Secondo giorno di audizioni a X factor (foto LaPresse)

Fenomenologia dell'applauso

Andrea Minuz

Ogni talk-show televisivo ha il suo. Il più convulsivo è quello di Floris. Ecco a che cosa serve

 

Il pubblico della televisione non esiste. Ci sono i pubblici, rigorosamente al plurale, e i pubblici si riconoscono dagli applausi. Gli applausi da stadio della finale di “X Factor” o “Amici”, gli applausi inferociti di “Uomini e donne”, gli applausi democratici di “Che tempo che fa”, quelli registrati di “Striscia la notizia” e il lungo, solenne applauso per l’“Andrea Chénier” in diretta su Rai Uno dalla Scala. Bisognerebbe scrivere una storia della televisione attraverso gli applausi, dunque una storia che racconti anzitutto il progressivo sconfinamento dell’applauso dai margini al centro della trasmissione. Scrivere un format, allestire un talk significa ormai comporre una partitura di applausi che detta il ritmo alla puntata. Bisogna quindi saper ascoltare la musica degli applausi, la loro sapiente orchestrazione e distribuzione, l’armonia scrosciante di urla, invocazioni, cori.

  

 

Guardando l’inizio di una puntata qualsiasi di “DiMartedì” (per esempio l’ultima, ospite a caso Alessandro Di Battista a braccio su Renzi, Boschi, Banca Etruria) siamo riusciti a contarne almeno quattordici nei primi venti minuti di trasmissione. Floris entra in studio, applausi. Floris presenta gli ospiti della puntata, applausi. Floris non fa in tempo a fare la prima domanda a Di Battista che parte l’applauso. Applaudono gli spettatori seduti intorno al palcoscenico, applaudono quelli appollaiati nelle balconate del teatro elisabettiano di Floris riconvertito in arena populista. Le parole di Dibba non cadono mai nel vuoto. Vengono enfatizzate, rilanciate, ritmicamente scandite dal battito di mani del pubblico. “Floris, mi dia l’opportunità di esprimere un concetto senza interrompermi ogni trenta secondi”, dice Di Battista, quando l’unico a interrompere il filo del suo free speech contro il Palazzo è  solo l’applauso del pubblico.  

 

Ma ci sono anche gli “wow”, i “bravoooo” che si staccano ogni tanto dal tappeto di applausi. Quando Dibba dice “il nostro sarà un governo che non ha legami con il capitalismo finanziario”; quando ricorda che “noi del Movimento abbiamo gli attributi per andare a trattare a Bruxelles”; quando picchia duro sulla famiglia Boschi e la Fornero, quando ripete meccanicamente, “la poveraggente, la poveraggente”, soprattutto quando afferma che “la povertà va abolita”. Così, mentre il pubblico applaude (come si fa a non applaudire chi vuole abolire la povertà) ci domandiamo come mai nessuno, a parte il creatore del meme di Paris Hilton con la T-Shirt “Stop Being Poor”, l’abbia mai detto così perentoriamente come Dibba. Neanche Papa Francesco. L’unico che ha provato a sfidare i Cinque stelle su questo terreno è il Dottor Lemme, il farmacista bioscultore ospite fisso a “Domenica Live” di Barbara D’Urso. In una delle ultime puntate, dopo il consueto repertorio a base di “testa di donna”, “scimmia”, “cicciona”, con cui va avanti da anni, Lemme se l’è presa coi poveri esortandoli a diventare ricchi: “Io non ho rispetto per i poveri perché chi è povero ha scelto di essere povero”. Poi, rivolgendosi al pubblico a casa, guardando in camera come in un’ipnosi collettiva: “Tu povero che mi ascolti, scegli di essere ricco”. Boati del pubblico. Barbara D’Urso ha gettato la spugna: “Ho quaranta di febbre e non ce la faccio a rispondere a questa cazzata che hai detto”. Applausi. Ogni tanto, ci piacerebbe sentirlo dire anche da qualche conduttore dei talk politici. 

  

A “DiMartedì”, l’applauso copre quella voragine che si è aperta tra promesse politiche, attese sociali e verifiche se non dei fatti, quanto meno dell’opinione pubblica. Non è certo una novità di questi anni. Solo che ormai non c’è neanche il tempo di lasciar risuonare in studio la cazzata, fermarsi un istante e chiederne conto, che subito l’aria si gonfia di applausi e la trascina via. Da Floris però l’applauso è democratico. Si applaude Elsa Fornero, si applaude Naomi Klein. All’inizio gli applausi partono con un ritmo forsennato, poi man mano che si supera la prima ora di trasmissione iniziano a rallentare. Per rallentare il ritmo degli applausi ci vuole Bersani. Le sue introspezioni negli abissi della coscienza di sinistra creano una zona lounge, al riparo dagli applausi, e il pubblico di Floris non sa bene come reagire, aspetta un’immagine, una battuta, uno sfogo. Poi Bersani tira fuori dal cilindro frasi come, “Trump ha vinto con le tute blu” e prontamente arriva un applauso anche per lui.

