Fascismo donne - foto via Getty Images

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Storie di donne dentro il regime fascista. Un libro

Mariano Croce

Nicoletta Verna è in libreria con "Nei Giorni del Vetro": le storie molto diverse di Redenta e Iris durante il Ventennio, in un romanzo che è capace di contenere il bene e il male senza attenuanti

Guidarello Guidarelli, ravennate, fu condottiero al servizio di Cesare Borgia, il duca Valentino, figlio illegittimo del papa Alessandro VI. Doppiogiochista per dote naturale, da soldato del Papa passava informazioni alla Serenissima Repubblica di Venezia. Forse per questa sua ambivalenza fu ucciso, o forse per una faccenda ben più insulsa, che screzia di ordinario la sua figura signorile. Ma non importa: Guidarello è passato alla storia come mezzano più che per la valentia nelle azioni in guerra. Pur senza particolari meriti presso Nostro Signore, la scultura che lo raffigura in agonia, in origine posta all’interno della chiesa di San Francesco a Ravenna, è circondata dall’aura del miracolo tinto di rosa: un bacio sulle sue labbra pare garantisse il matrimonio entro l’anno.
 

E chissà di quante vite a due Guidarello sia stato lo snodo. Di certo lo fu per Redenta, nata a Castrocaro Terme il 10 giugno 1924, giorno fatale del delitto Matteotti. L’arte di Redenta era il silenzio – un silenzio fermo, stentoreo, eppure mai vistoso. Il suo non era un moto di protesta, né borioso innalzamento al di sopra dei suoi simili. Il silenzio di Redenta era uso consapevole della parola, in quella lingua perfetta che, dice Cristina Campo, nell’atto di scriverla si cancella: “Avrei voluto dirgli che non ero muta: stavo zitta”. Redenta parlava solo se ce n’era bisogno, e constatava che troppo spesso non ce n’era. E allora amici e compaesani la prendevano per muta, oppure la credevano affetta da un qualche ritardo mentale, una “scimunita”.
 

La sua venuta alla luce fu il segno premonitore di una vita usuraia, che rende eterni debitori coloro ai quali concede finanche il più infimo dei favori. La madre, Adalgisa, non riusciva ad avere figli che rimanessero in vita dopo i primi giorni. Solo Zambutèn, “erudito di piante e radici e intrugli che Dio sa cosa”, la poté aiutare. La prima sua figlia capace di resistere fu proprio Redenta, di cui parenti e compaesani attendevano la morte un poco annoiati, come fosse uno spettacolo mandato in replica troppe volte, fino a stancare: “Tutti a Castrocaro stavano a vedere se morivo, ma io la sera ero sempre viva, e pure la mattina dopo”.
 

Dopo l’attesa (delusa) del congedo anzitempo, parenti e compaesani presero ad attendere che Redenta cominciasse a parlare. Ma non parlava. Adalgisa si rivolse di nuovo a Zambutèn, che la rassicurò su quel silenzio indecifrabile, ma le predisse “la scarogna”: di lì a poco, la poliomielite portò via a Redenta il suo incedere sicuro e senza chiasso, assieme alle belle speranze di una vita trapunta dei dolori che attendono ogni donna: “Com’è che non piange? – chiedeva la sera mio padre. – Piangerà. Le donne prima o poi piangono tutte”. La vita di donna di Redenta fu persino più complicata di quella di molte sue consimili. Eppure la sua rassegnazione non divenne mai resa. Con la dignità indefettibile che segna le figure morali della più alta statura, seppe affrontare le indelicate sevizie che fecero seguito alla sua penosa condizione fisica senza chiedere alcuna consolazione e pronta a seguire la traccia segnata per lei dalla scarogna. Fu allora che la madre pensò di far ricorso alla mediazione di Guidarello: Redenta baciò la scultura, fu data in sposa a Vetro (gerarca d’una qualche fama amico del padre) e delle follie e alterne vicende di questi pagò tutti i costi.
 

Redenta è uno dei due soli a illuminare la sfera celeste istoriata ne I giorni di Vetro (Einaudi 2024), di Nicoletta Verna. Il romanzo intreccia infatti le sue vicissitudini con quelle di una deuteragonista, Iris, di natali e formazione tanto diversi da far pensare a un doppio, sì, ma rovesciato. Nata nella primavera del 1923, Iris fu cresciuta dalla madre tra le belle lettere. A Forlì ebbe luogo la svolta della sua esistenza: presa a lavorare nella villa di una coppia di marchesi, fieri antifascisti, conobbe Diaz, che ne segnò il destino. Proprio come Vetro per Redenta, ma appunto al rovescio: le sofferenze non derivarono dalle meschinerie del marito, bensì dal suo ardimento.
 

