I profeti del klima e della decrescita, felice per pochi
Belle l’emozione e la generosità dei ragazzini che pensano di poter salvare il mondo. Ma occorre dubitare sempre dei serpentoni troppo colorati e sopra tutto dell’adulazione di cui sono oggetto
Nella nevrosi generale dell’informazione, abbiamo festeggiato la crociata dei bambini con la rincorsa dell’adulazione. In un attimo siamo passati dall’evocazione dei “dimenticati”, dei ceti medi rovinati dagli oppiacei, del populismo hillbilly a base nazionale e locale, dritti dritti al globalismo estremo della salvezza terrestre, con i piccoli della società del benessere che fanno la lezione ai grandi a colpi di scioperi legalizzati e promossi dai grandi, fissano il traguardo diretto dell’utopia salvifica universale. Mi compiaccio, pur appartenendo al “nucleo duro negazionista” denunciato da Guido Viale nel Manifesto. Non so se il mio negazionismo sia di destra, so che è di destra la base culturale dell’ambientalismo apocalittico e infantile. In sostanza, mi pare che il fulcro della critica sia rivolto al progresso, la paura è quella della crescita e dell’emancipazione da povertà e fame di grandi masse il cui livello di vita e di sviluppo sociale è incompatibile con il sogno di preservazione e conservazione della terra e del mare. Anche il numero chiuso demografico, a clima di merda procreazione di merda, non mi sembra proprio un’invenzione libertaria.
I lavoratori nell’ideologia del “Nuovo Sessantotto” devono smettere di lavorare ai tunnel, alle strade e autostrade, ai ponti e altre fonti di emissioni nocive. Il segreto dello sviluppo come lo conosciamo, cioè la produzione di energia, si converte nel doverismo della decrescita felice. Bisogna andare a piedi, avere vergogna del volo in aereo, smettere di assumere proteine animali, sono cose che si possono permettere i piccoli sorcini-bambini sedotti dal pifferaio di Hamelin e la famiglia Casiraghi, naturalmente con sponsor, non certo le classi e i popoli dimenticati da Dio, dalla crisi, dalla finanza e dagli uomini. Un nuovo paradigma al giorno leva il medico di torno. E’ il momento di realizzare in movimento, nel fulcro di una mobilitazione che si vorrebbe politica ma non vota e non sa per chi votare, il precetto di cultura sociale del ceto medio e dell’aristocrazia inglese: non si parli se non dei pet e del clima. Fa caldo? No, fa fresco. Ma il fresco dipende dal caldo. In arrivo incendi e cicloni, la nostra casa brucia, speriamo nelle inondazioni.
Confusione, babele, estremo tratto di sicurezza culturale, unanimismo e pensiero unico dominante, slogan facilissimi, scarico del barile sulle generazioni precedenti che ci hanno rubato i sogni e ci mettono in pericolo, locupletati come siamo di colazione al sacco, pranzo, cena, tempo pieno, shopping, discoteca e telefonino, mentre la casa va a fuoco e non si sa nemmeno come chiamare i pompieri. Ricordarsi di dubitare sempre quando si dice: siamo un milione, due milioni, tre milioni, venti milioni, siamo ovunque, siamo il nuovo, siamo la speranza, siamo furiosi, invincibili, nessuno può fermarci. Dubitare dei serpentoni troppo colorati, dell’inclinazione alla bella immagine, alla sfilata. Dubitare sopra tutto dell’adulazione di cui siamo oggetto: perché lassù qualcuno ci ama così teneramente, perché non si allarmano visto che l’autorità messa in questione è anche la loro, perché vezzeggiano la sinuosa bestiolina che procede a sciame per le vie del mondo allo scopo di salvarlo? Poi, che siano emozionati e generosi, i ragazzini, a immaginare che si possa fare qualcosa per il mondo, addirittura salvarlo, bè, questo certamente è bello. Ci arriviamo anche noi negazionisti, quelli del nucleo duro.