Getty 

il centenario

Sulle tracce del Leopardi britannico Philip Larkin, in un'Inghilterra che non c'è più

Claudio Giunta

Così il poeta conservò lo humour anche sotto le bombe. Storia di un viaggio a Coventry, la sua città natale, a cento anni dalla nascita. Nel 1940 i tedeschi bombardarono il paese, e quel cantore dell'ordinario racconta di un giro in libreria per allentare la tensione

Il Foglio aveva ricordato al mondo con grande anticipo (addirittura il 31 dicembre del 2021, con due pagine dedicate alla poesia Una tomba ad Arundel) che il 2022 sarebbe stato il centenario della nascita di Philip Larkin. Stando così le cose, era ovvio, doveroso, spendere parte delle vacanze estive nei suoi luoghi, nel pezzetto di Gran Bretagna dove ha trascorso la sua vita. Poteva andarci meglio, considerato che è nato a Coventry e ci è vissuto fino ai diciotto anni, e che dai trentatré ai sessantatré, quando è morto, è vissuto a Hull. Inghilterra profonda, post-industriale, orwelliana nel senso che confina con quella che Orwell ha raccontato nella Strada di Wigan Pier; ma anche nel senso della distopia.

“Coventry – dice la Lonely Planet – era un tempo un fiorente centro per la produzione di tessuti, orologi, biciclette, automobili e munizioni. Fu quest’ultima industria a richiamare l’attenzione della Luftwaffe durante la Seconda guerra mondiale…”. 

Un’Inghilterra orwelliana nel senso che confina con quella che Orwell racconta nella “Strada di Wigan Pier”; ma anche nel senso della distopia

Come si sa, l’attenzione non fu benevola. Nella notte del 14 novembre 1940 gli aerei tedeschi bombardarono la città distruggendo un terzo degli edifici, compresa l’antica cattedrale, e uccidendo più di cinquecento persone. Si sapeva che la Luftwaffe avrebbe colpito, ma non si sapeva dove. Pochi giorni prima, i servizi segreti inglesi avevano intercettato un messaggio che annunciava appunto per i giorni attorno alla metà del mese il massiccio bombardamento di una città industriale del regno. Nome in codice dell’operazione, Moonlight Sonata. I tedeschi pensarono che un attacco del genere avrebbe provocato proteste tali da costringere la Gran Bretagna a chiedere un armistizio. Ci si aspettava un attacco su Londra, invece gli aerei tedeschi puntarono su Coventry, città di fabbriche. La notte era serena, la luna splendeva, e, dopo il primo dei tre raid, il secondo e il terzo furono guidati dalla luce degli incendi che bruciavano la città. Per dare un nome a questo genere di sfacelo, la propaganda tedesca coniò il verbo coventrieren (era solo il 1940, poi la guerra avrebbe abituato tutti a ben altro, naturalmente: la coventrizzazione di Coventry sarebbe parsa una cosa da nulla, a petto di quella di Dresda, di Tokyo).

Dopo la guerra la città venne ricostruita. Nel 1949 la piazza principale, Broadgate, accolse una statua di Lady Godiva, nobildonna del secolo XI moglie del conte Leofric di Coventry, patrona di chiese e monasteri, benefattrice. Nel 1962 venne consacrata la nuova cattedrale. Degli edifici più antichi restano i palazzi del municipio, certi pub storici, a terra il tracciato delle mura medievali, distrutte secoli fa; e restano soprattutto come memoria dei bombardamenti i muri della cattedrale scoperchiata, bellissimi da guardare la sera, d’inverno, con i mozziconi di colonna che emergono dal pavimento bruciato dalle bombe. Come San Galgano, ma in mezzo a una città.

La cattedrale di Coventry (Olycom) 

Ma la guerra non è stata l’ultima disgrazia. Nel Medioevo e nella prima età moderna Coventry produceva tessuti; nel secondo Ottocento si sono installate qui le prime fabbriche di biciclette, e ancor oggi venendo dalla stazione verso il centro ci s’imbatte nella statua che la città, riconoscente, ha dedicato a uno dei primi industriali del settore, nonché inventore degli pneumatici a raggi tangenti, James Starley (Albourne 1831 - Coventry 1881). Ma soprattutto, Coventry è stata a lungo la Detroit inglese. Qui nel corso del Ventesimo secolo hanno aperto i loro stabilimenti tutte le più importanti compagnie britanniche: Daimler, Jaguar, Morris, Triumph, BMC (quelli della Mini). Negli anni Cinquanta e Sessanta, il Regno Unito era il secondo produttore mondiale di automobili, e gli operai di Coventry venivano pagati un quarto di più dei loro colleghi britannici. 