     

“DiMartedì” è forse la più compiuta rappresentazione del passaggio dalla tv degli insulti, tipica dei primi anni zero, alla tv degli applausi di oggi. La rincorsa all’applauso convulsivo è probabilmente la risposta della televisione al dominio dei “like” innescato dai social media. Bianca Berlinguer a “Cartabianca” prova a colmare lo scarto usando gli applausi in studio e il “sentiment” a casa, ovvero il sondaggio in tempo reale sul gradimento delle affermazioni del politico di turno ospite della trasmissione. Su Facebook ci sono i post “acchiappalike”, nei talk ci sono parole che strappano l’applauso pavloviano del pubblico in studio (“vitalizio”; “colpa del liberismo”; “smantellamento dello stato sociale”; “devastazione del territorio”; “privatizzazioni selvagge”; “precariato dei giovani”; “articolo 18”; oppure “invasione degli immigrati” se siamo su “Quinta colonna”).

     

Ma l’applauso può essere anche scoordinato. Ospite a “Piazzapulita”, l’europarlamentare della Lega Nord Gianluca Buonanno definì i Rom “feccia della società” innescando un improvviso, impensato applauso del pubblico che forse pensava di essere nello studio del competitor Paolo Del Debbio. Formigli prese le distanze (“mi vergogno di questi applausi”), il “Fatto Quotidiano” parlò di “preludio al genocidio”. Tutto per una frase che senza quell’applauso imprevisto e scorretto sarebbe caduta nel vuoto. D’altro canto, in questi anni il pubblico in studio è stato addestrato all’applauso al termine della battuta secca, provocatoria, perentoria, senza troppe distinzioni e sfumature. Così Formigli ci è ricaduto un’altra volta. Quando ha invitato a “Piazzapulita” Simone Di Stefano di Casa Pound per un confronto con Alan Friedman, David Parenzo e Vladimir Luxuria, la discussione si è svolta per ampi tratti in un silenzio irreale, cui non eravamo più abituati. Poi però il pubblico ha preso coraggio e ha iniziato a riservare qualche applauso anche per gli affondi di Simone Di Stefano, secondo quel noto meccanismo che porta a tifare Rocky quanto tutto lascia supporre che dovrebbe vincere a mani basse Apollo Creed (ebbene sì, succede anche quando Rocky è di Casa Pound). Un meccanismo che Formigli finge di non conoscere dopo averci costruito sopra la puntata, e di nuovo si sente obbligato a prendere le distanze: “Ma che è? Abbiamo un nutrito gruppo di sostenitori di Casa Pound in studio?”.

     

   

Lo scorso anno circolava sui giornali la storia di Luca, studente universitario, iscritto al PD, battitore di mani pagato a “Piazzapulita”. Luca denunciava la sua indignazione per gli applausi “a comando”, innescati dalla regia, ovvero utilizzati per sottolineare passaggi significativi, dunque dare ritmo alla trasmissione, ma anche stendere un tappeto rosso a Di Battista. Luca scoprì con sgomento che la politica in televisione è anzitutto televisione. Formigli invece si difese con un lungo post su Facebook: “In quarantacinque minuti di riprese in studio di Di Battista sono scattati molti applausi spontanei. Il pubblico di Piazzapulita partecipa con un piccolo rimborso spese al programma ma la sua presenza in studio è segno di interesse per l’informazione, voglia di guardare e ascoltare”. Insomma, anche se ogni tanto si sbaglia il pubblico di “Piazzapulita” sta lì come rappresentate della società civile. Se ogni minuto scattano applausi scroscianti a Di Battista non significa che siano applausi “a comando” perché, dice Formigli, “quando c’è un esponente di spicco di M5s in studio l’applauso scatta con forza e spontaneità. Lo stesso vale, ma con meno intensità, con Salvini e Meloni. Per il Pd l’applauso è più faticoso”.

