La dura legge del flop

Mariarosa Mancuso

Dai “Cancelli del cielo” di Cimino al cinema, a Celentano e Grillo in gennaio in tv. Dalla Coca-Cola alla ciliegia ai Google glass. Nessuno è al riparo dall’insuccesso (ma questa è la versione fatalista)

L’anno scorso ho collezionato 43 lettere di rifiuto, il mio record personale da quando ho cominciato a contarle”. Lo annunciava una scrittrice su Lit Hub, che ogni giorno allieta la nostra casella di posta spacciando articoli “di cultura” (la parolaccia va detta, offriamo il collo alla mannaia o al “Censimento dei radical chic” immaginato nel suo romanzo da Giacomo Papi). Fiera e soddisfatta, senza la solita lagna sugli editori che rendono la vita grama ai giovani scrittori.

 

“L’anno scorso ho collezionato 43 lettere di rifiuto”: Kim Liao sta lavorando per arrivare a cento, mentre pubblica racconti e insegna

Notevole la mortalità in culla delle serie tv. “Vinyl”, che sulla carta sembrava aver tutto, è stata interrotta dopo la prima stagione

Kim Liao (così si chiama la ragazza) aveva messo in pratica il consiglio di un amico che passava da una residenza per scrittori a un’altra – tra cui la mitica Yaddo, ci sono stati Saul Bellow, Sylvia Plath, James Baldwin riportato in auge dal film di Barry Jenkins “Se la strada potesse parlare”. Quando non erano soggiorni con vitto e alloggio per scrivere in tranquillità, erano borse di studio o racconti accettati sulle riviste lette dagli editor a caccia di nuovi talenti.

 

“Colleziona lettere di rifiuto”, consigliò l’amico che sembrava fortunato ed era solo metodico. “Fissa un obiettivo e cerca di raggiungerlo, vedrai che arriveranno anche le lettere di accettazione”. Kim Liao ora sta lavorando per arrivare a cento rifiuti, mentre pubblica racconti, insegna scrittura, fa la blogger. Gemella in spirito di Johannes Haushofer, accademico di Princeton che nel suo curriculum vitae ha elencato solo fallimenti (“tutti” i fallimenti risulta più impegnativo, capita a tutti di dimenticarne qualcuno, lui insegna psicologia e sa bene come siamo fatti). E dunque: i corsi universitari a cui non è stato ammesso, le posizioni accademiche che non ha ottenuto, le borse di studio andate ai rivali, gli articoli respinti dalle riviste, i finanziamenti non ottenuti. In coda a tutti, il Meta-Fallimento: “Questo maledetto cv dei fallimenti ha ricevuto molta più attenzione di tutti i miei lavori accademici messi insieme”.

 

Abbiamo trovato il Curriculum Vitae dei Fallimenti nell’ultimo numero della rivista Link – Idee per la televisione, diretta da Fabio Guarnaccia e dedicata ai “Flop”. Parola che in televisione fa paura soltanto a pensarla. Quanto a pronunciarla, mai! Neppure se a fare flop è il tuo peggior nemico, potrebbe la prossima volta capitare a te: non è cortesia verso l’avversario che inciampa, funziona come scongiuro preventivo. Non come in letteratura, dove il flop (di lettori) costituisce un prerequisito per l’apprezzamento critico.

 

I bestseller vengono sempre trattati con sospetto. Se ancora non siete convinti, andate a sfogliare (sono oltre 900 pagine, la lettura è per specialisti) “L’anno della Storia 1974-1975”, curato da Angela Borghesi per Quodlibet: tutte le recensioni che accompagnarono l’uscita in libreria di “La storia” di Elsa Morante. Tascabile al prezzo popolare di 2.000 lire, imposto dalla scrittrice (Einaudi accettò anche se per andare in pari bisognava smerciare la prima tiratura da centomila copie, in un anno arrivarono al milione). Più la narrazione romanzesca, vista allora dai critici come il fumo negli occhi (e siccome si parlava di poveri scattò anche la censura ideologica). Il cocktail era esplosivo, e produsse critiche feroci. Tra gli inviperiti, Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Umberto Silva e Letizia Paolozzi. Sul Manifesto invitarono i compagni alla ribellione verso colei aveva osato scrivere “un romanzone” (che si faceva pure leggere con diletto). Elsa Morante non era esattamente una sconosciuta, né era arrivata dal web: fu bollata come “bamboleggiante nipotina di De Amicis”. Per la serie “com’è andata a finire?” (ovvero: “la società letteraria italiana”), nel 2010 Elisabetta Rasy ha ricevuto il premio Elsa Morante per la saggistica.

