Uffa!
L'epica Battaglia d'Inghilterra: mai la sorte di così tanti fu nelle mani di così pochi
I 700 piloti di caccia contro l'aggressione nazi
Tra agosto e settembre del 1940 lo scontro mortale era tutto tra una Luftwaffe carica di vittorie e il centro di comando degli aerei da caccia inglesi, gli Hurricane e Spitfire che per la loro velocità e spericolatezza erano il meglio quanto al buttar giù gli erculei bombardieri nazisti
Quando la Francia si arrese ai nazi nel giugno 1940, Galeazzo Ciano scrisse sul proprio diario che Hitler gli pareva un giocatore che al tavolo del poker s’era guadagnato una gran vincita e che a questo punto smaniava di abbandonare il tavolo da gioco. Padrone com’era divenuto dell’intera Europa continentale, a Hitler non importava niente di piantare la croce uncinata su un’“isola” di nome Inghilterra. Tanto è vero che dopo la vittoria sulla Francia dismise un bel po’ delle sue divisioni di fanteria. Quando vide che l’Inghilterra non ne voleva sapere di alzare bandiera bianca, emanò la sua famosa direttiva numero 16 del luglio 1940 nella quale annunciava nientemeno che di star preparando l’invasione via mare dell’Inghilterra entro metà agosto, una cosa che non stava né in cielo né in terra. La Germania non aveva niente di quello che occorreva per una tale operazione, non di certo la superiorità navale sugli inglesi e meno che mai un’adeguata attrezzatura di mezzi da sbarco su cui portare uomini e carri armati sulle spiagge inglesi. Si fosse tentato un assalto via mare, nella sola prima ondata la marina tedesca avrebbe dovuto scaraventare sul suolo inglese non meno di 260 mila uomini, 30 mila veicoli militari e 60 mila cavalli, ciò che immediatamente i massimi vertici dello stato maggiore tedesco giudicarono del tutto irrealizzabile. Semmai, argomentarono in un faccia a faccia con Hitler, l’invasione poteva essere programmata non prima di metà settembre.
Quello su cui i nazi potevano realisticamente puntare, da luglio in poi, era sommergere Londra con un tale quantitativo di bombardamenti aerei da schiantare il morale del governo e del popolo inglesi. Quale gente al mondo avrebbe potuto resistere, giorno dopo giorno, a orde di bombardieri che si sarebbero avventati su uomini e cose come mai era avvenuto prima nella storia militare? L’obiettivo non era che le SS arrivassero calzate e vestite a Westminster, e bensì che gli inglesi ammettessero che non ce la facevano più a sopportare una tale ordalia. E del resto questo era avvenuto nella guerra contro la Polonia e contro l’Olanda, che quei paesi si fossero arresi ai tedeschi dopo i forsennati bombardamenti aerei di Varsavia e Amsterdam. L’intera teoria militare novecentesca sul ruolo dell’aviazione avvalorava questo assunto. Se l’Inghilterra avesse abbassato le armi, l’America di Franklin Delano Roosevelt avrebbe scelto l’opzione “isolazionista”, visto che in Europa non esisteva alcuna opposizione possibile contro Hitler, sicché i nazisti avrebbero potuto invadere l’Urss senza che nessuno alle loro spalle si arrischiasse a disturbarli.
