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Festa di vita e di famiglia: angoscia e tenerezza nell'ultimo romanzo di Alessandro Piperno

Annalena Benini

Caduta e rinascita grazie a una stramba paternità. Il “vecchio” professor Sacerdoti alle prese con le shitstorm e con un orfano di otto anni. Nel nuovo libro dello scrittore romano si passa da una gelida indifferenza ad un nuovo e commovente destino. Quando un cambio radicale ci costringe a cambiare prospettiva sul mondo

Quando ero giovane pensavo di odiare tutti, ma quando sono cresciuto ho capito che sono solo i bambini che non sopporto. Piccoli bruti egoisti, rumorosi, crudeli e volgari (Philip Larkin). Quando ero una bambina egoista, rumorosa, crudele e volgare, andavo pazza per i romanzoni con protagonisti altri bambini, ricchi che diventano poveri, oppure il contrario, quasi sempre orfani almeno di madre (non parlerò qui di “Incompreso”, perché dopo quarant’anni mi fa ancora scoppiare in singhiozzi). Bambini capaci di cambiare la loro vita e anche la testa degli adulti intorno a sé, bambini pieni di stile. Quest’infanzia avventurosa si trova nei grandi romanzi dell’Ottocento: grida notturne, case spettrali, bei tappeti soffici, tavole imbandite, stradine di Londra, carrozze e colpi di scena che mi fanno palpitare ancora oggi. Quando leggo un romanzo così, tutto di me torna laggiù, mentre ritorna dal secolo scorso la gioia infantile di allora, il piacere febbrile di girare le pagine per scoprire che cosa succederà, la commozione per i personaggi, anche i più cattivi, e le loro disavventure. La capacità di stupirmi. È come andare a una festa con la speranza e la paura che qualcosa accadrà, che si incontrerà qualcuno, che sarà divertente, e passare di stanza in stanza con il vestito nuovo, il cuore in gola e le energie al massimo.

Succede lo stesso con il nuovo romanzo di Alessandro Piperno, “Aria di famiglia” (appena uscito per Mondadori), in cui i protagonisti sono due, e uno in effetti è un bambino di otto anni che però entra in scena quando il libro è già nel pieno della sua vitalità, quando sono già successe parecchie cose necessarie a preparare il lettore a una gigantesca sorpresa. L’altro protagonista è un cinquantenne esausto, professore e scrittore ebreo edonista e allo stesso tempo misantropo, piombato nella sfortuna e nella perdita della reputazione e della carriera. Un uomo mite, pervaso dalla sindrome dell’impostore, che come in un romanzo di Dostoevskij sembra voler provocare da sé la propria caduta. Vi ricordate “La macchia umana” di Philip Roth o “Vergogna” di J. M. Coetzee? Ecco, non si tratta di questo. Certo, il professor Sacerdoti viene convocato dalla Commissione paritetica dell’università in cui insegna Letteratura francese per rispondere alle proteste di una delegazione di studentesse, turbate da un suo corso, un modulo di trenta ore su Gustave Flaubert in cui ha letto frasi misogine scritte dall’autore, tipo: “C’è vento nella testa delle donne”. “Il corso che hai tenuto quest’anno ha prodotto qualche sconcerto”, gli viene detto. E lui risponde: “Povere ragazze. Sono così impressionabili”.

E’ questa la prima di una serie di risposte sbagliatissime o almeno non accorte, non concilianti, non furbe, con cui il professor Sacerdoti va incontro alla vendetta di una sua ex studentessa che nel frattempo ha fatto carriera, alla shitstorm dei social, alla sospensione e poi al licenziamento dall’università: si materializza, insomma, l’incubo del baratro contemporaneo, con odio online e giornalisti sotto casa. Il professor Sacerdoti deve scappare dalla porta sul retro, nascondersi in campagna e poi fuggire di nuovo, la notte di San Silvestro. Tutti adesso lo odiano, ma non solo: lo considerano un potenziale omicida. Un uomo pericoloso, da distruggere. Così adesso l’uomo pericoloso vive recluso, e la prima volta che viene invitato a tenere di nuovo una conferenza, una lezione su Stendhal, e lui decide ingenuamente di accettare, si ritrova in un’imboscata da cui si leva un coro di fischi e insulti. Gli stessi che fino a un anno prima avrebbero riempito la sala di applausi, ora volevano la sua umiliazione, per istinto di linciaggio, per il semplice e orribile piacere di vedere un uomo in difficoltà. E Sacerdoti è totalmente incapace di affrontare le difficoltà, come se in qualche modo perverso le aspettasse come prova della sua sfortuna di orfano.