Ma ne I giorni di Vetro c’è assai più che la storia pur avvincente di due donne. Mediante la reciproca inversione di Redenta e Iris, il libro racconta le disgrazie dell’Italia fascista senza tutto il tramestio incoccardato dell’antifascismo di professione. E lo fa con tanta cura e levatura morale da far sembrare il romanzo un pretesto – elegante e ben tornito, ma pretesto.
 

I marcatori dell’analisi storica sotto le mentite spoglie di opera narrativa sono molti: Redenta nasce col delitto Matteotti, che segna la metamorfosi del regime e ne sancisce la svolta autoritaria; le pagine del libro inscenano episodi occorsi nelle zone che hanno portato la sanguinosa croce della guerra di liberazione, come ad esempio Tavolicci, dove il 22 luglio 1944 i nazifascisti fecero strage di civili; il romanzo segue infine le vicende di repubblichini e partigiani dediti alla più feroce delle battute di caccia tra consimili. La storia delle protagoniste segue così le peripezie del Regime, che al principio si diffondeva tra la cittadinanza con l’innocenza di un male incurabile. Nei primi anni, i castrocaresi non sentivano che gli echi della nuova èra. La loro vita cambiò, in meglio, quando nel 1936 Mussolini concesse l’ampliamento delle vecchie terme ottocentesche e la convenzione demaniale che permise la realizzazione dei nuovi complessi. Da terra ingrigita dalla povertà, Castrocaro Terme diventò l’alveare ronzante e vitale che si ritrova nelle trame de I giorni di Vetro. Ma il benessere non ebbe vita lunga: dopo il 25 luglio 1943, l’Italia si divise in due. E proprio alla parte meridionale della Romagna spettò il ruolo ingrato di zona di separazione tra due territori tra loro in guerra.
 

Implacabile nella sua prosa, che condanna senza mai però ungersi di moralismo, Verna non manca di passare in rassegna le barbarie del colonialismo italiano. Ripercorre il ritmo delle convinte autoillusioni e dei desolanti atti di dissipazione morale e asservimento sessuale di giovani e spesso giovanissime indigene. Ma proprio col suo sguardo alle violenze oltreconfine, il libro si rovescia in analisi appuntita della condizione delle donne prima e dopo la guerra
 

In effetti, come in una sorta di contrappunto, le descrizioni della vita fuori e dentro i confini nazionali additano gli uomini quali lucidi gestori di un sistema brutale di consumo e scambio delle donne come bene d’uso, mentre queste si rassegnano, consapevoli, a un presente che sembra non attendere riscatto. Quando la madre di Redenta si accorge delle animalesche torture perpetrate dal marito della figlia sul suo corpo e sulla sua coscienza, ella volge lo sguardo altrove e riconsegna il lurido affare alle dinamiche ingiudicabili della vita di famiglia: “Che poi, – aggiungeva, – sono affari vostri. Solo il coperchio conosce cosa bolle nella pignatta. Si voltava dall’altra parte e rimaneva in silenzio”. E Verna indica in questo la colonna portante del sistema di dominio maschile, così da echeggiare le critiche più avvertite della sociologia di Pierre Bourdieu, secondo cui ogni atto di consapevole sottomissione consolida lo stato apparentemente immutabile delle cose: “Era quello il destino dei matrimoni, e non c’era da meravigliarsi tanto”.
 

Ma in un assortimento di antagonismi ben studiati, Verna ci accosta a una storia pronta a rompere con il passato: quello di un’Italia nelle more di un repentino cambio di regime e quello delle donne, che si avviano a un epocale mutamento di condizione sociale e politica. La chiave per comprendere queste dinamiche, forse, sta proprio nell’opposizione, o quantomeno nella differenza, tra i modi e tra le azioni delle rappresentanti di tre generazioni di donne, con attese assai diverse nei confronti della vita: la Fafina, nonna di Redenta, Adalgisa, sua madre, quindi le protagoniste, Redenta e Iris, coetanee.
 

La Fafina è una figura nobile ma isolata, incompresa, la cui ribellione al regime di dominio maschile assume i tratti del lunatismo: la sua vita è attraversata dal Mazapegul, folletto romagnolo, retaggio di miti celtici, col berretto rosso e i piedi di bambino, sempre in cerca di sensuali gentilezze da parte delle giovani donne. Adalgisa è l’eroina di una protesta chiassosa e impotente nei confronti del mondo, che quanto più gli grida contro tanto più finisce per subirlo. I suoi gesti vistosi sono l’opposto del mutismo della figlia: raccolgono l’attenzione di tutti ma non sortiscono alcun effetto, se non danni per sé stessa. Accoltella il marito, ma per segnare un legame tanto indesiderato quanto inscindibile, più che per liberarsi del giogo patriarcale. Paga con la reclusione il prezzo di un atto che è pura insubordinazione, non già convinta rimostranza.
 

