Il processo infinito realizza finalmente la sua vocazione euclidea

Guido Vitiello

Il termine ‘diritto’, in tutte le lingue che derivano dalla matrice indoeuropea, è associato al riferimento a una linea retta. E non è proprio della retta l’essere senza fine?

Il filosofo-giornalista Alain, nei primi del Novecento, si sforzò di “sollevare il trafiletto all’altezza della metafisica”. Fosse vissuto oggi in Italia, avrebbe risparmiato molta fatica: la metafisica arriva già inguattata nelle cronache, senza appulcrarci parola. Non parlo tanto del senatore che annuncia di essere espulso dal Nulla, quanto dell’incubo del processo eterno. Dal nuovo libro di Umberto Curi che ho mille ragioni per raccomandare ai lettori, “Il colore dell’inferno” (Bollati Boringhieri) apprendo che alcuni supplizi mitologici perenni erano il contrappasso per aver varcato la linea che separa mortali e immortali: Sisifo, per meritarsi quel masso esasperante, aveva preso in ostaggio Tanato, la morte; e Prometeo, accanto alle sue colpe più celebrate ma veniali – l’aver conteso la sapienza tecnica a Efesto e Atena – aveva, dice Eschilo, “distolto i mortali dal tenere gli occhi fissi sul loro destino”. A chi sfida la finitudine, una pena senza fine. I nostri futuri imputati che sconteranno a vita la pena del giudizio forse non vanteranno colpe altrettanto eroiche, ma avranno l’occasione di offrirsi in sacrificio alla rivelazione di una verità più grande di loro. Curi ricorda che “fin nella sua stessa radice etimologica, il termine ‘diritto’, in tutte le lingue che derivano dalla matrice indoeuropea, è associato al riferimento a una linea retta”. E non è proprio della retta l’essere infinita? Oggi il processo realizza finalmente la sua vocazione euclidea; e noi tutti, segmentuzzi senza valore, dobbiamo essere grati di concorrere a celebrare il processo di Sisifo.

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