 

Torniamo a Link, copertinato e impaginato in un magnifico fucsia: “Quel colore che alle altre ci sbatte e a me mi dona”, sentenziava senza appello Cesira la manicure in un monologo di Franca Valeri (ma forse è solo un richiamo al viola portasfiga per i teatranti e in genere i lavoratori dello spettacolo, in Italia almeno, ché in Francia è il verde). Utile da ripassare in occasione dei clamorosi insuccessi televisivi di gennaio, “Adrian” di Adriano Celentano (e un po’ Milo Manara, che dopo le prime puntate si è dissociato) e “C’è Grillo”, best of di Beppe Grillo che sulla nuova Rai 2 di Carlo Freccero inaugurava una serie di “speciali” sui personaggi che hanno fatto la storia della tv italiana (qua tecnicamente si sono dissociati tutti quanti, è lo sport nazionale, ultima dichiarazione pervenuta “la colpa è di Fazio”). Sul numero di Link, invece, Carlo Freccero spiega “Come il format diventa storia”: il format sta all’intrattenimento come lo storytelling sta alla fiction, fanno da garanzia e all’occasione si mescolano.

 

Se c’era un articolo di fede, fino all’altro ieri e in materia di tv, era il seguente: un battito di ciglia di Adriano il Molleggiato provoca un’impennata negli ascolti. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa dica, qualunque cosa canti. E questo era il meno, a cantare è sempre stato bravo, le pippe ecologiche e naturiste le aveva da “L’albero di trenta piani”, anno 1972 ma cercavamo di non badare troppo a “Nuda sulla pianta / prendevi il sole con me / e cantavano per noi / sui rami le allodole”. Qua l’idillio si muta in condanna: “L’uomo accecato dal potere ha incatenato la sua mente al ceppo del consumismo” (wow, il ceppo, da quando non si diceva più “ceppo”?).

 

“Adrian” dimostra che nessuno è al riparo dai flop. Questa è la versione fatalista. Per la versione realistica, basta vedere la sciatteria dell’anteprima e l’assurdità del disegno animato. Tutto attorno è 2068, dice la scritta, tranne che in via Gluck, dove ancora sopravvivono case di ringhiera, due vecchiette che si chiamano Anidride e Carbonica (non è uno scherzo), una Claudia Mori disegnata da Milo Manara, quindi sempre con le chiappe al vento (“disegnata, non animata” spiega l’illustratore ma la rotondità della chiappa-manara vale più delle smentite). Lui fa l’Orologiaio, ha in mano il cacciavite, e subito arriva la battuta su cosa sarebbe meglio fare, con il cacciavite. Segue scopata, non sarà l’unica, e nessuna c’entra con la trama.

 

Luca Barra in “Non si scappa dai flop”, censisce le stagioni e le tipologie. I programmi in America fanno flop da quando la televisione esiste, in Italia i flop esistono ma fino agli anni 80 non si vedono, per portarli alla luce serve la concorrenza con le reti private. Alla fine degli anni 80 arriva l’Auditel e i flop sono misurabili. Con le pay tv e la rivoluzione digitale, fa notare, sembra di tornare indietro. Netflix è avanti su tutto, ma i dati precisi sui flop li sanno solo i suoi dirigenti che conservano gelosamente il segreto, possiamo solo lavorare con gli indizi.