Negli anni 50 e 60, gli operai di Coventry venivano pagati un quarto di più dei loro colleghi. Di questo passato glorioso non resta granché

Di questo passato glorioso oggi non resta granché. Molta edilizia secondo-novecentesca in vetro e cemento, per lo più respingente, con i soliti centri commerciali a due stelle e i soliti deprimenti negozi monomarca. Nell’ultimo quarto del Novecento l’industria automobilistica britannica ha perso buona parte delle sue battaglie contro i produttori americani, giapponesi e tedeschi, e Coventry ha cominciato ad assomigliare a Detroit anche nella decadenza.

Cantori di questa crisi, il gruppo degli Specials, la gloria canora locale (all’inizio si chiamavano Coventry Automatics), ha pubblicato nel 1981 una canzone esplicita già nel titolo, Ghost Town: “This town (town) is coming like a ghost town / All the clubs have been closed down / This place (town) is coming like a ghost town / Bands won’t play no more / Too much fighting on the dance floor / Do you remember the good old days before the ghost town? / We danced and sang, and the music played in a de boomtown / This town is coming like a ghost town…”.

Oggi al turista di passaggio Coventry non sembra veramente una ghost town, soprattutto grazie agli immigrati, ma certo è un po’ triste. 

Si dorme all’hotel Telegraph, 4 stelle, con arredi che ricordano l’epoca d’oro del giornale cittadino, e che forse risalgono proprio ad allora

Si dorme all’hotel Telegraph, 4 stelle, un po’ delabré ma caratteristico, con arredi “di design” che ricordano l’epoca d’oro del giornale cittadino, e che probabilmente risalgono proprio a quell’epoca, con qualche ammodernamento soprattutto nei bagni; alla parete, una riproduzione della prima pagina del Telegraph, giugno 1963, che annuncia l’imminente elezione di papa Paolo VI.

* * *

Della sua infanzia e della sua adolescenza Larkin ha parlato molto meno di quanto facciano in genere gli scrittori, almeno gli scrittori dopo Rousseau. Non era il tipo d’uomo che amasse commemorarsi, neanche in tarda età, anche se non si può dire che la tarda età l’abbia raggiunta veramente, essendo morto a 63 anni. E non sembra avesse interesse per la psicanalisi. Matricola a Oxford, segue i seminari di uno junghiano, John Layard, ma né Freud né Jung entrano tra le sue letture della maturità. Come Nabokov, più di Nabokov nemico degli intellettualismi, è probabile che non avesse né interesse né fiducia in questo genere di scavi nel profondo. D’altra parte, era troppo intelligente per non sapere quanto contino le esperienze infantili nella formazione del carattere di una persona. A ventisette anni scrive all’amico Jim Sutton una lettera che all’orecchio del lettore italiano suona molto leopardiana: 

“La mia visione della vita è molto semplice e infantile: penso che nasciamo e cresciamo e moriamo. Penso che la nostra visione del mondo si forma prima dei cinque anni e che ogni successiva grande alterazione è parziale e insoddisfacente. Tutto ciò che facciamo è fatto con l’obiettivo del piacere, e se siamo infelici è […] perché le cose non vanno secondo i nostri piani, o per l’inevitabile irruzione delle malattie, della morte e del tempo. Anche l’immaginazione e la sensibilità sono portatrici di angoscia, e sono attitudini per le quali non sembra sia stata prevista una funzione adeguata. Se consideriamo seriamente la vita, essa ci appare come un’agonia troppo grande perché la si possa sopportare, ma generalmente la nostra mente sorvola su queste cose, e finché il ghiaccio finalmente non ci prende con sé noi ci pattiniamo sopra quasi allegramente”. 

“Tutto ciò che facciamo è fatto con l’obiettivo del piacere. L’immaginazione e la sensibilità sono attitudini portatrici di angoscia”

Leopardiana, dicevo, nel tono genericamente disperato, ma poi anche in due aspetti puntuali: da un lato il nesso tra la ricerca del piacere, la sua frustrazione e la conseguente necessaria infelicità (Leopardi, come si sa, ci costruisce sopra una teoria molto articolata: “L’anima umana”, scrive nello Zibaldone il 12 luglio 1820, “desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere”); dall’altro lato è leopardiana l’osservazione secondo cui nelle persone sensibili l’angoscia si genera anche a causa di un eccesso d’immaginazione, sicché ai patimenti del momento presente si sommano quelli sognati dalla fantasia (stessa pagina dello Zibaldone: “Esiste nell’uomo una facoltà immaginativa la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti”). 

