Così nel tempo del coronavirus la chiesa scopre il “PreTuber”

Don Alberto Ravagnani, prete di 26 anni di Busto Arsizio, è diventato una star di YouTube con le sue video-catechesi: “Se lì ci sono i ragazzi allora lì deve arrivare il Vangelo”

Nicola Baroni

Messe in streaming e catechismi in videochat durante la quarantena. Ci hanno provato molti sacerdoti, e fintantoché non attivavano per errore il filtro con le orecchie da coniglio è andata anche bene. Don Alberto Ravagnani, prete di Busto Arsizio, ha aperto il suo canale YouTube “W la fede” con gli stessi obiettivi dei suoi colleghi: continuare la pastorale e restare vicino ai ragazzi dell’oratorio. Ma don Alberto ha 26 anni: nessuno ha dovuto insegnargli il digitale perché ci è cresciuto dentro, e sa che per farsi ascoltare non basta registrare e caricare tutto online. Insomma, conosce bene il mezzo. E così, senza volerlo, il suo video “A cosa serve pregare?” in due settimane ha superato le 460mila visualizzazioni. Se ne è accorta anche la Cei, che gli ha chiesto di realizzare un contenuto al giorno per il Triduo pasquale. In altri termini, è diventato uno YouTuber (anzi, il primo PreTuber), e ha dimostrato alla Chiesa che internet non è solo un mezzo, ma un luogo da abitare, e che è possibile evangelizzare anche questo “continente digitale”, come lo definì Benedetto XVI, senza timore di incorrere nelle trappole dei nativi.

 

 

“Il virtuale è reale, non finzione”, spiega don Alberto, “e se lì ci sono i ragazzi allora lì deve arrivare il Vangelo. Spesso a bloccarci è la paura di esporci e confrontarci col mondo, ma quante volte Gesù è andato in luoghi giudicati ‘sconvenienti’. Anche San Paolo all’Areopago di Atene è stato contestato e frainteso e sapeva di correre questo rischio. Nella prima lettera ai Corinzi scrive ‘mi sono fatto debole con i deboli per guadagnare i deboli, mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno’. Non dico di essermi fatto YouTuber per salvare chi è su YouTube, ma credo che le persone che lì mettono in gioco il loro ascolto e la loro ricerca debbano poter trovare una risposta e una presenza”.

 

Uno dei suoi riferimenti costanti è don Bosco: “Vide un problema del suo tempo – i ragazzini per strada nella Torino di metà Ottocento – e inventò gli oratori, la soluzione giusta in quel momento. La santità non è una virtù astratta: è incarnata nello spazio e nel tempo e tutti siamo chiamati a esserlo qui e ora, nel modo in cui il mondo ci provoca e il Vangelo ci suggerisce”. Forse oggi don Bosco sarebbe su YouTube. Il Papa del resto è su Twitter dal 2012 e, come mostra il recente documentario Churchbook, in Vaticano la sfida del digitale è stata accolta con convinzione. Le parrocchie però sono rimaste indietro. “Sul web siamo presenti come diocesi, oratori, ma forse dovremmo usare gli stessi metodi di evangelizzazione che usiamo normalmente offline, mettendoci in gioco personalmente. Il Vangelo passa sempre da persona a persona, dalla testimonianza: è il motivo per cui è importante sia io a parlare nei video, con la mia personalità, le mie esperienze, e non una voce fuori campo”.

 

“Purtroppo”, continua don Alberto, “noi per primi – preti, educatori – spesso ci convinciamo che la proposta di Gesù sia distante dai ragazzi, che il messaggio della Chiesa sia palloso, quindi lo diluiamo, quasi facendolo sparire, ripetendo a macchinetta quello che dicono tutti. Ma oggi a livello comunicativo ci sono tanti interlocutori che parlano molto. Se non lo facciamo in modo altrettanto forte, chiaro ed efficace rischiamo che i ragazzi non ci ascoltino: non perché non vogliono ma perché non stiamo parlando a loro o gli stiamo dicendo quello che dicono tutti”.

Il maggior pericolo che corre la Chiesa oggi? “Se ci dimentichiamo di essere la presenza viva nel mondo del corpo di Cristo, cedendo alla secolarizzazione, siamo finiti, diventiamo una pro loco”. Paradossale che a mettere in guardia dal secolo sia uno YouTuber. “Secolarizzarsi non è corrompersi nel linguaggio ma nei contenuti, non mettere al centro il Vangelo”.