 

Se bisogna avvertire la gente “non andate in giro bendati come Sandra Bullock in ‘Bird Box’”, è chiaro che si parla di successo, quasi un’epidemia. Sarebbe più interessante capire come è andato il bianco e nero di “Roma”. Quando alla casistica, abbiamo il flop esogeno, il flop endogeno e il flop “longitudinale” – è il caso di Beppe Grillo e di Adriano Celentano. Noi pensavano a un “flop per estenuazione”, la soglia della noia esiste, l’esposizione dell’artista-guru ha stufato. Va bene anche “flop per sfinimento”, e ricorda certi programmi del mattino: “Li guarda chi ha perso il telecomando, o aspetta che l’infermiera venga a girarlo”.

 

In televisione i flop si vedono. Nell’industria un po’ meno, come racconta a Fabio Guarnaccia Samuel West, psicologo e consulente che ha inventato il museo dei flop aziendali, una sede a Helsingborg (in Svezia) e una a Los Angeles. Idea bellissima, fantastica, meravigliosa, dicevano gli interpellati. Grande successo di critica, ma al momento di fornire materiali per l’esposizione i dirigenti hanno fatto un passo indietro – gli oggetti sono stati comunque trovati, spicca tra tutte una eau de toilette Harley Davidson.

 

Son più facili da raccontare i fallimenti amorosi, come nel romanzo-con-installazione che il premio Nobel Oran Pamuk ha chiamato Museo dell’Innocenza. Dal 1990 cominciò a raccogliere oggetti, con l’intenzione di esporli e di prenderli come punto di partenza per un romanzo, appunto “Il museo dell’innocenza” (Einaudi 2008). La storia di un amore impossibile, scandito da 4.213 mozziconi di sigaretta, tutti visibili in una parete del Museo aperto a Istanbul nel 2012 da Pamuk, creatore e unico finanziatore. Sicuramente ha fatto da modello per il Museum of Broken Relationship, che esiste a Zagabria, dal 2016: ispirazione dichiara da Samuel West per il suo museo dei fallimenti aziendali. Memorabile il fallimento delle bambole erotiche a noleggio – solo a Los Angeles, che conta sui biglietti venduti e può osare di più.

 

La sofferenza d’amore si esibisce con più fierezza dei Google Glass, che sembravano indispensabili e a vederli adesso paiono usciti da un film di fantascienza anni 70. Sono al numero uno della classifica stilata da Michele Boroni, “Il Top dei Flop”: l’unica posizione a suo giudizio non discutibile, sulle altre si può discutere. Sta in lista con il Betamax, ottima qualità di riproduzione e sfortuna commerciale. E la Coca-Cola alla ciliegia: a che serve aver come testimonial Andy Warhol – “quel che mi piace dell’America è che nessuno, per quando miliardario, potrà bere una Coca-Cola migliore della mia” – quando poi si cerca di cambiare gusto alla bibita?

 

Dr Pira – alias Maurizio Piraccini, suoi “I Fumetti della Gleba” – si dedica a “Microsoft Bob”, interfaccia per computer che imitava non la scrivania su cui abbiamo le icone (e che ora ci sembra naturale) bensì uno studio. Oltre al tavolo di lavoro c’erano i cassetti, le finestre aperte sull’esterno, il camino con il fuoco acceso e pure il cane, che dava suggerimenti: “Per aprire un file fai così e così”. Era il molto remoto 1995, tracce residuali son rimaste – per chi ha dovuto qualche volta piegarsi ai pc aziendali – nell’assistente di Windows a forma di cagnolino che scodinzolava a ogni mail inviata. C’era pure una graffettona, altrettanto importuna.

 

Notevole anche la mortalità in culla delle serie tv (mentre capita che un programma originale come il Karaoke con Fiorello – tanto di successo che diventò il programma campione per misurare “come siamo caduti in basso – stenti ad affermarsi). Sempre su Link, Amanda D. Lotz dà i numeri: ognuno dei quattro grossi network americani commissiona dalle 50 alle 80 sceneggiature l’anno; di queste una ventina soltanto arrivano all’episodio pilota; e si riducono di un quarto quando c’è da stanziare il budget per la prima stagione.