Invece l’idea che la nostra visione del mondo si formi prima dei cinque anni ricorda, con un dippiù di pessimismo, il già molto pessimistico adagio pseudo-gesuitico che dice “Dammi un bambino di meno di sette anni e ti mostrerò l’uomo”. Non sette ma cinque anni, sostiene Larkin, e il resto della vita morale e intellettuale scorrerà in quel solco. Messa così è una specie di boutade, l’autoritratto ironico di quel nato vecchio che – non diverso in questo da molti intellettuali – almeno in parte Larkin era: “Sai che non sono mai stato un bambino – scrive al suo amico e biografo Anthony Thwaite – la mia vita è cominciata a 21 anni, o ancora meglio a 31”.

Comunque sia, che cosa si era trovato nel corredo, il piccolo Philip Larkin? Quale visione del mondo gli avevano consegnato i suoi primi cinque anni di vita? A leggere le cinquecento pagine delle Letters Home, le lettere mandate nell’arco di quarant’anni alla madre e al padre e poi, dopo la morte di quest’ultimo nel 1948, soltanto alla madre, si direbbe nulla di molto diverso da ciò che figli ordinari ricevevano da ordinari genitori nell’Inghilterra tra le due guerre, semmai forse qualcosa di meglio. Le lettere di Philip sono affettuose, ironiche, e sembrano poter contare su un codice espressivo condiviso: argomenti, tono, humour. La madre scrive tanto, in numero di lettere e in pagine, ed è chiaro che scoppia d’orgoglio per il figlio prima studente modello a Oxford poi poeta famoso, e ne sente la mancanza. Le lettere del padre sono quelle di un padre inglese nato alla fine dell’Ottocento: non gli si può chiedere informalità e spensieratezza, ma anche lui, più freddamente, appare interessato, partecipe, felice di conversare col figlio dei libri che sta leggendo. Certo, più scrupoloso che affettuoso, con effetti di involontaria comicità, come nella lunga lettera dell’8 settembre 1944. Philip aveva scritto alla madre da Oxford dicendole che “in ognuno l’impulso alla solitudine è più forte di quello all’amore o alla ‘tenerezza’. Se non è così, dovrebbe, perché si muore da soli, e tutti quanti dovremmo orientarci (orientate) verso la morte”.

Il padre gli risponde il giorno stesso puntualizzando: “Nella tua lettera di stamattina dici che si muore da soli e che tutti quanti dovremmo orientarci (orientate) verso la morte. Allora mi sono deciso a guardare sul dizionario orientate, perché, come il verbo ‘implementare’, è una parola che non ho mai usato. Uno si domanda come ha fatto senza! Ma la parola corretta è orient, che nel suo senso letterale è stata usata nel 1727: ‘Molte religioni orientano i loro templi’. Come, prima del 1850, sia passata a significare ‘mettere in una determinata relazione con fatti o princìpi noti’, è un mistero”.

Quale visione del mondo avevano consegnato i primi cinque anni di vita al piccolo Philip? Leggiamo le lettere mandate alla madre e al padre

“Non ricordo che i miei genitori abbiano mai fatto anche solo uno spontaneo gesto di affetto l’uno nei confronti dell’altro”, scriverà anni dopo Larkin alla fidanzata Monica Jones. Leggendo questa dotta glossa al verbo orientate, una glossa che non tiene in alcun conto ciò che il figlio ventiduenne aveva scritto a proposito della morte, e insomma oblitera il contenuto della lettera e discute solo della forma, non si fa fatica a crederlo; e lo stesso trattamento l’anaffettivo Sydney avrà certamente riservato al figlio. Ma non è il modo in cui quasi tutti i padri interpretavano la loro funzione sin quasi alla fine del Novecento?

Del resto, bisogna sempre tenere presente che le lettere ai genitori sono in gran parte un esercizio retorico: non si dice tutta la verità e non ce la si aspetta in cambio; e si parla di quel che succede giorno per giorno, non delle questioni veramente importanti. Usciti di casa, se si è maturi a sufficienza, s’impara a fingere. Delle questioni importanti si parla semmai – cioè si parlava, quando esistevano le lettere di carta – nella corrispondenza con gli amici, nei diari se si tiene un diario, nelle interviste se si diventa abbastanza famosi da essere intervistati. Larkin tenne per tutta la vita un diario, ma prima di morire raccomandò a Monica di distruggerlo: “Ho lasciato alcune carte private e i miei diari in giro [nel mio appartamento]. Tutta questa roba, che conservo forse in parte nell’eventualità che io voglia scrivere un’autobiografia, in parte per risollevarmi un po’ l’umore, dovrà essere bruciata senza essere letta nel caso che io muoia”.