E dunque tra agosto e settembre del 1940 lo scontro mortale era tutto tra una Luftwaffe onusta di vittorie e il centro di comando degli aerei da caccia inglesi, gli Hurricane e Spitfire (il cui prototipo risaliva al 1936) che per la loro velocità e spericolatezza erano il meglio quanto al buttar giù gli erculei bombardieri nazi. Per i tedeschi la posta in gioco era se sì o no vincere l’ennesima battaglia, per gli inglesi era la sopravvivenza. A parte la stazione radar (termine coniato dalla marina americana) di Bawdsey Manor e tutte le altre che ne erano state filiate dopo il 1937, dove gli aerei che si avvicinavano ostili alle coste inglesi li identificavano sino a 20 mila piedi d’altezza per poi fare scattare immediatamente i caccia che li intercettassero, mai nella storia la sorte di così tanti era stata nelle mani e nel coraggio di così pochi. Ossia i 700 piloti di aerei da caccia che tra luglio e settembre montarono in cielo a parare l’uragano nazi – inglesi, canadesi, polacchi, cecoslovacchi (il leggendario Josef František uno di loro), volontari americani, francesi liberi. Pochi avevano più di 26 anni. Portavano un salvagente dipinto di giallo per essere visibili se cadevano nel mare della Manica. Avevano una rivoltella negli stivali da volo per spararsi un colpo in testa e non bruciare vivi se l’aereo prendeva fuoco. Tra luglio e settembre 1940 ne morirono 544. Il libro d’oro con i nomi di quei piloti è custodito nell’abside della cattedrale di Westminster.
A narrare l’epica della Battaglia d’Inghilterra ci si è messo per sei anni uno dei più rinomati e prolifici scrittori inglesi del Novecento, Len Deighton (nato nel 1929). La mia copia del suo “Fighter. The True Story of the Battle of Britain” (pubblicato originariamente nel 1977) è un’edizione inglese del 2014. Poco più che undicenne lui una volta l’aveva vista arrivare, lassù in cielo, una formazione di circa 50 bombardieri nazi che si sarebbe avventata sul nord di Londra. La Battaglia d’Inghilterra Deighton la divide in quattro fasi. La prima, iniziata in luglio, in cui i tedeschi devono guadagnare il controllo della Manica arrecando il massimo dei danni alla marina inglese. La seconda, iniziata il 12 agosto e durata una settimana, che avrebbe dovuto costituire il cuore dell’offensiva aerea. La terza, dal 24 agosto al 12 settembre, il cui obiettivo era la distruzione degli aeroporti del sud-est d’Inghilterra utilizzati dai caccia inglesi. Il quarto, a partire dal 7 settembre, in cui mettere a ferro e fuoco Londra con attacchi prima diurni e poi notturni. Uno di quelli convinti che l’Inghilterra non avrebbe retto a un tale attacco e che non lo taceva era Joseph Kennedy, l’ambasciatore americano a Londra e padre del futuro presidente.
E invece gli inglesi e i loro compagni d’arme tennero eccome. Ancora il 15 settembre – “il giorno della Battaglia d’Inghilterra” –centinaia e centinaia di Hurricane e di Spitfire contesero ogni palmo del cielo di Londra ai bombardieri tedeschi esausti e decimati. Le previsioni meteorologiche annunciavano cattivo tempo in cielo e in mare il 16 e il 17 settembre. Hitler pospose definitivamente lo sbarco in Inghilterra. Il giocatore di poker aveva abbandonato il tavolo. Di uno degli eroi liberali che avevano inflitto ai tedeschi la prima sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, il tenente Richard Hope Hillary (morto ventitreenne l’8 gennaio 1943), avevo letto poco più che ventenne il libro autobiografico “L’ultimo avversario”, pubblicato dal Saggiatore nel 1964, dove narra come venne abbattuto il 3 settembre 1940 nello scontro con uno degli assi dell’aeronautica tedesca, l’abitacolo del suo aereo che va in fiamme, lui che sviene, subisce estese ustioni al viso e alle mani, recupera i sensi, riesce a scaraventarsi con il paracadute nel Mare del nord dove lo riscatta una scialuppa di salvataggio. Ci vollero tre mesi di ripetuti interventi chirurgici per ricostruire quanto del suo viso e delle sue mani era andato bruciato. Benché la sua mano destra stentasse a usare la leva del freno del suo bimotore, volle a tutti i costi tornare a volare e questo finché il suo aereo non si infranse durante un volo notturno in condizioni meteorologiche avverse. Il suo è divenuto uno dei nomi simbolici di questa guerra, scrisse Arthur Koestler in “Lo Yogi et il Commissario”, uno dei libri più alti nel fare i conti con il Novecento.