Un gruppo di migranti sbarca dalla Diciotti a Catania (foto LaPresse)

L'Europa è fottuta senza una terza via sull'immigrazione

Claudio Cerasa

La gran sveglia dell’Economist contro gli estremisti sovranisti e umanitari. Né Salvini né Saviano: un nuovo modello

Tutti dentro o tutti fuori? Calma. Questo articolo non nasce per offrire una soluzione pratica a un problema che oggi sembra irrisolvibile, ma nasce per mettere a fuoco un tema concreto che riguarda tutte quelle persone che di fronte a ogni discussione relativa al futuro dell’immigrazione si chiedono come diavolo sia possibile che nel dibattito pubblico non esista una visione politica capace di offrire una linea chiaramente alternativa a quella messa in campo da Matteo Salvini e da Roberto Saviano. Tutti dentro o tutti fuori? Calma.

 

Lo spunto di riflessione ce lo offre un bellissimo editoriale pubblicato sull’ultimo numero dell’Economist che con un linguaggio asciutto e chiaro inquadra una questione che potremmo provare a sintetizzare così: la ragione per cui un numero sempre maggiore di persone subisce il fascino dei Salvini, dei Kurz e degli Orbán è che allo stato attuale contro la retorica pericolosa veicolata dal messaggio “stop all’immigrazione” viene utilizzata un’altra retorica altrettanto pericolosa che è quella veicolata dal messaggio “accogliamoli tutti”. E il punto dunque è più o meno questo: quale può essere una via di buon senso europea da seguire sull’immigrazione per non farsi inghiottire da due simmetrici estremismi che non fanno altro che alimentare il sentimento della paura?

 

La paura dell’immigrazione, nota giustamente l’Economist, sta avvelenando da anni la politica occidentale e sono sempre di più i paesi in giro per il mondo in cui i leader nazionalisti sono riusciti ad aumentare il consenso grazie alla bravura con cui sono riusciti a offrire ai propri cittadini un messaggio di speranza proprio sul tema dell’immigrazione. E’ andata così negli Stati Uniti con Donald Trump. E’ andata così nel Regno Unito con la Brexit. E’ andata così in Italia, in Ungheria, in Polonia, in Austria, in Norvegia, in Repubblica ceca. E andrà probabilmente così tra dieci giorni in Svezia quando a vincere le elezioni (la Svezia è il paese che in Europa ha la più alta percentuale di rifugiati rispetto alla popolazione) potrebbe essere proprio un partito anti immigrati. La domanda in fondo è semplice: esiste un modo per evitare che gli unici politici capaci di garantire un senso di protezione ai cittadini impauriti siano quelli intenzionati non a governare ma a fermare l’immigrazione? Sulle ragioni che si trovano alla base della paura dei migranti si potrebbe discutere a lungo e si potrebbe dibattere fino a notte fonda per capire quali sono gli ingredienti che hanno portato ad avere in Italia una percezione di insicurezza totalmente disancorata dalla realtà (“Gli italiani – ha segnalato due giorni fa l’istituto Cattaneo in un suo sondaggio – sono i più ostili d’Europa verso gli immigrati e credono che ce ne sia il quadruplo” di quanti ce ne sono nella realtà).

 

Ma una volta accettato il fatto che la paura esiste, bisogna anche accettare che limitarsi a dire che quelle paure sono infondate non è il modo migliore per provare a risolvere il problema. E uno dei motivi per cui i Salvini, gli Orbán e i Kurz hanno gioco facile oggi a trasformare ogni avversario dello “stop all’immigrazione” in un sostenitore del “sì all’invasione” è che allo stato attuale i difensori dell’immigrazione liberale, come scrive l’Economist, stanno perdendo il dibattito. E per questo hanno bisogno di trovare con urgenza argomentazioni politiche migliori rispetto a quelle di oggi per sostenere alcune verità che solo i professionisti della post verità possono negare. Primo punto: chi vuole governare l’immigrazione puntando più sulla necessaria sovranità degli stati che sulla necessaria solidarietà dell’Europa sta in fondo usando solo la lotta contro l’immigrazione per sfasciare l’Europa. Secondo punto: chi vuole governare i flussi migratori facendo passare l’idea che sia necessario fermare finalmente l’immigrazione in fondo sta lavorando solo per rendere i propri cittadini non più forti e più sovrani ma più deboli e persino più tassati. Terzo punto: le società che non capiscono che chiudere in modo indiscriminato le porte ai migranti aiuta non a migliorare le condizioni economiche di un paese ma in molti casi aiuta a peggiorarle sono società che alla fine rischiano di diventare oltre che meno tolleranti anche più povere. Il primo passo per affrontare la questione, suggerisce l’Economist, è riconoscere senza ipocrisie quali sono i principali contraccolpi registrati in una società aperta che accoglie nuovi arrivati. L’immigrazione, è evidente, si porta con sé la convinzione che i governi abbiano perso il controllo dei propri confini, il timore che i migranti drenino in modo ingiustificato denaro dalle casse dello stato, la paura che più immigrazione significhi meno posti di lavoro, la convinzione che venga innescato un processo irreversibile che porterà prima o poi a essere inevitabilmente sottomessi a culture aliene. Si può essere d’accordo oppure no con queste paure ma senza averle presenti non si avrà mai chiaro in testa come si possono affrontare senza rincorrere necessariamente i professionisti della paura. Le soluzioni offerte dall’Economist per provare a rispondere a questi problemi si muovono lungo alcune direttrici precise. 

