Nel nome del padre verde. I segreti del brand Greta

Giulio Meotti

Nessun complotto. Dietro Thunberg c’è la formidabile utopia svedese del millennio sostenibile. Think tank, imprese, élite. Borghesia e ingegneria sociale. Indagine sulla radice di un nuovo conformismo

“La nostra casa è in fiamme”, recita il già leggendario slogan con cui Greta Thunberg ha ipnotizzato l’opinione pubblica internazionale. Poco originale, per la verità. Goran Persson salì al potere in Svezia con i Socialdemocratici nel 1996 con lo slogan sulla “pubblica casa verde”. Poco originale anche lui, per la verità, in quanto l’espressione fu coniata dal suo predecessore durante la Seconda guerra mondiale. Per Albin Hansson, che immaginò la Svezia come una “casa ecologicamente sostenibile”, Gröna Folkhemmet, in cui tutti i membri della famiglia vivevano in uguaglianza e in solidarietà sotto la mano mite e ferma del padre, il welfare state. “Dobbiamo essere i primi in Europa a creare una società basata sui principi dell’ecologia”, annunciò Persson.

   

Greta è figlia di Olof Palme, che accusò l’America di “ecocidio”, l’occidente di “gravi colpe” e sancì l’inizio della “Svezia sostenibile”

La stella che annuncia la nascita del nuovo messia green non poteva che comparire nell’aurora boreale svedese, la “società del futuro”. Si deve risalire agli anni Settanta, quando il primo ministro Olof Palme (assassinato nel 1986) lavava i piatti della cena a fianco della moglie Lisbeth alla periferia di Stoccolma e annunciava che il capitalismo era una pecora ben pasciuta e che la socialdemocrazia doveva tosarla per il bene di tutti. Fu allora che il feroce pragmatismo svedese iniziò a dominare il progresso industriale, trovando in Palme l’uomo che “non ha paura dell’utopia”. I predecessori di Palme avevano sconfitto la miseria e offerto assistenza medica a tutti. A Palme spettava un nuovo compito: “Sostenibilità”. E ci è riuscito. La Svezia da anni è il “paese più sostenibile al mondo”, mentre Stoccolma è la “città più pulita d’Europa”.

  

In quegli anni apparve un romanzo, “Ecotopia”, a firma di Ernest Callenbach, in cui si raccontava questo nuovo modello di comunità, basata sulla conservazione delle risorse, l’inserimento della presenza umana dentro ai cicli naturali e un modello ecologico-coercitivo di comportamento individuale. C’è chi lo definì “una fusione di socialdemocrazia svedese, neutralità svizzera e cooperative jugoslave di lavoratori”. Così, cinque anni dopo la grande Estate dell’Amore, quattro dopo le manifestazioni del Maggio parigino e mentre la Guerra fredda era nel suo pieno, Palme ebbe una visione: imporre all’attenzione del mondo il tema verde (metà dell’energia svedese viene oggi dalle fonti rinnovabili).

   

Il 5 giugno 1972, nella capitale svedese, si tenne la prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente. “Una sola terra”, fu la parola d’ordine. Da allora, la Svezia è un pianeta che attraversa la storia su una propria orbita, diversa, ma destinata a collidere e a cambiare tutti gli altri, diventando la pietra filosofale della felicità ambientale. Erano gli anni in cui l’economista russo Gennadii Lisichkin, dalle bellissime pagine di Novy Mir, spiegava che “c’è più socialismo in Svezia che in Unione Sovietica. Al summit sul clima di Stoccolma da una parte ci fu un gruppo di scienziati preoccupati della crescita della popolazione, dell’inquinamento, delle risorse naturali, e dall’altra quella che oggi chiameremmo la “società civile”, gruppi di campagne ambientaliste a suon di marce, canzoni, dimostrazioni su tanti temi, dai diritti civili al vegetarismo. Greta ante litteram.