Dalle molte lettere e dalle rare interviste emerge, della vita familiare a Coventry, un ritratto a chiaroscuro, come accade per la gran parte degli esseri umani, ma con una sicura prevalenza del nero sul bianco. I genitori erano persone amabili ma, ha detto Larkin in un’intervista, “not very good at being happy”. Come accade, un po’ dell’infelicità che vediamo affiorare nelle poesie e nelle lettere della maturità gli sarà stata trasmessa per contagio dai genitori. “La sua infanzia è stata infelice?”, gli domanda Robert Phillips della Paris Review. “La mia infanzia – risponde lui – è andata bene: confortevole, stabile, amorevole; ma non ero un bambino felice, o così dicono. Dall’altra parte, non sono mai stato un recluso, checché se ne dica: avevo degli amici, e mi piaceva stare insieme a loro. A paragone di altre persone che conosco, sono estremamente socievole”.

Un po’ dell’infelicità che vediamo affiorare nelle poesie e nelle lettere della maturità gli sarà stata trasmessa per contagio dai genitori

E Coventry? Ci era nato nel 1922, ci era vissuto fino al 1940, quando era partito per studiare a Oxford. Diciotto anni. Ma, come capita, gli anni dell’università avevano segnato una cesura, e con la città natale non avrebbe mantenuto alcun vero legame affettivo. Quando, nel 1971, gli comunicheranno che la sua casa di famiglia era stata abbattuta per costruire il viale che corre intorno al centro della città, la sua reazione sarà meno che tiepida: “E così hanno buttato giù la nostra casa! Dovrebbero pagare, immagino, ma nessuna notizia a riguardo”. 

L’unica poesia di Larkin in cui venga pronunciato il nome di Coventry s’intitola I Remember, I Remember ed è una delle sue più belle; la scrive tra il 1954 e il 1955, verso la fine del periodo trascorso a Belfast. La traduzione (solo di servizio! Gli anglofoni si cerchino il testo originale in rete) è mia: 

“Risalendo l’Inghilterra su una linea diversa
nel freddo dell’anno appena cominciato,
il treno si fermò, e vedendo uomini che, lesti sui binari,
portavano targhe d’auto verso un ingresso familiare,
“Ma è Coventry!”, esclamai. “E’ dove sono nato”.
Mi sporsi dal finestrino e aguzzai la vista per un segno
che quella era ancora la città che era stata ‘mia’
per tanto tempo, ma invano: non capivo neanche
da che parte mi trovavo. Era da lì, dove giacevano
quelle biciclette imballate che ogni anno partivamo
per le vacanze in famiglia? Risuonò un fischio:
le cose si mossero. Tornai a sedermi, fissandomi le scarpe.
‘E’ qui – sorrise il mio amico – che hai le tue radici?’.
No, volevo rispondere, è solo il luogo dove
non vissi la mia infanzia, il mio punto di partenza:
la mappa che ho tracciato ormai è completa:
per prima cosa il giardino, dove non inventai
teologie abbaglianti di fiori e di frutti
e dove nessun vecchio saggio mi rivolse la parola.
Qui abbiamo invece quella splendida famiglia
presso cui mai mi rifugiai quand’ero triste,
i ragazzi tutti bicipiti, le ragazze tutto seno,
la loro buffa Ford, la fattoria dove potevo essere
‘davvero me stesso’. E adesso seguimi, ti mostrerò
i campi di loglio in cui non mi sedetti mai, tremante,
deciso ad andare fino in fondo; dove lei
si distese, e ‘tutto diventò una calda nebbia’.
E in quegli uffici laggiù le mie poesiole
non vennero composte in corpo dieci, né lette
da uno stimato cugino del sindaco,
il quale non convocò mio padre e non gli disse ‘Qui
davanti a noi, se potessimo guardare nel futuro…’.
‘Da come ne parli – disse il mio amico – sembra che vorresti
veder bruciare questo posto all’inferno’. ‘Oh, be’,
risposi, ‘suppongo che non sia colpa del posto:
niente, come qualcosa, accade dappertutto’”.

