Lo stato in chiesa

Forze dell’ordine troppo zelanti interrompono le messe con pochi e distanziati fedeli. La Cei che dice?

Piero Vietti

Roma. Tredici persone, con guanti e mascherine, ben distanziate tra loro, in una chiesa di circa 300 metri quadrati. Parrocchia di Gallignano, in provincia di Cremona: don Lino Viola sta dicendo messa quando i carabinieri interrompono la celebrazione chiedendo al prete di fermarsi. “Ora non posso, stiamo pregando. Questo è abuso di potere”, risponde il sacerdote, proseguendo. Dopo un po’ un carabiniere torna alla carica, ha in mano un cellulare: il sindaco del paese vuole parlare con don Lino, dice che può dire messa al massimo con qualche chierichetto, i fedeli presenti devono andarsene, sono un assembramento. Don Lino non si scompone, lo manda via e dice “se ci sarà da pagare una multa la pagherò”, mentre i rappresentanti delle forze dell’ordine chiedono i documenti ai presenti. Non siamo nella Cina comunista, ma la scena ricorda certi racconti di regimi dittatoriali.

 

Pochi giorni prima era successo lo stesso a Scafati, in provincia di Salerno, quando la veglia pasquale era stata interrotta su segnalazione di alcuni cittadini: poco importava che in chiesa le distanze previste fossero rispettate. Scene analoghe a Maser, in provincia di Treviso, con una messa feriale delle 8 del mattino stoppata dalle forze dell’ordine, e a Sant’Arpino, in Campania, con una decina di fedeli denunciati per avere preso parte alla funzione delle Palme, prima di Pasqua. Vigili in azione anche a Marina di Cerveteri, nel Lazio: il parroco stava celebrando messa con le porte della chiesa aperte, e alcuni fedeli si erano fermati sul sagrato. Il tutto in diretta su Facebook.

 

E’ normale tutto questo, o l’eccesso di zelo delle forze dell’ordine sta trasformando le norme di contenimento della pandemia in un’ossessione di controllo da parte delle autorità anche quando il pericolo di contagio appare lontano? Occorre innanzitutto fare chiarezza: le chiese sono aperte al pubblico, e nessuna legge vieta la celebrazione di una messa alla presenza di alcuni accoliti. Come la mettiamo? “C’è stata una progressione normativa in merito – spiega al Foglio Alfredo Mantovano, magistrato, ex sottosegretario all’Interno e vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino – All’inizio dell’emergenza l’accesso ai luoghi di culto era precluso. Una circolare del ministero dell’Interno poi ha spiegato che, se di strada una volta usciti di casa per altre necessità, si può entrare e sostare in una chiesa. C’è poi stato un terzo passaggio normativo: con il Dpcm del 10 aprile si dice che si può entrare in un luogo di culto, pur nel rispetto delle regole e del distanziamento, ma che restano sospese le cerimonie civili e religiose”. Stando alla lettera, si potrebbe disquisire sul significato del termine “cerimonie”, diverso da “funzioni”, tanto che “il testo specifica ‘ivi comprese quelle funebri’, ammettendo implicitamente che si fa riferimento a qualcosa di meno generico della messa – osserva Mantovano – Per capirci: se in dieci entriamo in una chiesa mentre il prete sull’altare celebra, e manteniamo le distanze previste dalla legge, perché lo stato dovrebbe intervenire? Se noi esaminiamo gli episodi segnalati e i filmati, il minimo che si può dire è che c’è un eccesso di zelo da parte delle forze dell’ordine. Che io assolvo, perché eseguono degli ordini”. Eppure chi viene sorpreso a messa viene multato. “Così non siamo nell’applicazione elastica della norma, ma nell’arbitrio. Bisognerebbe darsi una regolata. Diritti tutelati dalla Costituzione come la libertà di professare la propria fede religiosa in qualsiasi forma e l’indipendenza e sovranità di stato e chiesa, ciascuno nel proprio ordine, sono già normativamente compressi a causa dell’emergenza, e con norme contraddittorie: se ci si aggiunge l’arbitrio la situazione diventa pesante”. 

  

Le forze dell’ordine non si pongono il problema di ciò che dice il Concordato, recepiscono un clima: “La scarsa elasticità applicativa è un problema diffuso, ma non c’è un occhio di riguardo per la chiesa – prosegue Mantovano – L’emergenza enfatizza problemi esistenti: per il governo la libertà religiosa non pare essere una priorità, per qualche questore e prefetto è un fastidio”. “Non ci possiamo fermare all’aspetto formale – dice al Foglio il sociologo delle religioni e direttore del Cesnur Massimo Introvigne – e dobbiamo invece rilevare come le irruzioni che prendono di mira le cerimonie religiose siano almeno in molti casi più dure, più rigorose nell’interpretare le norme e soprattutto più applaudite da una parte dei media rispetto ad altre riunioni come una grigliata di famiglia o un gruppo di atleti che si allena. La colpa non è forse dei singoli poliziotti o carabinieri ma del clima creato da una parte dei media che si compiacciono – spesso raccontando in modo inesatto anche vicende straniere come quella del movimento coreano Shincheonji – di attaccare la religione come più problematica rispetto ad altre attività. Il caso più clamoroso è l’attacco anche da parte del governatore De Luca a un ritiro in Campania di neocatecumenali dello scorso 28 febbraio. A quel ritiro il virus circolava e purtroppo uno dei sacerdoti organizzatori è morto. Ma De Luca si dimentica (e così i media) che il giorno successivo al San Paolo venticinquemila persone assistevano a Napoli-Torino, e non risulta che regione, comune e stampa abbiano messo nel mirino la partita, certo occasione di contagio più ampia”. Poiché appare improbabile che nella fase 2 sarà consentito a tutti di frequentare chiese e messe, e la diocesi di Cremona ha già pubblicamente preso le distanze da don Lino, “sarebbe auspicabile un chiarimento ai piani più alti – conclude Mantovano – Anche perché il nuovo Concordato del 1984 stabilisce che, nell’ambito della collaborazione tra chiesa e stato, se ci sono questioni dibattute si debbano risolvere con intese tra la Conferenza episcopale italiana e le autorità. Forse è il caso che un’intesa, un protocollo sui limiti invalicabili in casi come quelli finiti nelle cronache si faccia. La realtà lo rende necessario”. La Cei batta un colpo.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.