I caratteri e i gesti di Redenta e Iris sono invece di segno opposto rispetto a quelli di Adalgisa e della Fafina. Il solo significato del loro nome mostra i tratti incipienti di un destino nuovo: Iris, a indicare l’arcobaleno che porta con sé un messaggio divino di prossima redenzione, e Redenta, che nell’ironico compiersi di un participio passato denota piuttosto un futuro a venire. Le due protagoniste sono pronte a farsi carico dei costi di questo percorso di riscatto senza pretendere nulla in cambio e senza ambire al riconoscimento di un qualche eroismo. Manifestano l’integrità etica di chi sa che nelle loro biografie private si intrecciano storie pubbliche più antiche, destinate a seguitare dopo la loro morte. Per loro passa quella trasformazione delle condizioni che Verna esalta senza sovrappiù drammatizzanti, perché la storia che racconta – come ella stessa asserisce nella nota a chiusura del libro – non ha nulla di vero eppure nulla di falso. I giorni di Vetro descrive la storia di donne che si fanno protagoniste. Per larga parte della sua vita, Redenta subisce la propria esistenza, la osserva di lato come ne fosse spettatrice: “Ed ecco, il mio fidanzamento a me pareva come la guerra: qualcosa che riguardava qualchedun altro”. Via via si impossessa però delle proprie vicende, tanto più si fanno dolorose e arroventate: sofferenze, sangue, cicatrici la fanno risvegliare proprietaria di un’esistenza di cui decide la direzione, proprio come Iris, che al termine del romanzo si riscopre, appunto, “viva”. Così facendo, Verna non fa che diffondere abili pseudonimi mentre invero racconta una storia che ogni giorno celebra il suo 25 aprile: l’irruzione delle donne come protagoniste della vita politica in un’Italia che sempre fatica a ricomporsi.
 

Nelle pagine del libro non c’è alcun romanticismo pulito e perbene. All’opposto, i suoi protagonisti sono quelli di Cechov, che “la sventura non unisce, ma divide”: “Gli sventurati sono cattivi, egoisti, e ancor meno dei fortunati capaci di comprendersi”. La redenzione non fa santi, ma passa per l’acquisizione di una geometria spirituale iridescente, appunto, cioè capace di contenere il bene e il male. Nel libro c’è dunque commistione di bontà e di cattiveria proprio come nella vita che accade fuori dalle pagine dei romanzi. Il libro di Verna ha però un merito persino maggiore che quello, pur sommo, del rifiuto di edulcorare: restituisce le commistioni e le impurità mediante la musicalità sincopata di una lingua che è per l’appunto sempre “sporca” nella misura in cui fa volentieri spazio al dialetto. La lingua di Verna restituisce la vita così com’è: non tanto per amor del vero in quanto vero, ma perché segna le duplicità di un’Italia che non ha mai saputo rammendare le sue spaccature e che pure da queste sa trarre energie vitali. 
 

E con la stessa cifra stilistica, Verna fa convivere la realtà più concreta con il realismo magico incarnato da entità fantastiche, come appunto Guidarello, Zambutèn, il Mazapegul e altre invisibili forze moderatamente sovrumane. Queste incidono nella storia di Redenta e Iris producendo effetti reali, mai confinati in visioni illanguidite dal fiabesco. Quelle entità magiche sono parte della vita concreta di luoghi concreti. Le figure dai tratti mistici restituiscono modi di fare, credenze, usi, che orientano la vita di un’intera popolazione, come Zambutèn, che sa sempre di più del medico, Serri Pini, o Guidarello, che mantiene la promessa miracolosa sino a reincarnarsi nel marito di Redenta, Vetro, nativo di Ravenna “come Guidarello: forse era un suo discendente, così si spiegava la somiglianza”.
In questo libro, scritto con una lingua mai sotto tutela e che mai accarezza il lettore con fare condiscendente, un lucido gioco di corrispondenze nasconde i segreti di tre generazioni di donne. Le pagine di Verna intonano il canto di devozione verso una storia di conquista, fatta di sofferenze e di impurità, in un disegno che abbraccia un’umanità vasta sia nelle sue sfumature più nitide sia in quelle deformate dalla follia della guerra. In questa sua capacità di composizione, I giorni di Vetro è un libro che sa celebrare il coraggio di chi con la forza di un lungo grido ha saputo fendere quel mondo irrigidito e profondo che per secoli ha confuso la violenza con il piacere, proprio e altrui.

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