 

Dati che vanno un po’ aggiustati, ora che i network americani non sono gli unici a lottare per spartirsi gli spettatori. Disney – che già si è comprata la Fox, aprendo agli intrecci tra Topolino e Deadpool, magari nella taverna galattica di Star Wars – aprirà settembre Disney+, una piattaforma streaming tutta sua (e alla scadenza, ovvio, ritirerà le licenze per i suoi prodotti ora visibili su Netflix). Apple sta per lanciare una piattaforma streaming tutta sua, forse già il prossimo aprile: nella squadra, Damien Chazelle che dirigerà una serie, e un ciclo tratto da Isaac Asimov (in effetti un po’ trascurato dai televisivi). WarnerMedia non resterà indietro.

 

In Italia i flop esistono da sempre ma fino agli anni 80 non si vedono, per portarli alla luce serve la concorrenza con le reti private

Samuel West, psicologo e consulente, ha inventato il museo dei flop aziendali. Ma sono più facili da raccontare i fallimenti amorosi

In piena Peak Tv – Vulture calcolava 495 serie, nel 2018 – si ha l’impressione che tutto o quasi venga messo in produzione. Con il risultato che la mortalità in culla diminuisce, e la linea della sopravvivenza si sposta più avanti. E’ il caso di “Vinyl” – numero nove nel “Top dei Flop”. Sulla carta sembrava aver tutto, è stata interrotta dopo la prima breve stagione (anche le stagioni non sono più quelle di una volta, i 24 episodi che consentivano un esperimento come la serie “24” di Joel Surnow sono commissionati sempre più di rado). Terence Winter dei “Soprano” alla sceneggiatura, Martin Scorsese alla regia del primo episodio, Mick Jagger co-produttore esecutivo, il rock che sempre tira, ma non c’è stato nulla da fare.

 

Al cinema, il Fallimento Numero Uno è “Cancelli del cielo” di Michael Cimino, il regista che da solo fece fallire la United Artists fondata nel 1919 da Charlie Chaplin e Douglas Fairbanks (il film costò 44 milioni di dollari e ne incassò 3, i fan vorrebbero far credere che 41 milioni di dollari sono il peso dell’arte). Francis Ford Coppola con “Un sogno lungo un giorno” si limitò a far fallire la Zoetrope, che era sua e di George Lucas: si è rimesso in pista e ora ama dirigere inguardabili pellicole d’autore in bianco e nero come “Tetro”. Un caso di preghiera esaudita: “Voglio fare l’artista e far dimenticare il mestierante che ero nel ‘Padrino’”.

 

Ultimo fallimento pervenuto, “Benvenuti a Marwen”: costato 39 milioni di dollari, ne ha incassati 12 (la Universal Picture ha retto il colpo, grazie a “Jurassic Park” e a “Mamma mia – Ci risiamo”). Robert Zemeckis ci stava provando da tempo a fallire, con i suoi esperimenti in motion capture, per esempio “Polar Express”: era assai più brutto ma i suoi 311 milioni di dollari li ha portati a casa (ne era costati 165). Qui il problema sta nell’eccesso di registri: la tragica storia vera di Mark Hogancamp, picchiato fino al coma perché gli piacevano i tacchi; la catarsi attraverso i bambolotti nazi; le Barbie armate con la minigonna e le tette di fuori (quando ancora c’è gente convinta che l’animazione considerata roba per bambini); lo zucchero che prevale sull’assenzio.

 

Si è ripreso invece benissimo – dal flop di “15.17 - Attacco al treno” – il quasi novantenne Clint Eastwood. “The Mule - Il corriere” è un piccolo film perfetto, scritto dallo sceneggiatore di “Gran Torino” Nick Schenk. Un pensionato male in arnese fa il corriere della droga, e raddrizza quasi fuori tempo massimo i propri fallimenti da padre e da marito. Prima, trovava molto più interessante il giardinaggio.

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