(immagine di Wisconsin Department of Natural Resources via Flickr)

Il Figlio

Qualcosa è cambiato

Melissa Panarello
"Un figlio non lo voglio. Ti ricordi quando dieci anni fa venni da te dicendoti che volevo tantissimo un figlio? Non lo voglio più”. Ma mentivo. Era stata così inattesa la confessione pronunciata, che avevo provveduto ad alzare delle difese. Il fatto è che io non lo so se un figlio lo voglio o no.

Qualche tempo fa sono tornata dall’analista che mi ha seguito per un decennio e con cui sono rimasta in contatto dopo che il nostro percorso si è concluso, perché non puoi di colpo non avere più notizie da una persona che hai visto per dieci anni tutte le settimane. Ogni tanto lui mi chiede come sto, io gli rispondo bene e ciò rende felici entrambi. Ma circa un anno fa ho cominciato ad avere strane fobie, a lavarmi troppo spesso le mani, a sospettare oscure malattie laddove sentivo un leggero pizzicore alla tempia destra e a evitare di fare qualsiasi cosa potesse mettere a repentaglio la mia vita e la mia salute. E’ successo improvvisamente: sono diventata una persona paurosa. Quindi: sono diventata una persona adulta. Chiamai perciò il mio ex analista raccontandogli quello che mi stava succedendo e lui mi disse di andarlo a trovare.

 

Mi chiese cosa mi preoccupava in quel periodo. Risposi che mi preoccupavano le stesse cose che mi avevano sempre preoccupato, quindi non era preoccupante. Mi chiese di pensarci ancora un po’. Ma io più ci pensavo e più mi venivano in mente le solite cose: frustrazione a lavoro, soldi sempre troppo pochi,  faccende ordinarie che tutti si trovano ad affrontare. Scossi la testa: “Mi spiace, non mi viene in mente niente”. Lui mi sorrise. Riconoscevo quel sorriso di chi sapeva che la risposta l’avevo già, dovevo solo trovare il coraggio di confessarla a me stessa. E quando vidi quel sorriso, che per tanti anni è stata la mia disfatta e che segnava il momento in cui tutte le mie certezze crollavano, decisi di dire la prima cosa che mi veniva in mente. E fu questa: “Un figlio!”. Diventò serio: il sorriso aveva funzionato. Avevo rivelato qualcosa di inaspettato: non poteva che essere la risposta esatta.

 

“Nel senso”, spiegai “che un figlio non lo voglio. Ti ricordi quando dieci anni fa venni da te dicendoti che volevo tantissimo un figlio? Non lo voglio più”. Ma mentivo. Era stata così inattesa la confessione pronunciata, che avevo provveduto ad alzare delle difese. Il fatto è che io non lo so se un figlio lo voglio o no. Dieci anni fa lo volevo perché mi sembrava una bella avventura, io ero più coraggiosa e non mi curavo molto delle conseguenze delle mie azioni. L’avessi fatto a venti anni, mio figlio oggi ne avrebbe dieci. L’avessi fatto quando non avevo nessuna paura di gravidanza, parto, maternità, io tutte quelle cose le avrei già sperimentate. Se non avessi prestato attenzione a chi mi diceva che ero troppo giovane e che dovevo vivere i miei anni con molta spensieratezza e poca responsabilità, l’avrei fatto, cosciente di essere stata sempre poco spensierata e molto responsabile e che dieci anni fa, come adesso, amavo passare le serate a casa, compresi i weekend, a bere tisane mentre risolvo cruciverba e sudoku. Avrei forse avuto meno occasioni, con un figlio, di quante ne ho effettivamente avute senza?

 

E quindi dieci anni fa io un figlio lo volevo ma non l’ho avuto perché ero la sola a vedermi come madre e così ho passato i successivi dieci anni a non pensare ai figli, alle gravidanze, a vivere le storie d’amore per quel che erano senza il bisogno di assicurare loro una crescita e un futuro. Non ci ho più pensato fino al pomeriggio in cui sono tornata dal mio analista e senza rendermene conto ho dato a un figlio (o meglio, alla mancanza di) la responsabilità delle mie recenti ansie. Un antico desiderio si era improvvisamente trasformato in urgenza e, da quel che ne so, nessuna necessità ha in sé il seme del desiderio. O forse sì. Bisogna scavare fino allo strato più duro della terra per capirlo. Ed è quello che voglio fare.

 

L’idea di un figlio in me è mutata non solo nella sostanza, ma anche nella frequenza con cui mi viene a trovare: ci penso tutti i giorni. E’ il primo pensiero della mattina e l’ultimo della sera, come un innamorato che non si può evitare di pensare. Fino a non molto tempo fa tutto questo fervore apparteneva alla scrittura e sebbene non abbia mai ritenuto vero, né tantomeno giusto, che un romanzo potesse essere considerato come un figlio (detesto l’affermazione: “Il mio libro è la mia creatura”: anche se è possibile che un romanzo possa tenerti sveglio di notte è davvero impossibile che ti vomiti sulla camicia e che abbia la diarrea), mi approcciavo alla scrittura con l’ossessione tipica di chi è innamorato, impedendomi divagazioni o pensieri altri che non fossero quelli che stavo trattando.

 

Questa stessa ossessione si è adesso spostata, senza alcun intervento da parte mia, ma come un bisogno forte dell’inconscio, alla maternità. E la domanda è: come se ne esce? Per liberarmi di questo chiodo fisso sull’avere o non avere un figlio, che devo fare? Ovviamente la cosa più naturale sarebbe fare un figlio e non pensarci più. E come la mettiamo con tutte le paure, con le angosce, come la mettiamo se poi scopro che io quel figlio fatto buttandomi nell’ignoto con il naso tappato, non lo volevo?

 

(1. Continua)

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