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Il romanzo del Pd in panne che va a congresso

Marianna Rizzini

Si leva il sipario sul primo congresso del partito dell’èra gialloverde. I consigli dei fondatori superstiti Fassino, Parisi, Sereni, Lanzillotta, Fioroni e Salvati

Roma, esterno notte: dal Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, escono alla spicciolata dirigenti e non del Pd in fase precongressuale. Escono, tra gli altri, senza fermarsi a lungo, Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio e candidato alla segreteria; Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e quasi candidato alla segreteria; Carlo Calenda, ex ministro dello Sviluppo e promotore di un’“alleanza repubblicana” di resistenza ai tempi populisti; Maurizio Martina, ex reggente e quasi candidato alla segreteria; Andrea Orlando, già ministro della Giustizia e capo della minoranza interna; Walter Veltroni, ex sindaco di Roma ed ex segretario-fondatore del Pd nonché relatore all’evento per cui si sta assiepati di fronte al piccolo ponte levatoio all’ingresso del Tempio.

 

Un libro per ogni dirigente e una domanda: da dove si riparte? L’immigrazione, la sicurezza e gli elettori che “non si sono sentiti protetti”. E il dubbio esistenziale “ma che animale è il Pd?”

 

Si presenta infatti “La sfida impopulista”, libro di Paolo Gentiloni, ex premier e uomo che nel Pd molti vorrebbero premier in futuro, e lo si presenta nel giorno in cui in Senato ci si comincia ad accapigliare sul decreto Genova (“per questo Matteo Renzi non c’è”, spiegano alcuni renziani). Esce anche Anna Finocchiaro, ex ministro nei governi Prodi e Gentiloni e storica presidente dei senatori pd, e per un attimo la gran quantità di figure di peso crea l’illusione di una ritrovata unità. Ma un flashback ingarbuglia la fotografia: anche una settimana prima, alla presentazione di “Sicurezza è Libertà”, libro di Marco Minniti, Gentiloni c’era, come Veltroni e Calenda, e però c’era pure Massimo D’Alema, il transfuga con cui (non dall’area Minniti) si vorrebbe tornare a dialogare, nel sogno e nel segno di una reunion con lui e con l’altro fuggitivo Pier Luigi Bersani. E libro per libro, giorno dopo giorno, ci si rende conto che, rispetto agli originari 45 fondatori del Pd, i superstiti sono pochi: se ne sono andati, oltre ai suddetti D’Alema e Bersani, tra gli altri, Sergio Cofferati, Marco Follini, Ottaviano Del Turco, Vasco Errani; si è allontanato per disaccordo sulle politiche in tema d’immigrazione Gad Lerner. E si sono messi per così dire in cima alla turris eburnea il padre dell’Ulivo ed ex premier Romano Prodi e l’ex premier Enrico Letta (anche detti “promotori senza tessera”). E così, nella notte di Piazza di Pietra, nel luogo dove Silvio Berlusconi consacrò il Pdl (“che coincidenza”, scherza un anziano cronista), prende forma l’ansia-speranza democratica di non buttare via il partito sconfitto. Ma il punto è: come?

 

   

Nicola Zingaretti, candidato alla segreteria del pd (foto LaPresse)

 

Piero Fassino, che il libro l’ha scritto un anno fa (“Pd davvero”, con seconda edizione e prefazione aggiornata al post-elezioni del 4 marzo), parte da un assunto: “Tutte le ragioni per cui abbiamo fatto il Pd undici anni fa non soltanto restano valide, ma mi sembrano addirittura più valide. Undici anni fa, per esempio, in un quadro europeo di rinnovamento radicale della sinistra, la nostra idea poteva essere vista come una presunzione. Ma oggi, se guardo allo stato di difficoltà in cui versano tutti i partiti riformisti e socialisti in Europa, la motivazione apparentemente avanguardista che ci ha portati alla creazione del Pd mi pare del tutto fondata: era ed è necessaria una grande forza che, unendo diverse culture riformiste, guidi una fase di modernizzazione che possa far uscire il paese dalle sue debolezze strutturali. E negli anni in cui siamo stati al governo abbiamo messo in pratica questo progetto. Tanto più oggi quella forza serve come argine alla deriva cui l’Italia è esposta con il governo grilloleghista”.

