La copertina di "Chiamiamo il babbo", Paola e Silvia Scola

Chiamiamo babbo Scola

Giacomo Giossi

Lo straordinario lessico familiare del grande regista, dove non si fa differenza tra film e realtà

Paola nel 1973 ha sedici anni e della sua adolescenza vive la rabbia, la depressione e tutte quelle inquietudini radicali tipiche dell’età, il padre le manda allora un biglietto, lui la chiama affettuosamente Ponzi. Il bigliettino contiene un disegno, un omino a uno sportello e una serie di indicazioni: tutto ciò che non è inutile fare nella vita, compreso il fatto che non è inutile chiedersi se tutto è inutile.

 

Paola riceve il biglietto e chissà dove lo dimentica con l’alzare di spalle arrogante che è anche il bello di quella età. Ritroverà il biglietto anni dopo, in mezzo ad altre carte e in quella lettera vi ritroverà il carattere, la filosofia di vita di suo padre, Ettore Scola, uno dei registi più importanti del Novecento e un padre ironico, leggero e allegramente confuso. 

 

 

Scola seppe coinvolgere le sue figlie, Paola e Silvia, anche nel suo lavoro, ma sempre con la giusta indolenza, con la passione che precedeva l’ordine, il desiderio che stava sempre tre passi avanti a tutto il resto.

 

Paola e Silvia hanno scritto un libro bellissimo, lo hanno fatto a quattro mani seppure per capitoli distinti. Ognuna ha raccontato il suo Ettore, ognuna ha ricordato aneddoti e incontri, ma non è questo l’aspetto più interessante e coinvolgente di Chiamiamo il babbo, ma come appunto già si intuisce dal titolo, la definizione di un lessico famigliare. Una biografia intima e intellettuale, un racconto del fare cinema quando il cinema italiano aveva confini internazionali. Dalle origini nel paese di Trevico in provincia di Avellino fino all’arrivo a Roma. Le compagnie di sceneggiatori e amici, i vezzi (discreti) e le nevrosi (poche) di un artista che nacque illustratore e vignettista al Marc’Aurelio (come poco prima di lui il suo amico Federico Fellini) e divenne uno dei registi più rilevanti al mondo oltre che uno straordinario sceneggiatore.

 

Molti erano di casa da Scola, gli attori che con lui hanno fatto la storia del cinema, da Marcello Mastroianni a Vittorio Gassman, da Alberto Sordi a Nino Manfredi, gli sceneggiatori Age e Scarpelli fino all’iroso Sergio Amidei, e ovviamente i registi: colleghi e amici. L’ironia di Scola era sottile e pungente, per non dire provocatoria, anche per una forma di impaccio che sapeva sfruttare brillantemente come perfetto tempo comico: un’ironia che era segno di una capacità di osservazione assoluta, di uno sguardo puntuale, ma mai veramente cinico sulla realtà. Ogni cosa per Scola viveva sullo stesso piano: la politica e la vita quotidiana, il lavoro e l’amore. E forse è ovvio (per non dire prevedibile) che fosse così, ma resta sorprendente la qualità unica di certi uomini come Scola, in particolare di quella generazione nel saper stare nel proprio tempo in maniera fluida, liquida, pungolandolo e quando occorreva anche criticandolo, senza però mai sedersi in disparte, senza mai disarmarsi prima della battaglia.

 

Una qualità che non è strettamente politica e nemmeno specificatamente lavorativa, del far carriera come tanto piace pensare oggi, ma che si riflette in particolare in Scola nel suo essere padre.

 

Quando coinvolge le figlie lo fa sulla base di un’osservazione che gli permette di intuire desideri, inquietudini o tristezze. Utilizza l’ironia, il gioco, ma sempre legate, intrecciate a una serietà assoluta che richiede in cambio responsabilità.

 

Scola gioca sul tempo lungo, sa che l’effetto – magari non subito – poi si farà sentire. Un po’ come avviene nei suoi film, che sembrano sempre un po’ una commedia, ma che in verità stanno in perfetto equilibrio tra neorealismo e commedia all’italiana, almeno prima che questa diventi quella che Moretti definì un tutto e un contrario di tutto. Come avvertiva Furio Scarpelli bisogna occuparsi di scrivere prima di ogni altra cosa delle scene figlie, e questa è forse una delle peculiarità del cinema di Ettore Scola, che sapeva girare e scrivere scene figlie come nessuno altro.

 

Silvia e Paola crescono nel cinema e del cinema conoscono un po’ tutti i mestieri (e i relativi maestri), alcuni li hanno praticati con il padre e li praticano ancora oggi, dal montaggio alla scrittura fino alla regia. Hanno osservato a lungo, ricambiate nello sguardo, loro padre. Ed è proprio in questo scambio continuo di sguardi che sembra di volta in volta, anche litigio dopo litigio, rigenerarsi una relazione che è sempre un po’ intima, ma anche comune.

 

Una condivisione che coinvolgeva amici e colleghi (commovente nel suo esser brusca la telefonata di Amidei a Silvia per il suo soggiorno a Magate) e che lasciava sullo sfondo l’ambizione che per Scola aveva veramente senso solo come ambizione politica e sociale. Non c’era differenza tra vita sul set e fuori dal set, e come ricorda Daniel Pennac nella sua prefazione al libro: “Mi parlava di amicizia, insomma. E poi, a un tratto: ‘Tutti questi premi…’, mi disse. ‘Lo sai cosa ne faccio?’. Non lo sapevo. ‘Li metto sul terrazzo e li guardo ossidarsi con il tempo’”.

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