C'è ancora chi si diverte a banchettare con i resti di Craxi

Guido Vitiello

Non ho visto "Hammamet" per gustarmi a pieno le recensioni: quelle di chi ha ammirato l'ostensione del tratto umano, e quelle di chi lo ha deplorato allegando l'elenco delle sentenze

“Non leggo mai i libri che devo recensire, per non farmi influenzare”, diceva il reverendo Sydney Smith, ed è per una ragione simile che ho scelto di non vedere ancora “Hammamet”: non vorrei che il film mi impedisse di gustarmi le recensioni. Finora ne ho lette di due tipi: quelle che dicono, con ammirazione, che il film di Amelio illumina soprattutto il tratto umano del Craxi declinante e non più potente, mettendo tra parentesi la politica e agendo sulla compassione; e quelle che dicono la stessa cosa, ma con deplorazione o con stizza, rimproverando al film di cancellare il Craxi trionfante e allegando, per conoscenza, l’elenco delle sentenze. L’esercizio di metacritica è utile, perché consente di vedere all’opera, in uno dei rari momenti di inceppamento, l’unico impianto industriale che la magistratura italiana non solo non ha mai bloccato, ma ha spesso contribuito suo malgrado a mettere in moto. Parlo della fabbrica dei totem. Il manuale di funzionamento lo ha scritto Freud nel 1913, in “Totem e tabù”. Fase uno: l’orda primordiale uccide e divora il patriarca. Fase due: dopo un periodo più o meno lungo di digestione, in preda al rimorso, ne fa un totem e lo venera. Lo abbiamo fatto con Tortora, Falcone, Moro e tanti altri. L’impianto di totemizzazione, oliato da abbondanti lacrime di coccodrillo, a volte funziona senza intoppi. Nel caso di Craxi no, perché quelli che gestirono la fase uno non possono permettere che s’instauri il tabù del parricidio: ancora banchettano con i resti del cinghiale, e hanno fatto dell’Italia una mensa di cannibali.

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