  

Palme invitò nella residenza ufficiale di campagna gli ecologisti che alla conferenza non riuscirono a farsi sentire. Sotto i tigli, lungo le rive d’un laghetto da idillio, fra abeti scuri e betulle, il primo ministro conversò per un intero pomeriggio con decine di scienziati, in gran parte americani, guidati dal contestatore Barry Commoner. “Come continuare il lavoro per salvare il mondo dalla catastrofe?”, chiedeva loro Palme. L’ambientalismo svedese prese vigore in quel mito di benessere sociale la cui regia era affidata alla collettività, mai all’individuo. E soprattutto mai all’occidente.

 

Nel 1973, Palme disse: “La colpa della civiltà occidentale è grande”. Tre anni dopo il summit sul clima, la Svezia divenne il primo paese al mondo ad aver dato a tutti i suoi neonati un ambiente fisico ottimale, e uguale. A partire dal 1976, le statistiche non hanno più mostrato alcuna differenza nella statura dei bambini svedesi in relazione alle differenze di classe sociale. Al congresso della gioventù socialdemocratica, Palme denunciò gli Stati Uniti per la sua politica di “ecocidio”, coniando un altro termine oggi così popolare. Tra le fondazioni più attive sulla sostenibilità c’è oggi quella che porta il nome dell’allora ex segretario dell’Onu, lo svedese Dag Hammarskjöld. L’attuale premier svedese, Stefan Löfven, ha annunciato che il suo paese lavora per diventare “il primo welfare state senza combustibili fossili al mondo”. Sui portali governativi svedesi appaiono slogan come “costruire un futuro sostenibile”.

  

 

Un mese fa, sul giornale Aftonbladet svedese, è apparso un manifesto. “Movimento per il clima: chiediamo sostegno sindacale il 27 settembre”. “Rappresentiamo organizzazioni con una lunga esperienza nel dibattito ambientale svedese. Condividiamo la disperazione dei giovani. Il movimento sindacale svedese ha una storia orgogliosa nel contribuire a un mondo migliore. L’abolizione dell’apartheid in Sudafrica e la dittatura di Pinochet in Cile è stata facilitata dall’impegno dei sindacati”. Ora i sindacati devono sostenere l’ecologismo. A firmare l’appello, Karin Sundby (presidente di Climate Day), Pia Björstrand (portavoce di Climate Action), Mikael Sundström (presidente di Friends of the Earth), Parul Sharma (a capo di Greenpeace Svezia), Ingmar Rentzhog (a capo di We don’t have time), Mattias Goldmann (a capo del think tank Fores) e Tove Ahlström (a capo di Global Challenge). Qui si comincia già un po’ a capire come sia nata Greta e il suo brand messianico. “Greta è la nuova Che Guevara?”, ha chiesto la presentatrice tedesca Maybrit Ilner.

  

Il think tank che sostiene Greta e Kristina Persson, “ministro del Futuro” per “controllare come si progetta e si ripensa la vita”

Chi c’è dietro? E’ la domanda che ricorre più frequentemente. Non si contano le teorie del complotto. La massoneria, il capitalismo verde, i poteri forti, una cabala finanziaria. Nulla di tutto questo. Come dimostra quell’appello, dietro al brand Greta c’è un mondo di grandi borghesi che hanno in mano le industrie svedesi, di lobbisti della trasparenza, di accademici, di esperti della comunicazione e di attivisti green che hanno fatto della Svezia la pioniera mondiale dell’ecologismo. Justin Rowlatt, collaboratore della Bbc dall’India per i temi dell’ambiente, ha scritto questa estate sul Times: “Il fenomeno Greta coinvolge la lobby dell’energia verde, i professionisti della pubblicità e della comunicazione, alcune élite del movimento ecologista, e il think tank di un ex ministro socialdemocratico svedese che finanziano alcune tra le principali imprese di energie del paese”.