Se “I Remember, I Remember” fosse una meditazione sui dolori dell’infanzia sarebbe puerile, una lagna da crepuscolari. E’ qualcosa d’altro

La casa dei Larkin si trovava al numero 1 di Manor Road, a poche centinaia di metri dalla stazione. Poco più in là, su Warwick Road, c’era e ancora c’è la bella scuola in mattoni rossi intitolata a re Enrico VIII nella quale Larkin passò dieci anni, dal 1930 al 1940 (nel 2002 gli hanno intitolato una “Philip Larkin Room”). La casa di famiglia era sopravvissuta ai bombardamenti tedeschi del novembre 1940. Larkin era arrivato da poche settimane a Oxford, dove i docenti – alcuni reduci della Prima guerra mondiale – si facevano un punto d’onore nel minimizzare i pericoli della guerra. “Giovedì mattina c’è stato un breve allarme. Mi hanno detto che il vecchio Brett-Smith, che faceva lezione di letteratura medievale, si è interrotto, ha guardato da sopra gli occhiali e ha detto: ‘Percepisco forse un suono in-accademico?’. Tutti sono scoppiati a ridere e la lezione è proseguita”. 

Poche settimane, e le cose si fanno più serie. Saputo dei bombardamenti di metà novembre, e dato che non riesce ad avere notizie dei familiari, Larkin parte per Coventry insieme all’amico Noel Hughes. Trova la casa ancora in piedi ma vuota, perché i genitori erano sfollati in campagna, a Lichfield. Racconterà la sua avventura in una lettera ai genitori del 18 novembre, ed è un racconto come sempre “di superficie”, che riesce persino a essere ironico, e divagante: “Nell’attesa di notizie, la tensione ha aumentato la mia bibliomania, così ho comprato Blake nella Muse’s Library, 2 sterline; Un’introduzione a Blake di Max Plowman, 3 sterline; il teatro di Thomas Dekker nella collana Mermaid”. 

Se I Remember, I Remember fosse una meditazione sui dolori dell’infanzia sarebbe una cosa puerile, come le lagne dei crepuscolari: quale anima di poeta – ma anche di non poeta – non ha sofferto, infatti, tra l’infanzia e l’adolescenza? Ma anche: chi in quegli stessi anni non è stato felice, almeno ogni tanto? No, la composta bellezza di questa poesia sta altrove, non nel lamento ma nel desolato conteggio di tutto ciò che poteva accadere e invece non è accaduto, anzi precisamente di tutto ciò che l’oleografia dice che dovrebbe accadere nella vita di un giovane poeta: l’amore, i precoci slanci dell’immaginazione, il consiglio dei più anziani e saggi, l’ammirazione dei primi lettori. 

Questo elenco di cose non fatte, non viste, non esperite precipita nel perfetto scambio di battute con il compagno di viaggio che chiude la poesia. Come ha detto molto bene Martin Amis, Larkin è infatti un “poeta da romanzieri”, e “molte sue poesie, molte singole stanze, assomigliano a novelle distillate”, e come le novelle integrano con disinvoltura la voce di personaggi diversi dall’io narrante. “Vorresti veder bruciare questo posto all’inferno!”, esclama il compagno di viaggio. No, replica Larkin, non è colpa del posto: “Nothing, like something, happens anywhere”; ma prima ancora che in questo finale lapidario, il motivo fondamentale della poesia era stato già enunciato al v. 14, ed è appunto il motivo del tempo della giovinezza non impiegato come avrebbe potuto e dovuto essere. “E’ qui che hai le tue radici?”, domanda il compagno di viaggio. No, è la risposta, “only where my childhood was unspent”. Il lettore italiano pensa di nuovo a Leopardi.

Nella vita, le cose per lo più “non” accadono. Non è ovvio che Larkin ha ragione? Eppure, è un pensiero che suona quasi originale, spaesante

Nella vita, le cose per lo più non accadono. Non è così, non è ovvio che Larkin ha ragione? Eppure, è un pensiero che suona quasi originale, spaesante, perché siamo abituati a leggere o ascoltare o vedere vite nelle quali invece accadono molte cose: sui giornali, nei libri, nei film. Ma è un 1 per cento di casi eccezionali, mentre la vita del restante 99 per cento corre su binari infinitamente più lenti e diritti. Non solo come scrittore ma anche come lettore Larkin preferiva avere a che fare con questa larghissima grigia maggioranza: “Mi piace leggere – scrive in una lettera a Charles Monteith – di persone che non hanno fatto niente di spettacolare, che non sono né belle né fortunate, che cercano di fare del loro meglio nel limitato campo di attività che è il loro, ma che sanno comprendere, in piccoli autunnali momenti di lucidità, che non sono destinati a fare le cosiddette ‘grandi esperienze’”. A chi non è stata appiccicata l’etichetta di “poeta dell’ordinario”? Ma nessuno ha saputo descrivere la tristezza e la meraviglia dell’ordinario meglio di Larkin.