Una scena di Friends

S'avanza il partito del rigetto

Andrea Minuz
" target="_blank" rel="noopener"> Facebook che mette fuorigioco i No vax mentre tracollano i consensi del M5s. Primi bagliori di rigetto? Primi effetti di saturazione populista? Non si sa ancora. Però, si capisce, dopo una lunga gestazione e infanzia e adolescenza trascorse scandendo slogan e mandando affanculo “la casta”, spunta fuori, come sempre prima o poi, quell’ostinato banco di prova chiamato “realtà”.

  

 

   

Più si prendono la tv, più la tv li spolpa facendoli diventare “di lungo corso” nel giro di pochi mesi. Il banco di prova chiamato “realtà”

È ancora presto per dire se gli eroi populisti non piacciono più, ma intanto la tv sta cercando di dirci qualcosa, e la tv capta, annusa, intercetta, la tv c’entra sempre. “Se il Movimento 5 stelle avesse scelto la televisione per affermarsi, oggi sarebbe allo zero qualcosa per cento”, scriveva com’è noto Grillo nel 2012. “Partecipare ai talk-show fa perdere voti e credibilità non solo ai presenti, ma all’intero Movimento; nei talk-show il dibattito avviene con conduttori di lungo corso e con le mummie solidificate dei partiti. C’è l’omologazione con il passato”. Per fortuna non gli hanno dato retta. Più si prendono la tv, più la tv li spolpa facendoli diventare “di lungo corso” nel giro di pochi mesi. Certo, sulla “credibilità” hanno fatto tutto da soli. Nessun autore di talk-show al mondo saprebbe tirare fuori dal cilindro storie come le chat di Giulia Sarti, Di Maio e il Codacons contro Sanremo, i pini di Roma che crollano per colpa del fascismo o servizi su Conte che fa lo smargiasso a biliardo nel remake della sfida Fantozzi-Catellani con Theresa May a Sharm el Sheik.

   

Se la politica in Italia è l’arte di occupare lo stato e la televisione (e non è mai stato così vero come con “questi qua”, direbbe Ceccarelli, gente che avendo lavorato poco e niente non gli è parso vero di prendersi tutto e subito), c’è un filo rosso o gialloverde che tiene insieme la parabola dell’ultimo Freccero e il tracollo del Movimento 5 stelle, Salvini e Montalbano, il televoto di Sanremo e le consultazioni su Rousseau, ma anche Mara Venier che batte Barbara D’Urso, come in una furiosa rivincita della Seconda Repubblica sul sovranismo pop delle “Domeniche Live”. Ma andiamo con ordine.

   

Si capiva già tutto dall’enfasi di Freccero per “Ultimo tango a Parigi” in prima serata: “Saremo pochi, ma saremo i migliori”

Dopo aver aderito con entusiasmo alle culture del “cambiamento” e alla lotta contro le élite, Freccero, per ragioni tutto sommato oscure o per quell’inestricabile intreccio di narcisismo, volontà di potenza e nichilismo che si abbatte sui venerati maestri a fine carriera, ha intravisto nell’ennesimo approdo in Rai la possibilità di mettere in pratica le famigerate utopie televisive del “pensiero critico” (vedere i suoi ultimi libri, “L’idolo del capitalismo” e “Televisione”). C’erano in effetti tutte le condizioni. Le parole d’ordine nell’aria erano quelle giuste. I titoli scaturivano da sé, “Popolo sovrano”, “Povera Patria”. Nell’ormai celebre conferenza stampa di presentazione della nuova RaiDue, Freccero definì la “mission” della rete come una “rivincita sulle nefandezze di un potere che è passato” (è ormai noto quanto la “vendetta” giochi un ruolo strategico in tutto quello che stiamo vivendo, da Tangentopoli al progetto di Beppe Grillo e Casaleggio). Sappiamo com’è andata. Se non fosse per le nefandezze del potere passato, vale a dire per programmi come “Il collegio” o la fiction “La porta rossa” che fortunatamente hanno resistito al “cambiamento”, i dati di RaiDue sarebbero da incubo. Dati che nel mondo reale, vale a dire non nel situazionismo parastatale di Freccero, porterebbero subito a un cambio di direzione. Si capiva già tutto dall’enfasi cinephile con cui Freccero chiuse l’epica presentazione di “Ultimo tango a Parigi” in prima serata: “Saremo pochi, ma saremo i migliori”. Pochi di sicuro. Ci fu prima il flop del montaggio di Beppe Grillo, umiliato anche dall’ultima delle puntate di Techetecheté, ma Freccero incolpò “Striscia la notizia”, “Che tempo che fa” e Marco Ciannamea, direttore dei palinsesti Rai, che “ragiona in maniera leninista e ha una posizione censoria nei miei confronti”. Mancavano solo “i governi precedenti che ci hanno mentito per anni” (copyright Giggino Di Maio). Col senno di poi, il 4,6 per cento del blob grillesco era invero un gran risultato. Poco dopo, “Povera Patria” si giocava quaranta minuti di Matteo Salvini facendo il tre per cento di share, cioè meno della metà del “Collegio” e un quinto di “La porta rossa”. A “Popolo sovrano” le cose vanno anche peggio. Non si salvano neanche con la sigla dei Queen, “We will rock you”, in un momento in cui tutto ciò che è “Queen” diventa oro. “Abbiamo scelto questo titolo perché crediamo nell’articolo uno della Costituzione”, dice Alessandro Sortino con malcelato imbarazzo, spuntando fuori da un corridoio di luci e scenografie messe su un po’ così, come in una versione uzbeka di “X-Factor”, circondato da un pubblico di vecchi che applaude fuori sincrono. Il popolo sovrano non apprezza: 2,6 per cento di share a calare dopo la prima puntata. Freccero corre ai ripari. Arriva Simona Ventura a “The Voice”, si agita lo spettro di Michele Santoro. Sì, Michele Santoro. Il cambiamento può attendere. Peccato, perché questo invece era il momento di insistere e rischiare. Da uno come Freccero ci saremmo aspettati almeno il format “Navigator”, reportage immersivi su e giù nella penisola per raccontare i volti e le storie dei seimila guardiani del reddito di cittadinanza che, come da bando Anpal, accompagneranno gli italiani alla ricerca del lavoro, casomai non avessero troppa voglia.