  

Persone come Ingmar Rentzhog, presidente del think tank svedese Global utmaning (Sfida globale), fondato e finanziato dall’ex ministro socialdemocratico svedese Kristina Persson, e animatore della piattaforma informatica “We don’t have time”, il grande strumento di pressione sull’opinione pubblica internazionale che ha lanciato Greta.

  

Kristina Persson, ministro dal 2014 al 2016, è una figura molto interessante. E’ stata vicegovernatore della Banca di Svezia e da “ministro del Futuro” ha annunciato l’ambizione svedese di diventare il primo paese al mondo fossil-free. Nel ricevere l’Ethic Award, Persson ha detto: “In Svezia si pagano tante tasse? Io sono orgogliosa di pagarle perché abbiamo una buona governance”. In qualità di ministro del Futuro, Persson disse che il suo obiettivo era “controllare come si progetta e ripensa la vita, come si resta o si diventa insieme sempre più moderni e solidali”. Rentzhog ha fondato la società di investimenti Laika Consulting, mentre l’amministratore delegato della sua piattaforma informatica We don’t have time, David Olsson, ha messo su uno dei più grandi fondi immobiliari svedesi, lo Svenska Bostadsfonden. Importante è il ruolo dell’attivista ambientalista svedese Bo Thorén, fondatore di Fossil Free Dalsland, un movimento ambientalista schierato contro l’uso dei fossili. L’ufficio stampa dell’icona ambientalista svedese è gestito da Daniel Donner, responsabile della lobby European Climate Foundation con sede a Bruxelles, sostenuta secondo il Times “da grandi imprese e società finanziarie”.

 

Del brand Greta si è occupato anche il mensile inglese Standpoint. “Greta Thunberg è solo una normale studentessa svedese di sedici anni le cui visioni hanno convinto i parlamenti di Gran Bretagna e Irlanda a dichiarare una ‘emergenza climatica’” scrive Dominic Green. “I genitori di Greta, l’attore Svante Thunberg e la cantante lirica Malena Ernman, sono solo una coppia normale di genitori-manager che vogliono salvare il pianeta. Ma il fenomeno Greta ha coinvolto anche lobbisti verdi, esperti delle pubbliche relazioni, eco-accademici e un gruppo di riflessione fondato da un ricco ex ministro del governo socialdemocratico svedese con collegamenti con le società energetiche del paese. Queste aziende si stanno preparando per la più grande manna di contratti governativi nella storia: l’inverdimento delle economie occidentali. Greta, che lei e i suoi genitori lo sappiano o no, è il volto della loro strategia politica”.

  

“We Don’t Have Time” è sostenuto da Gustav Stenbeck, la cui famiglia controlla Kinnevik, una delle più grandi corporation svedesi. Ci sono anche i nomi di Petter Skogar, a capo della Kfo, la più grande associazione di dipendenti del paese; Johan Lindholm, portavoce dell’Unione dei costruttori e nel board dei Socialdemocratici; Anders Wijkman, presidente del Club di Roma; Catherina Nystedt Ringborg, già amministratrice delegata della Swedish Water e vicepresidente del gigante energetico Abb.

  

Wijkman guida il Club di Roma. Il loro allarmante rapporto del 1972, “A Limit to Growth?”, è diventato una pietra angolare della campagna di “emergenza climatica”. Di questo apparato dietro Greta si è occupato anche un grande settimanale come il tedesco Spiegel. “Per i suoi discorsi, chiede consigli ai ricercatori sul clima Kevin Anderson del Tyndall Center for Climate Change Research di Manchester, e Glen Peters, direttore della ricerca del Centro Cicero di Oslo per la ricerca sul clima”.

