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Il divario tra città e provincia è la causa del populismo. I liberal prendano nota

Le zone rurali dimenticate da tutti votano per i partiti estremisti ma l’establishment lo ha capito troppo tardi 

"Nel 2014 il giornale Hill ha classificato il Minnesota al secondo posto tra gli stati americani più liberal”, scrivono Roberto Stefan Foa e Jonathan Wilmot: “Per decenni i cittadini del Minnesota hanno sostenuto i candidati democratici sia al Congresso sia alla presidenza”. Tuttavia, nel 2016 è successo qualcosa di imprevisto: Donald Trump ha guadagnato moltissimi consensi nello stato, ed è arrivato dietro Hillary Clinton per soli 45 mila voti che provenivano per la gran parte da Minneapolis, la città più grande del Minnesota. I risultati elettorali del 2016 mostrano che l’America progressista è un arcipelago di città sparpagliate lungo la costa est e ovest. Il divario tra la città cosmopolita e la periferia economica è diventato la nuova divisione sociale in occidente. Il luogo in cui si vive determina sempre di più i propri valori e genera un senso di appartenenza tribale. Questo fenomeno si è verificato in Gran Bretagna nel referendum sulla Brexit del 2016 e in Francia con l’elezione di Emmanuel Macron nel 2017, grazie ai voti conquistati nelle città benestanti come Parigi, Lione e Tolosa.

 

I cambiamenti nell’economia globale hanno diviso gli elettori tra chi è progressista, liberal e aperto alle sfide del futuro e chi invece teme che la propria identità e condizione economica oggi sia in pericolo più che mai. La differenza nei valori tra questi due gruppi è sempre esistita, e quindi non basta a spiegare l’ascesa dei populisti negli ultimi anni. La chiave per capire questo fenomeno è il divario economico tra la città e la provincia, che si è acuito a partire dagli anni Ottanta. In Gran Bretagna il valore immobiliare della propria casa è stata la variabile più importante nella scelta degli elettori tra il leave e il remain. I seggi europeisti sono concentrati a Londra e dintorni, mentre le constituencies anti Ue ricoprono quasi tutto il resto del paese. Nuovi dati dell’Ocse mostrano che le regioni della Francia che hanno votato per Emmanuel Macron, a differenza di quelle che hanno votato per Marine Le Pen, corrispondono alle aree che più si sono sviluppate dopo l’introduzione dell’euro.

 

Dietro la retorica populista c’è un sentimento più profondo: il risentimento. Ragionando sulla base delle disparità territoriali è più facile capire perché il populismo sia arrivato proprio in questa fase storica. La crisi del 2008 non ha avuto un grande impatto sulle capitali finanziarie come Londra, Amsterdam e New York ma ha gravemente danneggiato le ex regioni industriali schiacciate dall’austerity. Questa è una tendenza che si è verificata in tutti i maggiori paesi europei: le città continuano a crescere mentre le province vengono lasciate sempre più indietro. E i governi hanno le loro colpe, avendo ignorato per molto tempo le istanze di chi vive lontano dalla città e concentrando le proprie risorse nei centri urbani. Dal 2008 al 2016 gli investimenti del governo americano come proporzione del pil sono scesi ai minimi storici, riducendo le risorse destinate ai grandi progetti infrastrutturali. Quando Donald Trump ha promesso di tagliare i fondi per le missioni all’estero e aumentare le risorse per le comunità locali, che hanno le strade dissestate e i ponti che cadono a pezzi, ha trovato un grande sostegno anche tra gli elettori democratici. Lo stesso è avvenuto in Inghilterra dove le politiche di austerity di David Cameron hanno alimentato la rabbia e il risentimento delle comunità locali, che si è manifestato nella volontà di uscire dall’Unione europea. Il fronte del leave ha unito gli elettori conservatori rurali e la working class laburista nelle ex zone industriali del nord.

 

Nell’Europa continentale è stata la crisi dell’Eurozona, con i tagli al bilancio che essa ha comportato, ad aumentare le disparità tra le città e le comunità rurali. I governi hanno a disposizione gli strumenti per risolvere questo problema, e in alcuni casi ci sono riusciti. Il divario tra Budapest e il resto dell’Ungheria è diminuito negli ultimi dieci anni anche grazie alle politiche di Orbán, che si è concentrato sulle zone rurali a costo di trascurare le grandi città. Il premier ungherese si è reso conto che, malgrado la grande ricchezza della capitale, i voti da guadagnare tra i disoccupati, i poveri e i rancorosi nelle aree periferiche sono molti di più. Finché non verranno risolte queste disparità territoriali, i populisti continueranno a esistere e ad avere un consenso ampio. Purtroppo molti liberal americani si sono rifiutati di affrontare le cause del populismo e hanno preferito negare l’esistenza del problema, dando la colpa alle interferenze dei russi o a “quell’ammasso di deplorabili”, per usare le parole di Hillary Clinton. Tuttavia, ci sono segni di un approccio più maturo da parte di alcuni esponenti dell’establishment che tentano di disarmare le cause della rabbia. Boris Johnson – un membro dell’élite travestito da populista – ha reso lo sviluppo delle infrastrutture e delle aree locali una delle priorità del suo programma, sostenendo un progetto ferroviario per collegare le città del nord. Lo stesso è avvenuto in Francia dove Emmanuel Macron ha fatto marcia indietro dopo aver promesso di introdurre una tassa sul carburante, che avrebbe avuto un impatto enorme sugli elettori a basso reddito nelle aree rurali. L’America ha bisogno di un nuovo progetto di investimenti pubblici per integrare i cittadini dimenticati e dare un sollievo alle regioni dell’entroterra. “Per disinnescare la minaccia populista i progressisti devono costruire ponti, sia reali che metaforici – conclude Foreign Policy – Altrimenti, come mostra la mappa elettorale, continueranno a vivere in un’isola di prosperità mentre la marea della rabbia populista continua a salire”.

 

(Traduzione di Gregorio Sorgi)

* Questo pubblicato il 18 settembre dall’Atlantic 

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