Padri

A che serve la letteratura con un figlio assetato che di notte si trasforma in Mister Hyde

Vins Gallico
Durante la notte ci sono due cose che mi salvano: l’amore e la letteratura. Quella che sembra la più retorica delle formule, che l’amore per un essere indifeso ti ricarichi di energia, ecco, è una formula vera. E poi c’è la letteratura che mi ha insegnato come sia possibile accavallare emozioni senza mediazione.
La rubrica "Padri" fa parte dell'inserto Il Figlio, lo speciale di Annalena Benini. In ogni numero un padre racconta di sé, con i figli: storie, sentimenti, pensieri, ossessioni, scoperte. Sono qui disponibili tutti gli articoli.

 


 

Da otto mesi non ho più un lavoro fisso. Cioè non ho più la condanna o l’alibi che costringe l’umanità a stare fuori casa dieci ore al giorno. A dire il vero, da quando sono stato licenziato, non l’ho più cercato, un lavoro fisso. Da novembre ricevo l’assegno di disoccupazione, mi arrangio con qualche collaborazione con giornali e radio e trascorro molto tempo con mio figlio. E’ stato a causa di questa situazione contingente, per cui dall’esterno sono stato anche commiserato e consolato, che invece non mi sono perso quasi niente di lui. Che m’importa della carriera quando l’ho visto gattonare all’indietro, poi in avanti, l’ho visto puntare i piedi e tendere le sue gambe paffute, aggrapparsi a un sostegno in posizione precaria e sorridere soddisfatto e sdentato giusto qualche secondo prima di franare a terra? Non sono stato finora uno di quei padri formato mattina e sera, e neanche uno di quelli che si vantano di portare la pagnotta a casa.

 

Con la mia compagna abbiamo una gestione del tempo genitoriale, cioè quasi tutto il nostro tempo per ora, abbastanza paritaria: ognuno prova a fare le cose che gli riescono meglio, lei sa leggere le favole molto bene, dispensa una carica di allegria quando gioca con lui, lo fa andare in giro con abiti dignitosi e cromaticamente abbinati e riesce ad addomesticarlo sotto la doccia, mentre io mi occupo della spesa, delle pappe, e macino chilometri spingendo il passeggino quando c’è da addormentarlo. Siamo un padre e una madre, ma solo in tre campi non potrei sostituirmi a lei: nell’allattamento, nella somministrazione delle supposte e nel taglio delle unghie. Da ormai quattro mesi nostro figlio non prende più il seno di giorno. Di notte invece lo reclama come un assetato nel deserto. Quando ancora veniva allattato senza distinzioni d’orario, e il suo peso e la sua fisicità rendevano più facile la mia presa, a volte intervenivo durante i risvegli notturni. Se Anna era troppo stanca, io portavo nostro figlio in salone e lo dondolavo. Lui si lasciava cullare e si appiccicava al mio petto come un koala. Affrontavamo la notte in poltrona, lui che dormiva ancorato a me, impossibile da staccare, e io che guardavo serie televisive.

 

In quest’ultima fase però non ne vuole sapere di essere cullato, accarezzato, dondolato. Lui la notte esige il seno di sua madre e basta. E’ un assetato nel deserto, e quel seno è acqua e sopravvivenza. Ultimamente Anna lavora molto, avrebbe bisogno di riposare e sa che va fatto quell’ultimo passo, che è arrivato il momento in cui nostro figlio non dipenderà più, neanche psicologicamente, dal suo corpo. Da un paio di settimane mi dice che deve fare una trasferta per lavoro e allora ci prepariamo mentalmente, ci incoraggiamo a vicenda, ci ripetiamo che possiamo farcela. Lei partirà, io resterò da solo con lui e affronteremo una notte di pianti e disperazione, di paura e di abbandono, ma che all’alba saremo tutti quanti, tutti e tre, persone più cresciute.
Però questa trasferta di lavoro tarda, e alcune notti facciamo delle prove generali, alle quali partecipa tutto il condominio.

 

La potenza delle urla di nostro figlio frantuma il silenzio del parco vicino, squarcia lo spazio arancione della via desolata. Io provo a trattenerlo, lui si divincola e si dispera, inarca la schiena. Certe volte, il suo autolesionismo è tale che il mio è solo uno sforzo di protezione e contenimento. Provo a evitare qualsiasi colpo possa infliggersi alla nuca o alle tempie. Vivo fisicamente il sogno e l’orrore di ogni padre, personifico l’impossibile pretesa del genitore che vuole sottrarre il proprio figlio dal patimento del dolore. Di giorno, ogni mattina, con la luce, è tutto diverso. Ma di notte lui affronta sempre quel tunnel della solitudine e si trasforma. Per questo l’ho chiamato Mister Hyde.

 

Durante la notte ci sono due cose che mi salvano: l’amore e la letteratura. Quella che sembra la più retorica delle formule, che l’amore per un essere indifeso ti ricarichi di energia, ecco, è una formula vera. Il corpo affaticato del genitore pone un nuovo valicabile limite, come Zenone che insegue la tartaruga. C’è sempre un frattale in più di fatica che l’amore ti fa percorrere, senza mai toccare la tartaruga, cioè il momento in cui non ce la fai davvero più. E poi c’è la letteratura che mi ha insegnato come sia possibile accavallare emozioni senza mediazione. In una recente intervista Richard Ford dice di aver provato sollievo per la morte del padre. Sollievo e dolore. E che la letteratura lo aiuta a capire come sia possibile che due emozioni talmente distanti possano sovrapporsi. La letteratura salva anche me: nel mezzo di quell’amore autorigenerante certe notti mi viene da scuotere mio figlio, picchiarlo, lasciarlo cadere purché la smetta. Ma la letteratura mi blocca lasciandomi intendere che è possibile provare due sentimenti così brutalmente distanti. E quindi l’unica cosa che faccio è stringerlo forte e accarezzarlo, il mio Mister Hyde, anche se non ha mai smesso di piangere. Dai, piccolino, resistiamo, la vedi quella luce all’orizzonte. L’alba è vicina.

 

L'ultimo romanzo di Vins Gallico è “Final Cut. L’amore non resiste” (Fandango)

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