  

Dal design democratico di Ikea alla “città giardino” di Erskine, la Svezia è tutta proiettata verso il futuro sostenibile

Il modello da perseguire è Hammarby, sustainable city, la città della sostenibilità: gli scarichi delle case diventano biogas, i rifiuti sono aspirati e riciclati, mentre pannelli solari fanno gran parte del lavoro. Il primo green data center di cui Mark Zuckerberg va orgoglioso si trova a Luleå, in Svezia. E la svedese Ikea, il più grande gruppo di mobili del mondo oltre che utopia del design democratico-sostenibile, sta puntando su un business “People and Planet Positive”.

   

“Nel XIX secolo, il paese passò dal razionalismo dell’Illuminismo all’emozionismo del movimento romantico importato dalla Germania” scrive David Howard Davis nel libro “Comparing Environmental Policies in 16 Countries”. “Pittura e poesia glorificavano la natura, la campagna e i contadini. Anche la scienza è fiorita con l’esplorazione delle regioni polari. Nel 1895 il chimico Svante Arrhenius scoprì l’effetto serra e ne calcolò l’impatto. Nel 1903 il regno svedese approvò una legge sulla foresta basata sulla sostenibilità”. Quando ci fu l’incidente nucleare a Chernobyl a scoprire le radiazioni furono i ricercatori svedesi della centrale nucleare svedese di Forsmark. Resta ancora forte lo choc della nube tossica che nel 1986 arrivò sulla Svezia dall’Ucraina, colpendola più di ogni altri paese occidentale.

   

 

È svedese il primo parco nazionale al mondo (1909) e l’albero più antico al mondo, Tjikko (9,550 anni). Più della metà della Svezia – pari alle dimensioni del Regno Unito – è oggi coperta da foreste. E quest’area sta crescendo grazie a politiche protettive secondo cui il tasso di crescita deve superare il tasso di abbattimento. Oggi le foreste forniscono il dieci percento dell’occupazione svedese. A livello individuale, gli svedesi credono nella allemansratt, secondo cui tutti gli esseri umani hanno il diritto di accedere alla natura, il che significa che chiunque può fare escursioni nella campagna senza preoccuparsi troppo della proprietà privata. Le persone possono persino accamparsi su una proprietà privata per una notte. Viene dalla Svezia Ralph Erskine, l’architetto dell’utopia della “città giardino”. Tutto risponde a una ideologia precisa e che in svedese si dice folkhemmet, la casa di tutto il popolo (di nuovo echi gretiani), e in questa ideologia tutto si tiene, l’ambientalismo dirigista, un settore pubblico abnorme, alte tasse che finanziano un welfare modello, lo stato etico e il consenso asfissiante. Gli scritti politici di Elin Wagner (1882-1949), scrittrice e membro della Royal Swedish Academy, hanno fatto la storia dell’ambientalismo svedese, unendolo anche al femminismo e al pacifismo, fortissimi in Svezia. “Essere verde è diventato un modo per abbracciare un nuovo futuro” spiega Dominic Hinde nel libro “A utopia like any other”.

  

Secondo Carl Reinhold Brakenhielm dell’Università di Uppsala, in Svezia l’ecologismo è diventato una “religione civile”, proprio in un paese che da anni ha visto scomparire ogni traccia del cristianesimo dalla vita pubblica. Robyn Eckersley, teorico di spicco della sostenibilità, ritiene che la Svezia sarà il primo “stato verde” al mondo. O come ha scritto Paul Berman in “Power and the idealists”, “una nuova metafisica ecologica con la sua visione catastrofica del capitalismo e il sogno di una nuova utopia ambientale. Invece del culto della fabbrica, il culto della foresta. Invece della guerra di classe, la lotta ecologica. Invece del millennio socialista, il millennio ecologista. Invece del colore rosso, il colore verde”.

