Il vincitore di Sanremo, Mahmood (foto LaPresse)

Sovranisti stonati

Simonetta Sciandivasci

La proposta di legge della Lega per assicurare alla musica made in Italy più passaggi in radio è fuori tempo e fuori luogo. Mai sentito parlare di streaming?

Quest’anno Sanremo non finisce. Anzi. Si moltiplica. E investe tutto, tutti, fino forse a fare legge (e se accadrà davvero, cosa ne sarà dei compagni della mozione “preferisco un buon libro”? Verranno obbligati, per decreto, a seguirlo, amarlo, venerarlo? Speriamo!). L’articolo due della proposta di legge firmata da Alessandro Morelli, presidente della Commissione Trasporti e Telecomunicazioni, per “sostenere la musica italiana nel modo più trasversale possibile”, dice: “Le emittenti radiofoniche, nazionali e private devono riservare almeno un terzo della loro programmazione giornaliera alla produzione musicale italiana, opera di autori e artisti italiani, e incisa e prodotta in Italia, da distribuirsi in maniera omogenea durante le 24 ore”. Quindi, se il provvedimento dovesse venire approvato, su tre canzoni trasmesse da ciascuna emittente, una dovrà essere italiana (prodotta, registrata, scritta in italiana da italiani). Christian Rocca, che è pazzo pazzissimo di musica, è un po’ preoccupato. Dice al Foglio: “Quindi gli artisti italiani residenti all’estero rimarranno fuori quota? Un romano che registra a Londra come fece Claudio Baglioni con ‘Oltre’, si potrà ancora trasmettere oppure no? E i dischi soltanto in lingua inglese di Elisa come verranno conteggiati? ‘Dicitencello vuje’, in quanto napoletana, sarà considerata canzone straniera o patria?”.

 

Se il provvedimento dovesse essere approvato, su tre canzoni trasmesse da ciascuna emittente, una dovrà essere italiana

Ma c’è di più: di quel 33 per cento, un dieci per cento dovrà essere coperto da giovani autori, naturalmente italiani, che siano legati a case discografiche piccole e indipendenti. Perché se vengono prima gli italiani, devono venire prima anche gli artisti italiani. Non fa una piega, no? E’ equo.

 

Mahmood vince Sanremo e l’Italia si spacca e non come le altre volte, tra fan e detrattori, tra applauditori e fischiatori, ma tra popolo ed élite. Tra la gente che voleva Ultimo e i radical chic che, invece, volevano dimostrare a Matteo Salvini che l’Italia è multirazziale. Così ci raccontano. E non conta che Mahmood sia egiziano per parte di padre e italiano (sardo, per la precisione) per parte di madre, e sia cresciuto a Gratosoglio, periferia meridionale di Milano, Padania piena. Non conta che “Soldi” di Mahmood, a Festival finito, sia prima in classifica su Spotify, e sia diventata il singolo italiano più ascoltato di sempre sulla piattaforma, né che sia il più venduto secondo la classifica del Fimi. Conta che per Matteo Salvini avrebbe dovuto vincere Ultimo; che a Di Maio piacesse Cristicchi; che secondo Al Bano il rap “è troppo invadente” e rischia di spazzare via la musica italiana. Così, la Lega nella persona di Alessandro Morelli, che è stato direttore di Radio Padania e che oggi è condirettore della piattaforma Il Populista (ricordate? E’ nata nel 2016, così salutata dai giornali: “Ora anche Salvini avrà il suo blog”; fu uno dei capitoli più pop del Matteo contro Matteo), ha ritenuto di tentare di garantire agli italiani che niente del genere accada mai più. Né a Sanremo né altrove. Al Bano si è detto subito entusiasta e ha rincarato la dose: per lui, sette canzoni su dieci di quelle trasmesse in radio devono essere italiane.

 

Al Bano si è detto subito entusiasta: per lui, sette canzoni su dieci di quelle trasmesse in radio devono essere italiane

I numeri, tuttavia, dicono che Mahmood è amatissimo e piace a tutti quelli che ascoltano la musica dove si ascolta la musica ora (non in radio, bisogna farsene una ragione, ma su Spotify, YouTube, Apple Music). Di più: la musica italiana non ha alcun bisogno di rinforzi, men che meno statali. “Nella top 10 delle canzoni più diffuse per radio nel 2018, secondi i dati EarOne, c’è un 40 per cento di pezzi italiani”, ha scritto Paolo Madeddu sul blog “A Margine”, “guidati da ‘Non ti dico no’ di Boomdabash e Loredana Bertè. Nella top 20 sono nove, nella top 30 sono 14, il rapporto tra italiane e straniere è sempre vicino alla metà: si arriva alla top 100 con esattamente 50 titoli. Nella top 30 degli album Fimi del 2018 c’è un solo album straniero, e non è neanche del 2018: è quello di Ed Sheeran. 29 su 30 sono italiani”.

