"Amore materno" di Pino Daeni

Il Figlio

L'isola che non c'è

Rosa Matteucci
La madre fantastica molte amenità per il futuro della figlia, che in qualche modo protervo e mai vero crede essere il proprio, perché la figlia è sua, la figlia è la patria della madre, che non distingue la creatura umana dall’ologramma del sogno di una vita migliore che non dà requie.

Vanno madre e figlia: grossa la madre, piccola la figlia. Vivono camminando, camminano vivendo lungo un tragitto prestabilito, ma a loro ignoto o parzialmente tale. In qualche modo incomprensibile e pertanto sacro come ogni mistero le due femmine  sopravvivono. La madre ha sempre una falcata più lunga di quella della figlia, la figlia piccola invidia molto la madre che calza stivaletti come il gatto del marchese di Carabas. La figlia ignora che un giorno essa stessa indosserà stivaletti analoghi, e la madre ormai vecchia sarà relegata in fondo al carro, condannata a barcollare  qualche passo indietro, e avrà piedoni deformi, incedere malfermo. I capelli assottigliati e spenti, da cui di regola emana un tanfo di decrepitezza in fieri. La madre vecchia rischia ogni momento di cadere a terra, potrebbe fratturarsi un osso lungo. Questo sarebbe un guaio. Una gran rottura di scatole, un imprevisto malvagio, una sinistra novità casalinga. Per le convenzioni sociali la figlia sarà costretta ad occuparsi dell’inferma, con tutte le nefaste conseguenze che spettano a una figlia infermiera. Dovrà vedere il corpo della madre disfarsi, respirare il tanfo che aleggia nella stanza di un’ammalata che proibisca di aprire la finestra. Sentirsi in colpa per essere più giovane, più sana, per essere autosufficiente.

 

La figlia, prima di essere completamente esasperata dalle richieste improbabili della madre, recitare una poesia o procurare una marca di fette biscottate, le Zweiback, potrà uscire fuori, andare a mangiare anche un panino con la cotoletta  in un bar riservato a clienti che vanno lì una volta finite le ore di ufficio. La madre queste fortune gliele farà scontare, una ad una. La madre inferma le uscite della figlia se le lega al dito, conteggia ogni assenza, annota su un taccuino nero i minuti precisi che la figlia è stata per strada, a farsi i cavoli suoi, disprezzando la madre inferma e bisognosa di continua assistenza.

 

Una madre ammalata non perdona nulla alla propria figlia. Pretende attenzioni e cure durante le ventiquattro ore. Se potesse se la mangerebbe con tutti gli abiti, la figlia infermiera. Se la madre non ci lascia le penne e si rialza in piedi, la figlia pensa che in condizioni di convalescente la madre  potrebbe avvalersi di un bastone. La madre ribatte che non vuole certo un bastone, perché il suo unico bastone è la figlia. Certe figlie si sottomettono al ruolo ingrato di treppiedi o girelli semiambulanti della vecchia madre: non ne usciranno vive. Altre, le più sfacciate, se ne guardano bene. Fuggono lontano con uomini incontrati per caso, a cui saranno grate di fare le servette tuttofare, l’importante è non dover più ascoltare le lamentele e i ricatti sentimentali della madre. Che la madre faccia da sola, si arrangi come meglio può. Nel corso della vita di madre e figlia il protocollo della convivenza domestica non varia mai, se non in ridicoli dettagli: usare o meno tovaglioli di cotone ogni giorno, sempre meglio quelli di carta, ovvero fare il caffè con la macchinetta elettrica presa con i punti del supermercato piuttosto che con la moka Bialetti.

 

La madre conosce sempre un modo speciale di fare il caffè, che  la figlia  non potrà per statuto mai eguagliare. Una volta che la madre sarà defunta la figlia vivrà nel rimpianto e nella frustrazione di non aver imparato a fare il caffè. Nei sobborghi dell’entità madre-figlia, in cucina vicino al tavolo, sopratutto nel bagno davanti allo specchio c’è il padre, di cui non ci occuperemo. Padre è una parola importante, un parolone carico di sottintesi, è preferibile non pronunciarla mai, infatti si dice papà, che non è  certo un affettuoso sinonimo ma lo spacciano per tale, e che evoca Papa, altro termine collegato a losche profezie, flabelli e reliquie corporali horror. La madre da subito addita alla figlia una meta da raggiungere con tutte le forze. La figlia deve rincorrere un miraggio archetipico, che appare e scompare per tutto l’arco della vita, seducente e vacuo. La madre ci tiene con tutto il cuore a che la figlia raggiunga lo spauracchio che le ha additato appena nata. La figlia tenterà con ogni fibra del suo corpo di contentare la genitrice.

 

La madre fantastica molte amenità per il futuro della figlia, che in qualche modo protervo e mai vero crede essere il proprio, perché la figlia è sua, la figlia è la patria della madre, che non distingue la creatura umana dall’ologramma del sogno di una vita migliore che non dà requie. All’inizio la madre è grosso mammifero che ha partorito, la figlia piccola-piccola è sbucata infra le gambe della madre e si è fatta realtà concreta di carne rossiccia, incinacicata e urlante. La figlia piccola ha sempre fame. La madre la nutrirà, quel tanto che basta affinché la figlia piccola conosca la stazione eretta e così possa andare per il mondo alla ricerca dell’isola che non c’è a cui la madre vuole approdare. Insieme sono sempre più sole e vicendevoli sconosciute, si ricongiungeranno nella separazione.

 

L'ultimo libro di Rosa Matteucci è “Costellazione familiare”  (Adelphi)              

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