  

Ma per costruire un messia serve che gli eretici, il dissenso, il minimo scetticismo, siano messi a tacere. E’ il lato oscuro della Svezia, come lo ha raccontato Kajsa Norman nel suo libro appena uiscito “Sweden’s dark soul”. “I primi tentativi consapevoli di forgiare il conformismo avvennero negli anni Trenta” dice Norman al Foglio. “La Svezia era ancora un paese molto povero. La nuova leadership si proponeva di portare milioni di persone fuori dalla povertà e mettere insieme politiche sociali necessarie per plasmare il nuovo svedese moderno. Gunnar e Alva Myrdal, i più importanti ingegneri sociali della Svezia, hanno influenzato molte delle nuove politiche. Le statistiche hanno deciso che cosa doveva essere risolto e fu determinato ‘il modo giusto’ per fare le cose, fino ai dettagli di quanto spesso arieggiare la tua casa o come decorare lo spazio abitativo. L’idea era che le persone dovessero abituarsi a ‘lavarsi i denti e mangiare i pomodori’. Ma c’erano anche aspetti più sinistri dell’ingegneria sociale, come gli sforzi per eliminare l’inferiorità fisica e psicologica all’interno della popolazione. I Myrdal si riferivano alla ‘feccia della società’. Sono state introdotte leggi che hanno consentito la sterilizzazione, non solo dei malati fisici, ma anche delle persone ritenute antisociali o deboli”.

  

Tra il 1935 e il 1975, oltre 60 mila persone furono sterilizzate in Svezia con vari gradi di coercizione. “Negli anni ‘60, la televisione controllata dallo stato assunse il compito precedentemente svolto dagli ingegneri sociali di razionalizzare le opinioni e le abitudini. I video didattici hanno insegnato ai cittadini il modo giusto di fare le cose, come la routine mattutina. Olof Palme fu nominato ministro delle Comunicazioni nel 1965, responsabile delle politiche radiofoniche e televisive e quando divenne ministro della Pubblica istruzione nel 1967, portò con sé la responsabilità della radio e della televisione. Sembrava naturale che la tv dovesse educare le persone a trasmettere le opinioni corrette”.

  

Oggi sembra che la società sia basata su un consenso assoluto. “In Svezia esiste solo una verità ‘oggettiva’, una sola risposta ‘giusta’ a qualsiasi domanda. Questo atteggiamento serve a bandire l’opposizione. Ogni errore va messo a tacere. Il critico diventa un eretico e va neutralizzato o evitato. Esiste un ampio elenco di principi che non possono essere messi in discussione”.

  

“E’ la ‘unimind’, la coscienza collettiva svedese, il controllo sociale per indottrinare chiunque” ci dice Kajsa Norman

Una forma di autoritarismo liberal democratico? “Si potrebbe chiamarlo così” conclude Norman al Foglio. “Anche se la Svezia vanta la stampa libera più antica al mondo, la sua storia di omogeneità e ingegneria sociale ha creato una cultura in cui pochi osano dissentire e coloro che lo fanno sono ostracizzati. Tuttavia, molti svedesi non si rendono nemmeno conto di quanto sia limitata la loro visione del mondo in quanto questo è ciò per cui sono stati portati a credere che sia la strada giusta. Nel mio libro lo chiamo unimind, la coscienza collettiva svedese, il nostro meccanismo chiave di controllo sociale indottrinato in chiunque sia cresciuto in Svezia. Ci consente di sapere cosa è giusto pensare, dire o fare in una determinata situazione; giudicare gli altri e punirsi a vicenda per devianza attraverso la stigmatizzazione, l’ostracizzazione sociale ed economica. Gli svedesi tendono a pensare a se stessi come un modello per altre nazioni, spesso senza realizzare che i valori culturali della Svezia sono piuttosto estremi rispetto al resto del mondo”.

   

Per realizzare questa grande visione si impiegano tattiche di populismo estremo, come l’uso dei bambini e si favorisce una uniformità anonima degna di Zamjiatin, il condizionamento sociale e facendo sì che l’individualismo appassisca nel conformismo. Greta è il messia che annuncia l’ecotopia. C’è un prezzo da pagare: la perdita della libertà. Ma lo faremo tenendoci per mano come una sola grande famiglia, alla svedese.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.