 

 

Anche l'ex ministro Marco Minniti ha sciolto la riserva e si è candidato alla guida del partito (foto LaPresse)

 

Quelli che vorrebbero la reunion
con D’Alema e quelli che parlano
di come intercettare i trentamila
in piazza a Torino

Da mesi, però, il Pd è sotto attacco di dirigenti, militanti, ex alleati: “Non credo sia da mettere in discussione il Pd, ma il Pd deve misurarsi con l’Italia di oggi e con la lezione del 4 marzo, e prima di tutto con una domanda di tutela insoddisfatta”. Tutela dalla crisi? “Dieci anni di crisi”, dice Fassino, “hanno prodotto ferite sociali. Le persone, a torto o a ragione, non si sono sentite sufficientemente protette. Solo che noi siamo abituati alla protezione in una società chiusa. Chiediamoci che cosa significhi, oggi, ridefinire una politica di protezione sociale e tutela in una società aperta. E’ un nodo per tutta la sinistra europea. E ricordiamoci che cosa ha detto Donald Trump la sera della vittoria: ringrazio prima di tutto il ‘forgotten man’, l’uomo dimenticato”.

 

Il voto, per Fassino, “ci ha consegnato la fotografia di una frattura democratica più larga della frattura sociale, con smottamento forte verso Lega e Cinque Stelle. Un pezzo significativo dello strato sociale più colpito dalla crisi non si è sentito riconosciuto”. Ora, però, sembra di assistere a un parziale risveglio civico: piazze a Roma, piazze a Torino. “La domanda è: come intercettare i trentamila di Torino? Come ricomporre la frattura di fiducia e di credibilità nei confronti dei partiti tradizionali?”. Intanto si producono altre fratture, vedi in tema di immigrazione: “Non possiamo, noi, con i nostri valori, dire, come fa Matteo Salvini, ‘prima gli italiani’. Però c’è un punto che abbiamo sottovalutato: molti italiani vivono l’immigrazione come rischio. Dobbiamo allora gestire l’integrazione in modo da evitare la conflittualità, in modo cioè che il cittadino italiano non pensi che venga tolto qualcosa a lui”.

 

 

Maurizio Martina non ha ancora annunciato la propria scelta, ma in molti credono che si candiderà (foto LaPresse)

 

Per Fassino “bisogna domandarsi che cosa genera la percezione di insicurezza: una larga parte dell’opinione pubblica ha introiettato l’idea che non ci sia certezza della pena. Discutiamone al congresso, non parliamo solo di chi sarà il segretario”. Forse però non si riuscirà a non discutere di questo: con chi si stringerà alleanza in futuro? “Oggi dobbiamo fare bene opposizione, per far emergere le contraddizioni di questo governo. Non c’è margine per altro”, dice Fassino. “Ma a lungo termine possiamo ragionare su un tema: partendo dal 18 per cento, e dal fatto che non esiste più un centro politico, come facciamo a lanciare una sfida efficace? Una soluzione potrebbe essere il cambio della legge elettorale, in direzione del doppio turno alla francese. Detto questo, teniamo presente che il Pd è nato e cresciuto in un contesto di crisi economica, e di crisi della democrazia rappresentativa e dei corpi intermedi. Anche per questo abbiamo perso. Non per Matteo Renzi, come dicono i nemici di Renzi, né per il fuoco amico, come dicono alcuni renziani”.

 

 

L'ex ministro Cesare Damiano figura già tra i candidati alla segreteria (foto LaPresse)

  

Allo scenario in cui la crisi del Pd è nata guarda anche Linda Lanzillotta, già ministro, e co-fondatrice del partito da cui si è allontanata per poi tornare: “A me pare che tutti i progressisti d’Europa siano in crisi d’identità, ma non soltanto a livello di forma partito. Il Pd non ha risposto alle attese della società, ma ora il problema è il progetto. Il paese versa in condizioni preoccupanti. E siccome questa fase non sarà breve, dobbiamo avere uno sguardo lungo sulle questioni che riguardano la realtà di oggi, elaborare risposte alle domande poste dalla globalizzazione in tema di welfare, rischio ambientale, rischio digitale, redistribuzione della ricchezza. Non possiamo far precipitare tutto nel day by day. La traversata sarà lunga ma non dobbiamo piangerci addosso. Lavoriamo anche a livello europeo e atlantico a un’agenda alternativa, nella consapevolezza che l’agenda di questo governo presto si rivelerà superata”.

