Adieu macaron! Perché lo sbarco di Ladurée qui da noi è naufragato

Fabiana Giacomotti

La location, lontana rispetto alle vie del lusso, e una gestione dello store troppo enfatica tra le cause del fallimento

Ora che le insegne Ladurée di via Spadari sono irrimediabilmente chiuse, si può fare qualche riflessione sui motivi per i quali l’avventura italiana dei celebri macaron francesi non abbia funzionato, perdendo qualche milione di euro dal 2010 della prima apertura a oggi, mentre il marchio macina utili altrove. Lasciano definitivamente la presa le due imprenditrici russe che si erano passate la licenza, Svetlana Voloshyna e Yulia Vilenskaya, ma lascia soprattutto Alessandro Sermoneta dell’omonima, potentissima famiglia di Roma che, dopo aver dato slancio alla moda di alta gamma per oltre mezzo secolo (possiede una buona metà degli stabili di via del Babuino) ha ampiamente dimostrato di saperci fare anche nella ristorazione, visto il successo della catena Tartufi&Friends. Per qualche anno, Sermoneta aveva infatti affiancato la torreggiante Voloshyna: poi, vista la mala parata, si era ritirato. Eppure, sulla carta le premesse perché i tre negozi aperti fra Milano, Roma e Firenze funzionassero c’erano tutte: un marchio celebre in tutto il mondo, storico quel tanto che basta a rassicurare anche i clienti meno attenti (Louis Ernest Ladurée inaugurò la propria insegna nel 1862 nella Place de la Madeleine dove ancora si trova), estetizzante e raffinato come d’obbligo, ormai, nel settore (il verde pistacchio dell’insegna è celebre almeno quanto quello, più carico e sfumato di blu, di Tiffany). Ma soprattutto, c’era un prodotto di forte ascendenza italiana: al di là di una vaga leggenda che vorrebbe quei dolcetti di meringa e ganache importati in Francia da Caterina de’ Medici e via via evoluti fino alla ricetta di Pierre Desfontaines della pasticceria Ladurée, non ci sono invece dubbi che traggano il proprio nome dalla definizione, ironica e un po' sprezzante, che nell’Europa del XVIII secolo veniva data ai giovani di buona famiglia rientrati dal Grand Tour con le arie e le rilassatezze modaiole e sessuali degli italiani. La definizione di “macaron”, o “macaroni” in inglese, era così diffusa che si ritrova perfino nella marcetta “Yankee doodle goes to town” che i ribelli delle Colonie americane intonavano contro gli inglesi venuti a lamentarsi in armi per tutto quel tè versato nel porto di Boston.

 

Noi italiani di oggi pronunciamo “màcaron” con la stessa sbadata ignoranza con cui diciamo “pèrformance” invece di “perfòrmance” in inglese, evidentemente ci piacciono le bisdrucciole o forse a dirlo correttamente, macaròn, ci pare di parlare dialetto veneto; in ogni caso, non ne siamo mai stati sedotti, oppure quelli di Ladurée ci sono sembrati troppo cari, visto che altre pasticcerie milanesi raccontano di venderli benissimo. L’altro giorno, dopo aver speso 18 euro per una scatolina da sei all’aeroporto di Parigi, ci siamo domandati se un posizionamento così elevato non presupponesse l’apertura del negozio in una zona meno legata al food, pure d’eccellenza, come via Spadari dove si affaccia da oltre un secolo Peck, e più alla moda. È la valutazione che, pare, hanno fatto anche altri, indicando fra le cause del fallimento la zona di apertura, troppo vicina alla popolarissima via Torino, e il consumo dei macaron nelle loro raffinate scatoline color pistacchio filettate in oro come uno sfizio, come un divertissement di lusso, che avrebbe presupposto un’insegna in via Montenapoleone o in via sant’Andrea, nella stessa zona dove, non a caso, Prada ha voluto aprire la seconda pasticceria Marchesi. Dunque, bad location. Ma anche, dicono gli esperti, una gestione non italiana, molto personalistica e molto enfatica, a differenza di quanto avrebbero voluto i vertici di Ladurée, che speravano di prendere Milano e Roma per la gola attraverso le sottigliezze sintattiche, di stile e di gusto dei loro concittadini. A tutto questo si aggiungevano, anzi si aggiungono visto che Ladurée pare volerci ritentare, una serie di clausole molto limitative e onerose in termini di royalties e ritmi di apertura di nuovi punti vendita.

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