   

  

Anche il megaflop di “Adrian” rientra forse nella vasta ondata di rigetto dei cliché populisti, o almeno ci piace pensare così.  Nell’incerto pantheon culturale del grillismo, Celentano ha sempre occupato lo spazio del pensiero arcaico, del ritorno allo stato di natura, della rivolta mitologica contro il Potere e il Progresso, tra la via Gluck e Rousseau.  L’idea di rifare “Joan Lui” nell’Italia populista di Salvini e Di Maio in teoria era perfetta. Rispetto all’Italia del 1985, quella di oggi sembrerebbe assai predisposta alle prediche utopistico-pauperistiche del Celentano più wagneriano e apocalittico, quello appunto di “Joan Lui”, opera d’arte totale malamente incompresa all’epoca ma ora riattualizzata nelle forme pop della serie animata. Costo dell’operazione: ventidue milioni. Cancellata dopo due puntate imbarazzanti e rinviata a chissà quando, probabilmente a mai. “Adrian” grande metafora del debito italiano e dell’“anno bellissimo” di Conte. Però la lezione di Celentano è sempre viva. I predicatori televisivi sono tanti. E il verbo per tutti resta “l’intervista al vicepremier”, praticamente un format a parte della tv italiana. Solo che, anche qui, gli ascolti delle apparizioni di Salvini iniziano a scricchiolare.

    

Il consenso di Salvini si trova oggi in quel punto esatto in cui l’apice della sua popolarità coincide con la saturazione della sua immagine

La scorsa settimana, il “Tg2 Post”, nuovo, scintillante approfondimento del telegiornale di Putin che avrebbe dovuto traghettare il pubblico verso “Popolo sovrano” con l’ospitata del ministro dell’Interno, si è fermato al 3,5 per cento di share. E’ stato doppiato da “Otto e mezzo” su La7, dove da un po’ di tempo Lilli Gruber si diverte se non altro a mettere in imbarazzo gli ospiti M5s, anche se loro, naturalmente, ci riescono benissimo da soli. Il consenso di Matteo Salvini si trova oggi in quel punto esatto in cui l’apice della sua popolarità coincide con la saturazione della sua immagine (ci sono passati tutti prima di lui, solo che ora succede in fretta, perché nel frattempo alla saturazione televisiva si è aggiunta quella dei social media). La televisione su questo resta un termometro implacabile. L’intervista al vicepremier è ormai entrata nella sua fase tardo-manierista. L’irriverenza e la provocazione politica si mutano in sketch stanchi, opachi, prevedibili. Come ogni comico sa bene che l’ultima carta da giocarsi quando non fa più ridere è vestirsi da donna, Salvini sa altrettanto bene che non potrà andare avanti all’infinito con le interviste in tv dov’è costretto a dire sedici volte al giorno le stesse cose, a fare le stesse battute, a canticchiare Albachiara, a vestirsi da poliziotto, pompiere, sommozzatore, forestale. La scorsa settimana, come ormai tutte le settimane, Salvini era ospite praticamente in ogni talk.