 

 

Anche Francesco Boccia ha già annunciato la propria discesa in campo (foto LaPresse) 

 

Di libro in libro, si arriva al libro di Beppe Fioroni, altro cofondatore pd superstite (lato ex Partito Popolare), già ministro. Si chiama “Elogio dei liberi e forti” (presentazione il 29 novembre), è scritto con Lucio D’Ubaldo e nel titolo fa riferimento all’appello ai “liberi e forti” di don Luigi Sturzo. Dice Fioroni, sostenitore dichiarato di Marco Minniti, di cui auspica la candidatura, che il congresso Pd dovrebbe andare oltre la visione disperante dell’oggi: “Ricordo ai democratici quello che diceva Aldo Moro: ‘Se fosse possibile dire saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità…Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà’. E allora è nostra responsabilità vivere oggi la fase congressuale con un dibattito all’altezza delle scelte che abbiamo di fronte. Un leader forte è condizione necessaria ma non sufficiente. Dobbiamo ricostruire una cultura e un pensiero, un’alternativa al degrado politico. In Italia c’è voglia di politica alta. Me ne sono accorto organizzando iniziative su Moro: le sale erano piene. E anche in quadro Ue dobbiamo costruire un’alternativa vera al populismo, all’interno di una nuova famiglia europea, alleandoci con chi è in grado di condividere l’idea di Stati Uniti d’Europa”. Di nuovo ci si domanda: come? ” Cento anni fa”, dice Fioroni, “Sturzo parlava di convergenza tra conservazione e progresso. Il Pd aveva fatto lo sforzo di farli convergere, nel 2007. Riproviamo. C’è un’Italia bella e diversa – non raccontata – a cui rivolgerci. Però non possiamo pensare, e guardo a Nicola Zingaretti, che si possa riportare al voto l’elettore moderato riunendosi con D’Alema e Bersani”.

 

Una sera con Gentiloni e Veltroni. Una sera con Minniti e Calenda.
E i giorni in cui smettere di essere “un Pd da Ztl”

Endorsement per Zingaretti arriva invece da Marina Sereni che, dopo aver tenuto a battesimo il Pd, ne è stata vicepresidente (oltre ad essere stata vicepresidente della Camera). Parlando di prospettive ed errori, Sereni individua due punti di partenza: “Il primo riguarda una difficoltà di tutte le forze progressiste e democratiche in Europa e nel mondo. La velocità delle trasformazioni prodotte dalla globalizzazione, l’aumento delle diseguaglianze all’interno dei paesi sviluppati, l’impoverimento dei ceti medi, l’incertezza connessa alla rivoluzione tecnologica. Tutti questi fenomeni chiedono alla sinistra riformista e alle forze democratiche un pensiero nuovo, la capacità di innovare valori, proposte, classi dirigenti, tornando a interpretare la domanda di cambiamento e di protezione che in molti casi si è rivolta alle forze della destra populista e nazionalista. Il secondo punto riguarda di più noi, il Pd e l’Italia. Siamo di fronte a un governo pericoloso, dobbiamo esprimere un’opposizione netta ed efficace su ogni terreno. E organizzare un’alternativa credibile, tornare a unire forze sociali, culturali, civiche che non condividono le scelte di questo esecutivo gialloverde. C’è un risveglio nella società italiana, si cominciano a vedere le crepe di questa alleanza innaturale e disastrosa per il Paese, la disillusione aumenterà. E noi dobbiamo farci trovare pronti, riorganizzando un campo largo, non una somma di partiti. Penso a movimenti, associazioni, imprenditori, mondo del lavoro, intellettuali, liste civiche”.