 

“Da un punto di vista musicale, siamo un paese pienamente sovranista”, dice al Foglio Stefania Carini (in libreria da poco con “Ogni canzone mi parla di te”, Sperling&Kupfer). “Il punto è che non viene riconosciuta a Mahmood l’italianità. E in questa assurda mancanza di riconoscimento si tenta così di difendere un’idea di canzone italiana che però, a rifletterci bene, non si capisce cosa sia, che criteri abbia, ma che di certo non ammetterebbe le contaminazioni di un qualsiasi genere non nato in Italia. Allora neanche ‘Ventiquattromila baci’ sarebbe una canzone italiana. Vogliono stabilire che la musica italiana è esclusivamente quella de Il Volo?”. Domenica sera a “Non è l’Arena”, Giletti è riuscito a dire che è assurdo che Il Volo sia apprezzato all’estero e poco valorizzato in Italia. Ancora Carini: “Non c’entra niente il nemo propheta in patria. Il Volo piace fuori perché restituisce, dell’Italia, l’immagine stereotipata che tutti amano e su cui sognano. Così come noi vogliamo, dell’Inghilterra, solo la regina: è il conforto del cliché – e intendo cliché sia in senso negativo sia in senso positivo. Eppure, persino i cliché si mescolano, si contaminano”.

 

La musica italiana sta benissimo, dice Pistolini: “Oggi il mercato discografico e perfino i talent show inseguono i ventenni”

La musica italiana, allora, sta bene? Stefano Pistolini è certo di sì: “Abbiamo superato la fase in cui era tutto sovrastrutturale e le produzioni transitavano nelle trasmissioni televisive. Oggi il mercato discografico e persino i talent show inseguono i ventenni, che hanno una forza creativa impressionante. Anastasio che grazie alla forza dei suoi inediti vince ‘X-Factor’, dove gareggiano interpreti di cover, è un passaggio interessante. In un certo senso ormai i concorrenti scavalcano il format e, a quel punto, è il format che li deve inseguire. Tutto si rimette in moto sulla forza di una ideazione naturale e originale. Che pubblico e artisti si riconnettano e si contaminino a vicenda rende tutto più divertente, cangiante e promettente. E, ovviamente, anche nazionale, come dimostrano le chart”. Come mai hanno così successo i giovani artisti italiani? “Perché sono organici al loro pubblico, gli appartengono completamente. C’è una contiguità e prossimità molto simile a quella che c’era tra i cantautori degli anni Settanta e Ottanta e i ragazzi che li ascoltavano”. Ha senso proporre delle quote in radio? “E’ un proposito del tutto fuori dal tempo. Astorico, si diceva un tempo. E incompetente”.

 

E’ fuori dal tempo anche credere che la musica si ascolti in radio. Dice Rocca: “Ogni venerdì mattina mi sveglio con il pensiero di guardare Apple Music, perché il venerdì escono i nuovi dischi. Seleziono le mie categorie preferite e scarico i dischi degli autori che già conosco o di quelli che hanno una copertina accattivante”. Ma così non incappa mai in un disco trap! E’ una

L’idea di Morelli non è inedita: venne già a Pavolini durante il fascismo. E qualcosa di simile venne proposto da Franceschini

terribile menomazione. “E meno male. Mi fido del mio algoritmo. E poi sono iscritto al Music americano, la trap italiana neanche mi arriva, spero che Morelli non lo scopra mai. Alla radio ascolto la rassegna stampa o qualche orrendo programma sportivo, quando torno a casa dopo le partite. Certo, tra lo Zoo di 105 e una buona canzone, preferisco una buona canzone. E la maggior parte delle volte che ne ascolto una è sempre italiana. Non si sono accorti di questo: la programmazione radiofonica italiana predilige già abbondantemente la musica nazionale”. E quando non c’era Apple Music? “Leggevo i giornali. La stampa generalista anglosassone è stata ed è ancora la migliore nel racconto di quello che esce e succede in musica”.

Imporrebbe cinque pezzi di Panella al giorno per sostenere la musica italiana? “Forse sarebbe meglio il Calcutta di ‘Frosinone’. E’ più localista”.

L’idea di Morelli, comunque, non è inedita: venne già a Pavolini durante il fascismo. E qualcosa di piuttosto simile venne proposto anche da Franceschini. In Francia, lo stato possiede tutte le frequenze ma, come ha detto Linus a Repubblica: “In Italia spendiamo tre quarti del nostro budget per restare in piedi”. Rocca: “Mai una volta che copiamo ai francesi le buone idee; imparassimo almeno a fare la tarte tatin”.

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