   

L’intervista migliore però è andata in onda a “Non è l’Arena”. Massimo Giletti aveva accanto a sé una bottiglia di latte. Salvini era in collegamento video con sfondo a tema Sardegna alle spalle. “Lei sa bene cosa c’è dietro questo latte versato”, diceva Giletti, “nella sua storia lei sta sempre dalla parte di chi fatica”. “Sì, io sono qui, qui ho passato San Valentino”. Applausi. Salvini spiegava l’affaire pastori e ricordavi di “fare la spesa italiana”, di cercare “il tricolore nell’etichetta”, di mangiare tanto pecorino romano. “Le ambasciate dovrebbero fare di più”, diceva Salvini, fuori i nomi di chi usa il pecorino rumeno. Giletti poi passava alle “storie” che sono dietro questa tragedia, sempre inquadrato in studio con la bottiglia di latte accanto, “ai volti, ai nomi di persone che si tramandano questo mestiere”. “Non è l’Arena” diventava “Linea Verde”. Poi stacco formidabile dal pecorino alla Tav, ovvero foto dall’account Instagram di Salvini con lui e sua figlia che giocano su un trenino nel parchetto. Supercazzola a seguire su costi & benefici. Altro tema: i carboidrati. Photogallery di Salvini che mangia cose. Risate, applausi. Poi attestati di stima per i gilet jaunes, poi la giuria di Sanremo che “ha cambiato il voto degli italiani”, poi gli spacciatori di droga che escono dal carcere, poi i porti aperti, i porti chiusi, la diatriba sul messaggio del catechismo che, ricorda Salvini, dice “accogliere è un dovere ma nella misura del possibile”, quindi semichiusi o semiaperti. Salvini si rivolgeva a Giletti chiamandolo sempre “Massimo”. “Massimo posso salutare una signora che ho incontrato oggi”. Come no. Si chiudeva quindi con “A Mahmood preferisco Vasco Rossi, ma la musica non ha colori”. Cinquanta minuti tondi di “intervista” se così, in mancanza di termini più precisi, dobbiamo continuare a chiamare queste cose che vanno quotidianamente in scena in tv. Ma, oggettivamente, quanto può durare una roba del genere?

 

  

Tutti sbraitano, Montalbano rassicura. I suoi quasi undici milioni di spettatori sono il partito dei moderati che manca al paese

Il problema casomai è attrezzarsi per riuscire a trasformare il rigetto e la saturazione populista in un progetto politico. Forse Calenda, Renzi, Martina, Zingaretti e gli altri dovrebbero imparare dall’altro Zingaretti, cioè da Montalbano. I suoi quasi undici milioni di spettatori sono il partito dei moderati che manca al paese. Mentre tutti urlano, sbraitano, si azzannano, Montalbano rassicura, e rassicura in modo trasversale con un prodotto televisivo che, altra cosa rara, fa tranquillamente a meno dei social e dell’inseguimento compulsivo delle loro bolle. Passare dai settecentomila votanti delle primarie al pubblico di Montalbano sarebbe un bel progetto di governo, anche se già il fatto che Sky abbia infilato le primarie all’una del pomeriggio di un giorno feriale fotografa bene la tenuta televisiva del Pd.

   

Eppure il momento sembra favorevole. Antiche pulsioni indispensabili a tutte le rivolte, ieri  contro “il sistema”, oggi contro le “élite”, potrebbero essere giunte all’ennesimo (ahinoi sempre provvisorio) capolinea. Un auspicabile ritorno alla realtà dopo il carnevale populista si spiegherebbe come una sana presa di coscienza più o meno collettiva delle condizioni indispensabili al funzionamento delle società, che non sono e non saranno mai né l’onestà, né la democrazia diretta o il televoto. Nel 1968, in quel libro formidabile che è “La rivoluzione introvabile”, un testo che sembra più attuale oggi che a ridosso degli eventi del maggio francese analizzati fulmineamente con disincanto e timore, Raymond Aron scriveva: “I francesi hanno scoperto in fondo a sé stessi molte ragioni d’insoddisfazione, si sono liberati delle pulsioni represse e dei motivi di risentimento nascosti, si sono anche tolti il desiderio di parlare, represso dal silenzio quotidiano, ma poi hanno anche provato successivamente il bisogno, forte almeno quanto quello rivoluzionario precedente, di tornare alla realtà”. Come diceva qualche giorno fa Ester Viola su Facebook: “Dopo varie fregature a fidarsi di Tripadvisor, si ricomincia a guardare solo la Michelin”.

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