     

 

Formigli difende il realismo della sua trasmissione, l’idea tipicamente santoriana di “pubblico vero”, la dimensione libera, partecipativa, “dal basso”. Il fatto è che hanno ragione entrambi. Luca ha ragione perché una volta passato dal salotto di casa allo studio televisivo scopre che in una trasmissione è più importante applaudire che capire. Formigli ha ragione nel sostenere che Dibba e Di Maio chiamano l’applauso anche senza indicazioni del regista, perché in fondo non ne hanno bisogno. Da un lato i talk politici di La7 (non solo quelli di La7 ma in particolare quelli di La7) sono modellati sulle forme del populismo televisivo, cioè seguono e portano alle estreme conseguenze la strada aperta da Michele Santoro, e dall’altro gli esponenti di spicco del M5s rappresentano la naturale evoluzione politica di quella televisione con in più l’innesto decisivo della democrazia diretta da reality show. La televisione si fa con la pubblicità, la Casaleggio Associati gestisce spazi pubblicitari on-line. Un matrimonio perfetto. Essere governati da un “pubblicitario”, il grande incubo dell’antiberlusconismo d’antan, prende finalmente forma solo oggi, con lo spettro del M5s al trenta per cento e oltre. Non c’è bisogno di forzare il pubblico ad applaudire perché quel modello di rappresentazione della politica sembra già messo in scena apposta per loro. Un polo mediatico populista perfetto, irrobustito dal fiancheggiamento del Fatto e da ampi pezzi del Corriere, come ha spiegato Maurizio Crippa sulle pagine di questo giornale.

       

Se in Italia, a differenza degli Stati Uniti, non esiste la figura dello “scalda pubblico” prima della diretta (se non per i grandi show), dipende anche dal fatto che i nostri grandi conduttori-condottieri, come Santoro, come il compianto Gianfranco Funari, artefici di quella nuova postura del presentatore libero di muoversi a piacimento nello studio, erano bravissimi a entrare in sintonia con il pubblico figurante. Con i talk di Santoro, attraverso l’idea di una messa in scena della piazza e dunque della realtà, il pubblico scoprì più o meno improvvisamente di essere allo stesso livello dei suoi rappresentanti politici. L’applauso divenne feroce. Si avviava quel lento, inesorabile processo di erosione di cui oggi raccogliamo i frutti. Però né a “Samarcanda”, né a “Sciuscià” o “Annozero” si applaudiva con il ritmo forsennato di oggi. La svolta populista dei talk di La7 nasce semmai con l’operazione “Servizio Pubblico”. Ma rivista oggi, la puntata del 2013 con Berlusconi trascorre davanti ai nostri occhi in un silenzio irreale e si vedono persino gli sforzi del pubblico delle prime file per non ridere alle battute del Cav. Lo stesso silenzio con cui Santoro, ai tempi dell’editto Bulgaro, cantò “Bella Ciao” per aprire una puntata di “Sciuscà”, a cappella, senza musica, senza intonazione, lo sguardo fisso nel vuoto, e senza applausi (“volevo fare una cosa simbolica, un po’ teatrale, di impatto emotivo, ecco” – un giorno bisognerà indagare questo rapporto viscerale del populismo manettaro di Santoro e Travaglio con il teatro).

      

 

Il salto di qualità che manca alla rappresentazione della politica è un’attività di gestione del pubblico modellata sui casting, come per “Forum” o “Uomini e donne” di Maria De Filippi, dove non solo si prende la parola, ma si può iniziare da figurante e finire come celebrity che ci guarda dalle copertine dei rotocalchi di Cairo editore. L’universo defilippico è una sconfinata democrazia dell’applauso, una land of opportunity, una compensazione del blocco dell’ascensore sociale capace di mettere chiunque nelle condizioni di farsi notare raccogliendo voti e applausi, come ad “Amici”, o applausi e basta, come in “Uomini e donne”. Un “catfight” permanente, una lotta nel fango in décolleté e tacco dodici messa in scena per un pubblico chiamato a schierarsi, incitare alla lotta, parteggiare apertamente per uno o per l’altro, come nell’interminabile saga Tina Cipollari-Gemma Galgani, un pubblico che non vede l’ora di gettarsi nell’arena. Basterebbe smettere di pensare che questa televisione sia così diversa da quella che mette in scena e racconta la nostra politica. I monologhi di Dibba, per esempio, sarebbero esaltanti ad “Amici”. Applausi, urla, tifo da stadio, palloncini che volano, standing ovation, cori intonati dalle fan, “sei belliiiiissssimoooo”. Invece è successo che a furia di prenderli sul serio, a furia di lasciarli lievitare tra gli applausi sono diventati una parte ormai insopprimibile dello spettacolo populista dei talk-show.