Una giovane camicia nera

Padri

Papà adorato, ti assicuro, sono cresciuto

Mio padre rimase in silenzio per poi dirmi: “Sei un fanatico. Quel cameriere che stai ossequiando negli anni Trenta era un manganellatore e io l’ho fatto espellere dal Partito nazionale fascista”. A Catania papà era stato difatti un personaggio del vertice fascista locale, il secondo o il terzo in ordine di importanza dopo il Podestà.
La rubrica "Padri" fa parte dell'inserto Il Figlio, lo speciale di Annalena Benini. In ogni numero un padre racconta di sé, con i figli: storie, sentimenti, pensieri, ossessioni, scoperte. Sono qui disponibili tutti gli articoli.

 


 

Cara Annalena, non fossi stata tu a chiedermelo forse non avrei scritto di mio padre. Perché temo di non potere dire quanto lo amassi e quanto lui sia stato decisivo nella costruzione del mio immaginario ideale e stilistico meglio di come lo abbia fatto in un articolo di circa quarant’anni fa, e che aveva per titolo “Mio padre indossava la camicia nera”. Un articolo pubblicato quarant’anni fa, a breve distanza dalla notte del 2 febbraio 1973, la notte della morte di mio padre. L’articolo apparve sul mensile della Federazione giovanile socialista. Lo dirigeva un poco più che ventenne giovanotto di bellissime speranze, Enrico Mentana. Non è che fosse talmente agevole apporre quel titolo a un “pezzo” pubblicato su un giornale della sinistra.

 

Quarant’anni prima della pubblicazione del sacrosanto libro del mio amico Pigi Battista in onore di suo padre fascista, non era agevole dire nel modo più smaccato possibile la rettitudine di un uomo che era stato nei suoi vent’anni un giovane fascista toscano. Non era agevole dire quanto io me ne infischiassi di quel che era stato mio padre nei suoi vent’anni, e quanto lui non avesse mai opposto una sola parola al mio estremismo di imbecillotto della sinistra-anni Sessanta, e neppure contro i miei capelli lunghi e neppure contro la gonna cortissima della mia fiancée di allora, e quanto invece di lui mi piacessero le poche parole che pronunciava le due o tre volte al mese che ci vedevamo (i miei genitori erano separati, vivevo con mia madre).

 

Quanto mi piacessero i suoi gesti, il modo in cui si sedeva al tavolo da lavoro su cui aveva costruito il suo reddito e la sua identità: quel reddito che mi ha permesso di studiare a lungo all’Università, di passare giornate e giornate sui libri. Ci ho messo dieci anni a laurearmi, e mentre gli altri due figli di papà e miei adorati fratellastri (sono adesso morti entrambi) si erano laureati a tempo e benissimo. E papà scriveva su un registro a uno a uno le spese e i conti che mi riguardavano, e siccome gli ero costato di più dei due miei fratelli, delle tre case che aveva comprato per noi a me toccò la più piccola. Giustamente. Un atto di giustizia, a insegnarmi la responsabilità, e io stesso oggi scrivo uno a uno i miei incassi, che se fossi meno preciso non potrei pagare a tempo i librai antiquari che mi succhiano il sangue con mio grande piacere.

 

Papà, mia madre e io eravamo a Firenze quell’estate del 1944 in cui gli Alleati ruppero le difese naziste e entrarono nella capitale toscana. Per qualche giorno mio padre fascista si rifugiò altrove, perché poteva accadergli di tutto. Ridiscendemmo sino a Catania su un camion americano. Papà si dimise dall’azienda di proprietà della Fiat di cui era stato funzionario. La sua “parte” politica aveva perduto, ne trasse le conseguenze. Ricominciò da zero, in uno scantinato in cui teneva i conti di uno che era stato un suo dipendente in quell’azienda. Con mia madre si erano separati subito. Per anni non l’ho più visto. Una volta lo incontrammo per strada, e io non sapevo che fare; mia madre mi sospinse ad andargli incontro. Dallo zero da cui era partito “il ragioniere Gino Mughini” (non aveva fatto gli studi superiori) divenne uno dei commercialisti più reputati di Catania. Io lo vedevo di tanto in tanto, mi dava una “paghetta” che ben presto presi a spendere tutta nell’acquisto di libri. Sul fatto che io sproloquiassi sulla necessità di “un antifascismo” il più rigoroso possibile, non opponeva un solo veto.

 

Una volta che andammo in un ristorante dove tutti i camerieri lo ossequiavano, e io sapevo che quella che era una “cooperativa” di camerieri che si erano ribellati al proprietario, e io andavo in brodo di giuggiole nel conversare con uno di quei camerieri, mio padre rimase in silenzio per poi dirmi: “Sei un fanatico. Quel cameriere che stai ossequiando negli anni Trenta era un manganellatore e io l’ho fatto espellere dal Partito nazionale fascista”. A Catania papà era stato difatti un personaggio del vertice fascista locale, il secondo o il terzo in ordine di importanza dopo il Podestà. Quella sua frase, che presi come un ceffone da quanto mi aveva colto in flagrante imbecillità, ancora oggi mi brucia. Papà adorato ti assicuro, sono cresciuto.

 

C’è un’altra frase di mio padre che ricordo come se l’avesse pronunciata ieri. Ancora una volta in un ristorante, a Roma, e gli restavano poche settimane di vita. L’ultima volta che l’ho visto prima che nel letto della sua agonia: “Io sono stato una brava persona, ma se avessi dovuto dare da mangiare ai miei figli non so se lo sarei stato altrettanto”. Ancora una volta una lezione, e peccato che tanti rétori dell’ “onestà” usata come un randello contro i loro avversari politici, quella lezione non l’abbiano mai appresa.

 

Il libro di Giampiero Mughini, “La stanza dei libri”, è appena uscito per Bompiani   

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