Non sparate sull'autofiction, piuttosto fatela meglio
Quando in un discorso sul romanzo contemporaneo si sente parlare di autofiction, il critico mette mano alla pistola. Cosa sarà, si chiede il lettore, questa autofiction? Scelta di retroguardia da parte di chi nel romanzo ci crede ancora o compromesso al ribasso, è comunque utile. Ecco perché.
Quando in un discorso sul romanzo contemporaneo si sente parlare di autofiction, il critico mette mano alla pistola. Il motivo ha a che fare con questioni di etichetta, nel senso stretto del termine. Cosa sarà, si chiede il lettore, questa autofiction (un termine che viene dalla teoria del romanzo francese degli anni ’70 con Serge Doubrovsky e che in Italia con l’inizio del secolo ha conosciuto una nuova primavera)? Un modo à la page di indicare come oggi ci si confessa, dal diario di Facebook all’autobiografia letteraria, o uno pseudoconcetto universitario? E’ una parola che di recente Pascale ha inserito dapprima come feticcio teorico di cui sbarazzarsi con soddisfazione malcelata in Le attenuanti sentimentali (nelle sue pagine Pascale mostra di frequente una lievissima insofferenza verso i critici), poi in quanto ineliminabile orizzonte del discorso in cui lo scrittore si recinta nel secondo pannello di Le aggravanti sentimentali.
La possibilità di inventare un mondo, sostiene Pascale, e di dominarlo con la tirannia del narratore onnisciente sta finendo. Non resta che raccontare guardandosi allo specchio. Al massimo, per non correre il rischio di venire accusati di solipsismo, si includono gli altri nel proprio discorso comprandosi uno specchio più grande. Eppure, nel discorso c’è qualcosa che non torna. Non certo la rivendicazione di poetica del suo autore – che è legittima soprattutto se, è il suo caso, c’è dietro uno scrittore importante. È che nel discorso sull’autofiction si annida un’altra parola. Magari, per un principio d’economia, la si può qui sostituire ai neologismi perché riassume in parte la strada presa da Pascale: autobiografia.
Il discorso autobiografico non è molto di più che un parlare del proprio essere nel mondo in relazione ad altre persone, fino a fare terra bruciata delle esperienze personali, se serve allo scopo di capire meglio. È uno scavo che rivendica l’autoreferenzialità, s’intreccia non a caso con la filosofia sin da tempi non sospetti, da Agostino a Rousseau, autori di due Confessioni memorabili, arrivando a Nietzsche; flirta con i più svariati generi letterari, dal saggio al reportage, a patto che a sé stessi si torni; esibisce con un misto di reticenza e apertura obiettivi, idiosincrasie degli argomenti e della lingua, metodi di lavoro (reinterpreto a modo mio l’esempio della trapezista e dell’attrezzista).
Quanto alle linee evolutive e agli “scrittori di una volta”, la mano del critico esita sulla fondina. Si scrive perché si è intrappolati nella propria vita, anche nel disprezzo o nel fastidio, e immedesimarci in vite altrui può esprimere il desiderio di accantonare la nostra: fra la letteratura e il proprio ombelico c’è una liaison pericolosa che nella modernità si rivela onnipresente, più spesso gridata che clandestina. Dopo tutto, la storia del romanzo nel ‘700 inizia con la falsa autobiografia di un naufrago, Robinson Crusoe di Daniel Defoe, spacciata inizialmente per vera dal suo autore, e certe opere incerte sulla soglia fra romanzo e autobiografia rimangono quanto di più bello s’è visto nel nostro secolo (non bisognerebbe fare esempi con i casi eccezionali, ma almeno Proust va menzionato).
Il narratore onnisciente non è, in questo quadro, uno stadio superato, ma un’opzione simbolica che ha avuto il suo apice nell’800 e può rivivere, riadattata, in epoche diverse. Quante cose si possano contenere in romanzi di ambizioni ingenti e soluzioni impreviste che pure congedano il narratore onnisciente, lo sanno Donna Tartt, Jonathan Franzen, Mathias Enard, o in Italia Aldo Busi e Walter Siti, per dirne pochi. Le astuzie della letteratura non contemplano le strade a senso unico.
E l’autofiction? Sta in una nicchia fra autobiografie rivisitate e romanzi che optano per una “soggettiva” accentuata: significa letteralmente “finzione di sé”, romanzo della propria autobiografia. Più che il doppio movimento di introspezione ed esibizione, in gioco c’è la tensione di distorcere fatti realmente accaduti e farlo capire al lettore. Chi scrive autofiction è un bugiardo esemplare che da un lato della Storia diffida, dall’altro dell’autobiografia si serve solo per smontarla e affermare che la verità più degna sta nelle invenzioni. Che sia una scelta di retroguardia da parte di chi nel romanzo ci crede ancora o un compromesso al ribasso, di sicuro si tratta di una categoria utile, a patto di ricalibrarla.
Intervista a Gabriele Lavia