Il Figlio

Perdere i superpoteri

Nadia Terranova
Quando smettiamo di essere figli? Il giorno in cui sentiamo una smarrita amarezza, e un’assenza. Smettiamo di essere figli quando i nostri genitori ci sembrano fragili, sbiaditi, inadeguati, proviamo pena per il tempo depositato su di loro, su di noi e sull’antica paura della loro autorevolezza.

Da bambina, come tutti, pensavo che avrei smesso di essere figlia quando sarei diventata madre. Non sarebbe stato un cambiamento epocale, facevo le prove giocando a cullare Polly, pettinare Teresa, rimproverare Bobo. Sapevo che un giorno Teresa non sarebbe stata di plastica e Polly si sarebbe messa a sbrodolare latte vero, ma erano solo dettagli; quel giorno avrei saputo tutto perché sarei stata una madre, non importava di che tipo ma sicuramente diversa dalla mia.
A poco a poco che crescevo e incontravo adulti senza prole, certi persino più adulti di quelli con prole, la mia teoria cominciò a vacillare. Allora, quand’è che smettiamo veramente di sentirci figli? Succede a tutti o solo ai migliori (o ai peggiori) di noi? Dobbiamo aspettare la morte dei nostri genitori oppure tanto vale rassegnarci al fatto che figli lo saremo per sempre o che non lo siamo mai stati? Ciascuno ha una risposta diversa, eppure io so con certezza che a me è successo in quel momento lì, quel giorno preciso e nessun altro.

 

Il giorno in cui ho aperto la prima busta paga e dentro c’era uno stipendio miserello, ma io non leggevo i numeri, leggevo solo “fine dell’adolescenza” ed era una scritta forte, che lampeggiava. Il giorno prima di trasferirmi nel nord della Germania dove avrei avuto una casa tutta mia, mangiato quello che mi pareva e invitato a dormire chi volevo. Il giorno in cui, fuori dalle elementari, mio padre mi aspettava in mezzo agli altri genitori e non mi sembrava solido come loro ma debole e malato e avevo paura che svenisse o finisse travolto dalla folla. Il giorno in cui ho scelto un percorso universitario diverso da quello previsto per me, perciò sono scappata di casa affinché fosse chiaro che da quel momento in poi avrei deciso da sola tutto ciò che riguardava la mia vita. Il giorno in cui ho fatto un biglietto di sola andata per Roma e lo conservo ancora, guarda caso dentro “Bambini nel tempo” di McEwan. Il giorno in cui ho compiuto diciotto anni e fumato una sigaretta, ma in bagno, di nascosto dalla mia famiglia che aveva pagato la festa, quindi non vale.

 

Piuttosto ho smesso di essere figlia vent’anni dopo: ho riletto “Padri e figli” e il nichilismo della mia giovinezza era invecchiato malissimo, il giovane Bazarov mi pareva un saputello e il vecchio Pavel non aveva più tutti i torti. Ho smesso di essere figlia il giorno in cui mia madre si è risposata e mi è toccato coordinare mezzo ricevimento, perché “madre della sposa” è un ruolo d’altri tempi, ora va di moda “figlia della sposa” ed è persino divertente (e stancante, e snervante, e tutto il resto). Infine ho capito che passiamo la vita così, a smettere sempre un po’ di più, guardando la foto in cui siamo scalzi sulla sabbia, abbracciati a una madre o a un padre, certe volte a entrambi e altre a nessuno dei due, e una volta notiamo l’assenza e un’altra la presenza, un anno sentiamo ancora quella mano amorevole e sudaticcia sulla spalla e l’anno dopo quella scena ci è diventata estranea.

 

Smettiamo di essere figli quando i nostri genitori ci sembrano fragili, sbiaditi, inadeguati, proviamo pena per il tempo depositato su di loro, su di noi e sull’antica paura della loro autorevolezza, notiamo che sono rimbambiti, non si ricordano più le cose e ripetono sempre gli stessi aneddoti, allora diventiamo malinconici ma anche ringalluzziti perché facendosi loro da parte vuol dire che tocca proprio a noi vivere. Smettiamo quando uno dei due si ammala, soffre, muore. Smettiamo quando li accudiamo e pensiamo che non è un luogo comune, accade davvero di farsi genitori dei propri genitori. Quando scopriamo che quello dei due che ci era sembrato più eroe di tutti non aveva nessun superpotere, era solo meno cresciuto dell’altro. Quando ci vergogniamo perché fanno battute fuori luogo, non sono abbastanza magri né eleganti, non somigliano ai genitori degli altri, non sono neanche divertenti, non vogliono corrispondere all’epica migliorativa con la quale ci ostiniamo a raccontarli, smettiamo perché ci hanno fatto un torto vero o che percepiamo tale e siamo adulti ormai, non dobbiamo più sopportarli per forza. Ci vergogniamo per averli amati con assolutezza, tiriamo calci attenti a deluderli e tradirli fino in fondo affinché capiscano l’unica cosa a cui teniamo: che sappiano che non diventeremo come loro.

 

Smettiamo di essere figli quando siamo sicuri che non lo siamo diventati, quando non ce ne importa più niente, quando li perdoniamo, quando non abbiamo più bisogno di perdonarli, quando scopriamo che avevano ragione o non ce l’avevano affatto, quando siamo sollevati per averla scampata oppure accettiamo di non averla scampata perché “una donna è sua madre / questo conta”, lo diceva pure Anne Sexton. Sei mesi fa ho compiuto trentotto anni e sono diventata ufficialmente più vecchia di mio padre, morto all’età di trentasette. E’ stato un giorno mesto, che avevo atteso a lungo e ho celebrato con una smarrita amarezza: sono entrata nella seconda parte della mia vita e ora posso avere tutte le età che lui non ha avuto. Finalmente conosco la risposta alla mia domanda, so con certezza che quel giorno ho smesso di essere figlia. Almeno fino alla prossima volta.

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