Nel romanzo precedente di Alessandro Piperno, “Di chi è la colpa” (Mondadori), l’uomo attempato di oggi è infatti il ragazzino a cui la madre ha taciuto a lungo le origini ebraiche, prima di finire (forse) uccisa dal marito. Insomma, il divertimento è soltanto nello spettacolo del crollo di questo borghese semicalvo, solitario, incapace di lottare, traumatizzato, nullificato, forse depresso e con il blocco dello scrittore? Solo nel piacere della disfatta? Certo che no, questo è solo l’inizio, ma rivela una felicità di scrittura e di vitalità narrativa che riportano al lettore l’innocenza perduta, l’incanto insomma: il semplice desiderio di leggere e di scoprire, l’immedesimazione nella ricostruzione di una vita diversa, nuova, splendida per autenticità e sentimento, e poi come nelle favole al lettore viene di nuovo strappata via, ma solo per gioco, quell’innocenza, e il cinquantenne semicalvo che si percepisce anziano diventa un amico a cui urlare: ma che cazzo fai, torna subito qui, ripensaci, sei scemo, non ti parlo più, datti una svegliata. A me è successo. E’ un gran divertimento quando un personaggio di carta, per quanto somigliante al suo autore, diventa un personaggio di carne, è una gioia quando un romanzo diventa proprio la festa con il vestito nuovo.

In questa festa ci sono un cinquantenne e un bambino che si incontrano, due orfani che vanno a vivere insieme, e uno di questi orfani è il professore in disgrazia, che ha dovuto vendere una casa per poter vivere senza stipendio, e ha da poco partecipato al funerale da Grande Freddo di una compagna di liceo, quindi ha rivisto tutti i compagni e le compagne di allora, invecchiati nei modi in cui si può invecchiare a Roma, quindi cinicamente e con divertimento. E’ proprio tempo di bilanci, e il suo è piuttosto disastroso, seppur sempre benestante (il talento di Piperno per le scene e le liti nelle case ricorda Jasmina Reza), quand’ecco che la magia del romanzo presenta al professore inetto e tormentato questa paternità mai desiderata, fuggita, totalmente piovuta addosso perché una lontana cugina è morta insieme al marito in un incidente di montagna e questo bambino, ebreo osservante, è sopravvissuto per uno scherzo del destino ma adesso il parente più prossimo è lui, e deve prendersene cura (in una trasmissione televisiva, anni prima, aveva detto di trovare i bambini “tremendamente imbarazzanti”). E’ chiaro che non ne ha alcuna intenzione, è chiaro che accetterà. Viene aiutato in questo susseguirsi di colpi di scena da una ex compagna di liceo (perché tutto è sempre laggiù) che adesso è un’avvocata, Valentina, una donna capace di scuoterlo, di riportarlo alla realtà, di fargli anche capire che la febbre a trentanove di un bambino non è la fine del mondo, perché esiste la Tachipirina. E’ lei a dirgli: non sei Giobbe. Smettila di commiserarti e vivi. E’ lei a ripetergli: su, non dire sciocchezze, è normale, è un bambino.

Non voglio rovinare al lettore il piacere di scoprire questa stramba paternità, fatta di apprensioni, inseguimenti, di pizze e hamburger a domicilio, di imprese comiche e di veglie notturne durante una banale influenza, di tentativi generosi di non educare l’infanzia ma di renderla il più possibile simile a un luna park. Quello che posso dire, però, è che “Aria di famiglia” non è la storia di un uomo vittima delle circostanze, che fa del suo meglio per resistere ai colpi del destino. Non è la storia di un uomo che ha ragione, e che viene semplicemente travolto dalla contemporaneità e dal politicamente corretto, dalle circostanze avverse e dalla cattiveria calcolatrice degli altri. Ognuno ne farà quello che crede, leggerà come vuole, si divertirà comunque, ma il protagonista di “Aria di famiglia” sa benissimo che le cose non sono così semplici, e che se questa fosse una resa dei conti avrebbe perfino un senso. Per quello che non ha mai fatto per la sua ex fidanzata, per tutto quello che non ha capito allora, per l’ignavia e per l’accettazione pavida e pigra di comportamenti e sopraffazioni non certo ineluttabili.

E adesso che gli è stata offerta la sua gigantesca occasione di riscatto, adesso che per la prima volta sente di essere la famiglia di Noah, e sente il richiamo del sangue, del Dna, sente la tenerezza e il calore per un bambino addormentato, e insieme alla tenerezza anche l’angoscia, il senso di colpa, la paura di morire, tutto quello che insomma ci fa sentire vivi, nevrotici, sofisticati e ragionevoli, adesso che è tutto limpido, quest’uomo riuscirà a essere all’altezza del nuovo compito o fallirà di nuovo? “Fanculo il Natale, e chiunque non veda l’ora di festeggiarlo. Fanculo le religioni che rendono il mondo un luogo ipocrita e crudele. Fanculo gli ortodossi di ogni confessione, Fanculo gli inglesi, Dickens, Harrods, re Carlo III. Fanculo gli avidi. Fanculo io e l’idea di venire a Londra con Noah”. Potremmo riservare le stesse gentilezze a chi ripete una volta al mese da cinquant’anni che il romanzo è morto, ma non è mai il caso di perdere tempo con la realtà, visto che ci sono storie che fanno tornare laggiù, dove l’unica cosa che conta è girare le pagine e continuare a leggere.

 

  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.