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Floris e il problema degli applausi in tv

Adriano Sofri

Quelli a Di Martedì per Salvini però non erano applausi, nemmeno scalmanati, ma una vera canea

Quando non capisco una cosa, cioè sempre, consulto Google, per esempio martedì, dopo che avevo visto Salvini nel programma di Floris sulla 7. Ho cercato “Floris applausi” ed è venuto fuori un pezzo di Andrea Minuz qui sul Foglio intitolato “Fenomenologia dell’applauso. Ogni talk-show televisivo ha il suo. Il più convulsivo è quello di Floris”. Mi è servito. Non che fossi così ingenuo da meravigliarmi di un pubblico che applaude freneticamente tutto e il contrario di tutto, questa mutazione, non dico che l’avessi capita, ma mi ci ero abituato. Mi era sembrata perfino promettente, immaginate se succedesse allo stadio, i tifosi scalmanati che applaudono la squadra propria e quella nemica e poi vanno tutti insieme a bere una birra, come nel mondo incantato del rugby. Martedì però non erano applausi, nemmeno scalmanati, ma una vera canea (muta abbaiante che insegue la selvaggina, fig.: moltitudine schiamazzante, specialmente se violenta e rabbiosa). La muta di Salvini ha avuto punte di strepito alle frasi sulla Sea Watch, sicché la selvaggina inseguita là non era fantastica o metaforica – l’invasione, gli immigrati, lo straniero – ma quelle 47 persone. Un colosseo con quei 47 nell’arena. Allora, per via dell’imminenza, mi sono ricordato dello scorso Sanremo e del monologo di Favino e del modo in cui il pubblico, in sala e nel resto del mondo, se ne era mostrato toccato. Abbiamo un problema con la fenomenologia degli applausi. Col pubblico, col popolo, con i capipopolo, con i 47. Abbiamo un problema noi, con noi.

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