelice”, e nelle foto che un altro maestro con altri bermuda manda su whatsapp lei davvero ride sempre e tiene il pollice alto, e allora si possono relizzare tutti i sogni di libertà e andare a tuffarsi in quella fontana, lavorare fino all’alba, avere di nuovo vent’anni, e che cosa aspetti: non ci sarà un altro giugno così, un altro summer camp così perfetto, una casa così silenziosa in cui nessuno ha rovesciato il latte per terra. Allora che cos’è questo minuscolo buco nel cuore, che fa passare l’aria e la lontananza, e fa fissare il telefono ogni sera alla stessa ora, anche dalla fontana, dal cinema, dalla festa in cui ci si è imbucati? Pronto mamma, volevo dirti che mi mancate. Anche tu ci manchi, ma ti manco più io o più il babbo? Tutti e due uguale, dai mamma che domande fai. Certo certo, hai ragione, comunque domani vengo a prenderti e me lo dici in un orecchio, buonanotte amore mio.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.