Il Figlio

Super madri tigre

Giulia Pompili
"Studiare in Corea è costoso, molto costoso. Noi abbiamo iniziato a risparmiare per l’educazione di mio figlio mesi fa, prima che nascesse, e se dovesse perdere anche solo un minuto della sua vita – e quindi dei miei soldi – non reagiremmo bene”. Dalle otto alle ventitré: le pazze giornate degli studenti coreani, per non deludere le mamme.

"Chiariamo subito una cosa”, dice Ji-Eun, “Studiare in Corea è costoso, molto costoso. Noi abbiamo iniziato a risparmiare per l’educazione di mio figlio mesi fa, prima che nascesse, e se dovesse perdere anche solo un minuto della sua vita – e quindi dei miei soldi – non reagiremmo bene”. Ji-Eun Lee ha ventotto anni, un impiego pubblico, un marito sposato da poco più di un anno in una doppia cerimonia (“una tradizionale, con i tipici vestiti coreani, l’altra più occidentale”, spiega al Foglio). Il piccolo Jun-seo ha soltanto quattro mesi, ma ha un futuro stabilito davanti: le scuole migliori, un college prestigioso per assicurarsi un buon posto di lavoro: “Alla Samsung, oppure alla Hyundai, al limite alla Lotte”.

 

Nient’altro è ammesso per il futuro di Jun-seo, lascia intendere la madre. E il sogno è un impiego in un chaebol, i conglomerati sudcoreani che funzionano come una specie di assicurazione sulla vita di una famiglia perché forniscono ai dipendenti casa, asili nido, fondi pensionistici integrativi, accesso a prestiti agevolati. Entrare in un chaebol è difficilissimo, e Ji-Eun lo sa; serve investire tutto – una vita intera – sul tempo (anche quello dei genitori, perfino dei nonni) e sull’educazione. E poi c’è il suneung, l’esame di ammissione al college che si svolge ogni anno a novembre. Il giorno che determina la vita dell’83 per cento dei giovani coreani (l’anno scorso erano in 700 mila), il giorno in cui in Corea non fanno volare neppure gli aerei, per non disturbare gli studenti, e centinaia di migliaia di genitori e nonni si riuniscono nei templi per pregare per dodici ore di seguito.

 

La Corea del sud negli anni Sessanta era un paese povero, distrutto dalla guerra con il nord. Il miracolo economico sudcoreano degli ultimi cinquant’anni, che ha fatto diventare il paese la 13esima potenza economica del mondo, va di pari passo con la trasformazione della società coreana in una sorta di programma a tappe forzate di eccellenza scolastica. Il 93 per cento dei coreani non solo arriva al diploma della scuola superiore, ma lo finisce in tempo (per fare un paragone, in Italia uno studente su tre abbandona la scuola durante il liceo). La Corea del sud è oggi ai primi posti del PISA – il programma Ocse per valutare gli studenti del mondo – dietro solo a Shanghai, Singapore, Hong Kong. Ma raggiungere certi risultati ha un costo. Una giovane studentessa della Columbia University, Kelley Katzenmeyer, ha studiato in Corea del sud e ha iniziato a lavorare a un documentario – di prossima pubblicazione – sulla vita nei licei coreani.

 

Ma già i venti minuti di anteprima sono sufficienti per capire a quanta pressione siano sottoposti gli studenti coreani. Di regola, un ragazzo inizia le lezioni alle 8 e le finisce tra le cinque e le sei del pomeriggio. Ma per tutti la giornata di studio continua fino alle dieci, le undici di sera. A volte è la stessa scuola a mettere a disposizione le aule e i docenti per le lezioni serali. In altri casi, i genitori si rivolgono agli hagwon, istituti di ripetizioni private che in alcune città sono stati addirittura chiusi per legge. Oppure ci si affida a un docente a domicilio: secondo la tradizione confuciana, che influenza tutta la cultura sudcoreana, l’insegnante ha sempre ragione, oltre ogni ragionevole dubbio, quindi un voto più basso del solito non è contestabile, ma imputabile solo al personale fallimento dello studente. Il sistema tradizionale d’insegnamento è poi basato sulla memorizzazione, per questo servono tutte quelle ore di studio, e per questo le madri coreane sono sempre alla ricerca di metodi per migliorare le performance dei figli.

 

Qualche tempo fa l’Associazione dei medici ha dovuto lanciare una campagna contro la pratica della somministrazione ai figli il ginseng coreano (un energizzante naturale) per via endovenosa. Una moda che era esplosa improvvisamente nell’errata convinzione che aiutasse il cervello a memorizzare – e Ji-Eun conferma: “Per merenda, dopo la scuola, noi figli non bevevamo niente all’infuori del ginseng. Fa bene al cervello, è il mio preferito”. E siccome è più facile memorizzare da piccoli, l’allenamento allo studio folle e disperato inizia anche prima dei dieci anni. La pressione psicologica esercitata dalle madri sui figli è enorme. Non è una sorpresa, dunque, che la Corea del sud abbia il più alto tasso di suicidi al mondo tra gli studenti. Secondo l’Istituto di statistica di Seul, nel 2014 il suicidio è stato la prima causa di morte tra coreani tra i 10 e i 39 anni.

 

La prima a parlare del problema delle mamme asiatiche con le performance dei figli fu nel 2011 Amy Chua. In “Battle Hymn of the Tiger Mother” utilizzò per la prima volta l’espressione mamme tigre, che ormai definisce l’educazione tradizionale delle madri cinesi – molto simili a quelle coreane. Un’autorevolezza che manca ai genitori occidentali, ha detto all’inizio di quest’anno pure David Cameron, criticando l’atteggiamento accondiscendente e premiante dei genitori inglesi. Poi nel 2013 Eddie Huang ha pubblicato “Fresh Off the Boat: A Memoir”, la storia autobiografica di una famiglia di Taiwan che si trasferisce a Orlando, e della fatica dei figli ad adattarsi allo stile di vita americano tenendo fede alle volontà della mamma: lavora sodo, non fallire. (Eddie Huang studiò Legge, divenne avvocato per lo studio Chadbourne & Parke, poi alla fine mollò tutto per diventare uno degli chef più celebri del mondo). Non c’è molta differenza tra le mamme tigre cinesi e quelle coreane. Forse solo per un dettaglio, che fa notare al Foglio Ji-Eun: “In Cina è permesso sbagliare. Da noi no”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.