 

C’è una storia del Pd che pesa, in positivo e in negativo. “Abbiamo fatto nascere il Pd con le primarie”, dice Sereni, “immaginando un partito capace di aprirsi alla società e di innervare la sua azione politica attraverso la partecipazione diretta dei cittadini-elettori. Questa scommessa si è via via persa. Soprattutto negli ultimi anni, è prevalsa l’idea che fosse sufficiente avere una leadership forte. Sono convinta per questo che uno dei temi del prossimo congresso debba essere proprio l’idea di partito: come possiamo tornare ad essere ‘tra la gente’ in modo organizzato e aperto, unendo presenza sul territorio e presenza nella rete. E di fronte ad uno scenario politico molto cambiato rispetto al 2008, credo sia giusto interrogarsi se dobbiamo essere un partito che si allea con altri partiti oppure se non si debba sperimentare una forma di partito-coalizione o partito federato in cui ci si può stare come individui ma anche come gruppi, associazioni, liste civiche. Ecco, mi piacerebbe che il prossimo segretario potesse aprire su questo una riflessione, anche guardando alla composizione delle prossime liste per le Europee”. Nell’epoca della personalizzazione della politica, Sereni vede segnali in controtendenza: “La popolarità di Paolo Gentiloni dopo la forte personalità di Renzi sembra indicare una forte simpatia per leader meno irruenti, più riflessivi. Oppure pensiamo alle figure emergenti, molte tra l’altro femminili, tra i Verdi tedeschi o i Democratici americani. Radicali, giovani, ma molto distanti dall’immaginario del leader forte e solitario”.

 

   

Matteo Richetti, candidato alla segreteria del pd (foto LaPresse)

 

Il “chi siamo, dove andiamo” finisce inevitabilmente per interpellare i padri fondatori che il Pd l’hanno pensato. Il professor Michele Salvati (che un mese fa, su questo giornale, ha scritto un dettagliato manifesto-guida per un Pd che voglia “uscire dalla Ztl”), riflette sulla “spaccatura non superata tra impulso originario renziano e resistenza nel resto del partito. Quella spaccatura esiste ancora e rischia di pregiudicare il futuro, Europee comprese. Io non credo sia imminente il distacco di Matteo Salvini dai Cinque Stelle né le elezioni anticipate. Ma intanto non possiamo eludere la questione: che animale è il Pd?”. Salvati intravede due vie di uscita dal tunnel: “Concentrarsi su un vero programma riformista per l’Italia, perché l’unica sinistra possibile è riformista. E capire come ‘vendere’ questo programma al popolo pd affezionato e ai disaffezionati. Ma un programma riformista non può essere scritto in fretta, in vista del congresso: si corre il rischio che venga mal digerito. Ci si pensi seriamente, magari a partire dalla prima bozza dell’associazione dei riformisti pd Libertàeguale. Si scriva un programma razionale, con sforzo congiunto di politici, tecnici e intellettuali”.

 

 

Dario Corallo, 30 anni, è il più giovane candidato alle primarie per la segreteria del pd

 

Sarà questa sinistra riformista a doversi proporre all’elettorato: “Riorganizzare il Pd non è facile”, dice Salvati, “il quadro non è ancora mutato, Salvini sul lato immigrazione dovrà mantenere la faccia da truce, e per ora non toglierà la spina al governo. Ferma restando la preclusione del Pd nei confronti dei Cinque stelle – in questo aveva ragione Renzi – resta una fragilità del partito su alcuni temi che hanno portato una parte del nostro elettorato verso il M5s, vedi il Mezzogiorno. Motivo in più per non improvvisare”. Dal lato Ulivo dei padri fondatori, Arturo Parisi, già ministro e sottosegretario nei governi Prodi, consiglia al Pd di “ricominciare dalla smagliatura prodotta dalla sconfitta del ‘Sì’ nel referendum di due anni fa, chiedendosi cioè se all’origine di quella sconfitta stava lo stesso progetto e la direzione indicata da Renzi al paese e al partito o il modo in cui quel progetto era stato proposto e perseguito. Per riconoscere quindi la necessità di rivedere radicalmente il progetto o invece rilanciarlo e correggere gli errori che avevano prodotto la sua sconfitta”. Questa, dice Parisi, è “la domanda che sarebbe dovuta essere al centro dell’inutile congresso dello scorso anno che invece si è trasformato ancora una volta in un riconoscimento della leadership di Renzi a prescindere dal progetto che lui aveva incarnato. Una delega in bianco riempita nei mesi successivi coi fatti dedicati a cancellare il progetto mentre si confermava il soggetto. Fino alla approvazione, proprio alla vigilia del primo decennale di fondazione, dello sciagurato Rosatellum, celebrata come una impresa e una vittoria del partito e non invece riconosciuta come il tradimento della vocazione che ne era stata all’origine”.

E tra difese e j’accuse affettuosi si leva dunque il sipario sul primo congresso pd dell’era gialloverde.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.