 

La prima: revisionare gli obsoleti sistemi internazionali per aiutare i rifugiati e allargare il perimetro dell’immigrazione legale ed economica per andare incontro al nuovo fabbisogno di manodopera. Nel primo caso lo si fa accorciando per esempio i tempi di riconoscimento, espellendo senza esitazione ogni migrante illegale, costruendo centri di raccolta e identificazione negli stati di partenza anche a costo di intervenire militarmente. Nel secondo caso lo si fa rendendosi conto che gli immigrati illegali arrivano in un paese anche perché sanno che ci sono lavori che si possono trovare e che in alcuni casi riescono a fare solo loro (“nel lavoro manuale non qualificato – ha segnalato Tito Boeri nella sua ultima relazione Inps – sono oggi impiegati il 36 per cento dei lavoratori stranieri in Italia contro solo l’8 per cento dei lavoratori italiani”) e in questo senso allargare attraverso il decreto flussi il canale dell’immigrazione legale potrebbe persino avere una sorta di effetto Netflix: far tesoro di una domanda vera rivolgendo però un’offerta alternativa a quella illegale (al posto di film piratati in streaming, film in streaming legali; al posto di lavoratori immigrati in nero, lavoratori immigrati legalizzati).

 

L’Economist suggerisce anche altre strade da imboccare per combattere la percezione di insicurezza senza rincorrere gli Orbán e i Salvini. Suggerisce di “consentire ai migranti di ottenere immediatamente l’istruzione pubblica e l’assistenza sanitaria, ma di limitare il loro accesso ai sussidi di assistenza sociale per diversi anni” e suggerisce di assicurarsi a ogni costo che “i guadagni provenienti dalla migrazione siano condivisi in modo più esplicito tra i migranti e i nativi nel paese ospitante” – e un modo potrebbe essere quello di applicare una sovratassa sulle loro entrate per un periodo successivo all’arrivo destinando il ricavato alla costruzione di infrastrutture pubbliche o a sgravi fiscali dando così l’idea che più sono i migranti regolari che arrivano più è grande il dividendo per chi li accoglie. Per sconfiggere la retorica pericolosa del “andatevene tutti” e la retorica farlocca del “prendiamoli tutti” in altre parole è necessario trovare una terza via alla gestione dell’immigrazione che preveda una miscela fatta di corridoi umanitari, di espulsioni più efficaci, di accordi con i paesi di origine, di maglie più larghe sull’immigrazione legale, di criteri non solo volontari per la ripartizione di profughi e migranti economici in tutta Europa (finora il governo italiano ha preferito passare il suo tempo più a tenere in ostaggio la Guardia costiera che a ottenere successi in Europa). Dire sbarchi zero, evocando a casaccio modelli non replicabili nel nostro continente come quello australiano (in Australia si respingono i barconi mandandoli indietro in paesi vicini disposti ad accoglierli, mentre i paesi vicino all’Europa non sono disposti ad accogliere i migranti partiti dalle loro coste e il diritto comunitario prevede che se prima non si individua chi ha diritto di asilo i respingimenti sono illegali), può avere un senso solo se si decide di aggredire all’origine, senza dribblarli, i problemi che riguardano l’immigrazione. Non è semplice, non è scontato, non è facile ma per respingere gli estremisti, e tutti coloro che come Salvini e Orbán vogliono usare la lotta contro l’immigrazione solo per sfasciare l’Europa, prima o poi bisognerà passare da qui: da una terza via tra gli estremisti della paura e gli estremismi umanitari.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.