Illustrazione di Anna Sutor

Il Figlio

La prima media è troppo per me, io voglio soltanto un cane

Annalena Benini
Ai bambini non importa nulla del peso degli zaini, salgono le scale a testa bassa, facendo attenzione a non cadere all’indietro e sono già concentrati sul momento in cui riaccenderanno il telefono e riprenderanno a condividere il mondo fra loro, a mandarsi facce e linguacce e cagnolini e foto di compiti svolti e messaggi audio con le pernacchie.

Mia figlia ha aspettato tre settimane, poi ha raccolto il coraggio e ha scritto: “Ciaoo” sul profilo Whatsapp del compagno di prima media che ha quasi dodici anni perché è nato il due gennaio e durante l’intervallo canta “Generale” di Francesco De Gregori (“Ma secondo te vive da solo?”, mi ha chiesto: se canta canzoni da grande avrà già una vita da grande, forse ha anche dei figli). Mamma, sotto il suo numero c’è scritto online, che cosa vuol dire? Spegni, non far vedere che aspetti online, dopo ti spiego, le ho urlato dal bagno. Lei ha spento, però ha aspettato due giorni e Generale, come lo chiamano in classe, non ha mai risposto. La saluta la mattina, la saluta il pomeriggio, le ha anche offerto un pezzo di panino al prosciutto a merenda, ma su Whatsapp non risponde.

 

E su Whatsapp, adesso che la prima media ha portato con sé il diritto sociale al telefono (“se non ce l’avrò nessuno vorrà essere mio amico, lo capisci?”), si realizza questo primo accenno di vita diversa, complicata, online, quasi adulta: i fratelli minori guardano le sorelle costernati, atterriti, perché all’improvviso queste sorelle, invece di giocare a saltare sul divano con le scarpe, o a lanciare gavettoni dalla finestra, registrano note audio da inviare al gruppo delle amiche delle medie, stanno molto tempo in bagno a controllare la treccia laterale, a chiedersi se sia meglio a destra o a sinistra. Sono tutti fieri, adesso, di portare il telefono a scuola, spento, lasciarlo in una scatola da scarpe accanto alla cattedra e ritirarlo, uno alla volta, quando è ora di tornare a casa. Non serve a niente, ma serve a dire: ho un numero di telefono, una vita, sono molto impegnato a rispondere agli altri ma possiamo essere amici. Perché tutte le energie, adesso, vengono assorbite dai riti dell’amicizia.

 

Si scambiano su Whatsapp le foto dei cani e dei gatti, si sforzano di imparare a memoria i cognomi, si classificano anche in base all’apparecchio per i denti e al colore del secondo zaino. Uno zaino solo, infatti, non basta: un solo pesantissimo zaino, quattro libri per ogni materia compreso il libro “di metodo” non può contenere tutto quello che serve e ieri Silvia ha strappato le cinghie dello zaino nuovo nel tentativo di farci entrare anche il raccoglitore di Musica e la squadra di Tecnica, così tutti hanno una seconda borsa, o un carrellino per la spesa, o un trolley, nei casi estremi una valigia rigida da aereo perché servono anche scarpe e abiti di ricambio per educazione fisica, e ogni mattina l’effetto è quello di una partenza per l’aeroporto: i genitori che accompagnano i figli con l’automobile caricano il baule di zaini identici a grandi bagagli e i vicini di casa in ascensore o alle finestre salutano con la mano e augurano stupiti buon viaggio, i baristi offrono caramelle di addio e solo dopo qualche giorno si accorgono che non è un trasloco ma una normale mattina di scuola.

 

Ai bambini non importa nulla del peso degli zaini, salgono le scale a testa bassa, facendo attenzione a non cadere all’indietro e sono già concentrati sul momento in cui riaccenderanno il telefono e riprenderanno a condividere il mondo fra loro, a mandarsi facce e linguacce e cagnolini e foto di compiti svolti e messaggi audio con le pernacchie. Ma adesso che non c’è ancora una vera confidenza, un’intimità che riempia i pensieri da raccontarsi, le classifiche degli amici e dei non amici e i pomeriggi di compiti a casa sono dominati da un fenomeno incomprensibile ma potente: le catene. Tutti si scambiano catene. Tutti hanno una catena da mandare. Si fanno gare di catene. Guerre di catene. Chi manda la catena più pazza vince la considerazione, lo stupore degli altri. Ma che cosa sono le catene?, chiede la madre arrivata da Marte davanti a scuola, fiera di non avere ancora dato il telefono alla figlia, che negli occhi infatti ha già una dichiarazione di guerra.

 

Le catene sono quei messaggi lunghissimi e assurdi e collettivi in cui si chiede di condividere il messaggio assurdo lunghissimo e collettivo con almeno venti persone, o tre gruppi, in cambio di molta fortuna, “ma se non lo farai ti succederà qualcosa di brutto”. Se non mandi questo messaggio ad almeno dieci amici resterai senza amici. Se lo manderai entro un’ora sarai felice, è garantito, a me è successo, è tutto vero, non aspettare, corri. Tutto il pomeriggio a mandarsi catene o a chiedere di smettere di mandare catene. Gli adulti tentano di spiegare che non ha senso, è la cosa più stupida del mondo, i bambini di nascosto mandano la catena al fidanzato della zia, alla cugina di Milano, alla figlia della baby sitter, e aspettano sospettosi qualcosa di bello, cioè tantissimi amici che all’intervallo a scuola vogliano dividere la merenda e chiedano il numero di telefono.

 

L’altra sera mia figlia ha letto a voce alta una catena spaventosa, “se smetti di leggere morirai, se non mandi questo messaggio a venti dei tuoi amici morirai esattamente stasera a mezzanotte, io mi chiamo Samara, ho undici anni e sono morta”, e il fratello piccolo prima ha riso, poi è diventato serio e poi si è messo a piangere: io non ho neanche il telefono, quindi morirò stanotte, l’ha detto Samara. Lei allora si è alzata dal letto, è andata dal fratello e gli ha detto: no, sta’ tranquillo, nessuno crede alle catene, ma non fare il furbo, sei troppo piccolo per avere un telefono. Poi ha registrato un messaggio audio molto serio in cui annunciava che usciva dal gruppo “The best”: perché queste catene sono troppo stupide.

 

Pochi secondi e le si è illuminato di nuovo il telefono, un messaggio da un numero sconosciuto: brava, le catene sono da idioti. Grazie, ma chi sei? Sono Generale, come va? A mia figlia si sono accese le guance, è corsa a mostrarmi il telefono. Amore, avevi scritto il numero sbagliato, ecco perché Generale non aveva risposto. Il numero sbagliato, le catene, restare ad aspettare online, i compiti nuovi, lo zaino pesante: mamma, queste medie sono troppo per me, io voglio soltanto un cane. Si è addormentata in un istante, senza nemmeno rispondere a Generale.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.