Domenica si vota in Svezia, elezioni culturalmente decisive, scrivono i giornali internazionali (foto LaPresse)

Tra migranti e uscita dall'Ue gli svedesi flirtano con l'estrema destra

Paola Peduzzi

Il welfare scricchiola e l’incertezza spinge la Svezia lontano dal centro. Ma i dati sull’integrazione raccontano un’altra storia

Milano. Domenica si vota in Svezia, elezioni culturalmente decisive, scrivono i giornali internazionali attirando l’attenzione anche dei più distratti. Perché dovremmo appassionarci alle elezioni di un paese di dieci milioni di abitanti nel freddo nord europeo che non è nella zona euro e che è riuscito a stropicciare il dono più prezioso che aveva fatto alla cultura politica del continente, la mitica socialdemocrazia scandinava? La risposta è facile: perché la storia svedese ci riguarda, e un pochino forse ci assomiglia.

 

Il partito della sinistra, al potere quasi ininterrottamente da un secolo, è ai suoi minimi, si è logorato come soltanto le sinistre sanno logorarsi, un pezzo alla volta, un valore alla volta, un po’ di faide, un po’ di stanchezza sistemica, un po’ (molta) di incapacità di affrontare le sfide e le derive di un modello unico al mondo. Il partito della destra moderata si è ringalluzzito, potrebbe andare bene alle elezioni, e raccogliere quell’elettorato che non vota più i socialdemocratici, ma non è estremista: il problema è che il suo leader, Ulf Kristersson, non convince molto, è impolverato, dicono gli elettori. E così a dominare il dibattito ci sono i partiti di estrema destra e di estrema sinistra, e al primo posto delle preoccupazioni degli svedesi c’è l’immigrazione.

 

Ora, di molte altre preoccupazioni non ce ne sono, in Svezia. L’economia è cresciuta del tre per cento nei primi otto mesi dell’anno, che è ben di più del due per cento della zona euro, e il tasso di disoccupazione è al 5,9 per cento, ben al di sotto della media europea. La crisi economica di dieci anni fa è stata completamente riassorbita, e gli svedesi continuano a pagare tasse molto alte – il 60,1 per cento per i redditi più alti – in cambio del loro generosissimo welfare, che in svedese è chiamato con un termine rassicurante e caldo: Folkhemmet, la casa del popolo. Dopo un secolo di vita, la casa inizia a mostrare crepe più profonde, in particolare sulla Sanità – che è più lenta – e sull’istruzione – le scuole svedesi, che hanno sempre occupato i primi posti dell’eccellenza globale con quel loro metodo empirico che prevede anche, nelle ore di educazione civica, di uscire ad abbracciare gli alberi, e che ora invece non sono più così brillanti. Di fronte agli scricchiolii, amplificati da dati sulla diseguaglianza che mettono in dubbio il principio egualitario alla base del modello della socialdemocrazia nordica, è aumentata la paura, è cresciuta l’incertezza, ed è così che i partiti di estrema destra hanno trovato la formula più semplice e più immediata per imporsi nel dibattito: è colpa dell’immigrazione.

 

Negli ultimi cinque anni sono arrivati in Svezia 600 mila immigrati: il picco è stato nel 2015, 163 mila richiedenti asilo, una delle quote più alte d’Europa in proporzione rispetto alla popolazione. In realtà i primi successi elettorali degli Sverigedemokraterna, i Democratici svedesi, il partito sovranista che propone anche un referendum per la “Swexit”, l’uscita dall’Unione europea, risalgono al 2010, quando entrarono per la prima volta in Parlamento, e al 2014, quando ottennero il 12,9 per cento dei voti. Ma due fattori più recenti hanno determinato l’accelerazione di oggi, che colloca i Democratici svedesi attorno al 20 per cento dei consensi: da un lato le auto che bruciano, in tutto il paese, quasi ogni giorno, criminalità non organizzata ma costante e spaventosa, dall’altro il report di un istituto indipendente, l’Expert Group on Public Economics, che ha stimato il costo annuo di ogni rifugiato in 74 mila corone (circa 8 mila euro), troppo elevato da sostenere. Gli immigrati portano criminalità e pesano sulle finanze pubbliche, i servizi sono meno eccellenti: rimandiamoli a casa, chiudiamoci dentro. E’ quel che sostiene il leader degli Sverigedemokraterna, Jimmie Akesson, classe 1979, alla guida del partito dal 2005, che ha imposto il problema dell’immigrazione come prioritario nel dibattito elettorale. Akesson ha in realtà lavorato per modernizzare un partito nato alla fine degli anni Ottanta con una esplicita ispirazione neonazista: i membri più estremisti sono stati espulsi, ma si sono raggruppati in un altro movimento, Alternativ för Sverige, Alternativa per la Svezia, che è l’unico disposto a formare alleanze con i Democratici svedesi, ma che è oltre la presentabilità. I suoi membri celebrano Hitler su Facebook, comprano memorabilia naziste, parlano dei musulmani definendoli soltanto stupratori e pedofili, e postano la foto di Anna Frank con la didascalia: “L’ebrea più carina nella sala docce”. Akesson ha preso le distanze da questo mondo estremissimo, ma con l’uscita dall’Ue e la lotta all’immigrazione – e un buon numero di bot che fanno da cassa di risonanza online – ha plasmato la discussione elettorale. Le auto che bruciano fanno da contorno, e i loro fuochi si vedono anche da molto lontano, come dimostrano i riferimenti trumpiani alla crisi immigratoria svedese (a proposito di trumpismo: Steve Bannon, ex ideologo del presidente che ora vuole guidare la rivoluzione sovranista d’Europa, ha elogiato molto Akesson, il quale però è apparso parecchio freddino, come molti altri leader populisti che non sentono affatto il bisogno di avere Bannon intorno). E come è accaduto altrove, anche da noi, gli effetti benefici dell’immigrazione non sono stati considerati nell’equazione elettorale. Il ministro delle Finanze, Magdalena Andersson, ha detto a metà agosto che i nuovi arrivati trovano lavoro a un tasso due volte più rapido di chi arrivava dieci anni fa, e che gli immigrati partecipano alla forza lavoro per l’82 per cento, quattro punti percentuali in più rispetto alla media europea. La Svezia ha offerto migliaia di permessi di lavoro a sviluppatori, raccoglitori di frutta e cuochi. Il 90 per cento di lavoratori nati all’estero ha trovato un impiego nel settore del welfare, in particolare nella Sanità e nella cura degli anziani. “Questi immigrati sono arrivati nel momento più perfetto”, ha detto un’esperta in un’intervista a Bloomberg che ha scatenato molte polemiche, perché la popolazione svedese invecchia e c’è bisogno di forza lavoro. Tra gli immigrati più giovani la disoccupazione è ancora alta, attorno al 20 per cento: c’è molto da fare ancora sull’integrazione, ma gli uffici che sono stati aperti per gestire i nuovi arrivati, insegnare la lingua e valutare le loro capacità dicono che gli immigrati non hanno desiderio più grande che trovare lavoro.

 

Queste elezioni sono importanti, dicono gli svedesi intervistati dai commentatori internazionali, determinano come vogliamo essere in futuro, dove vogliamo andare, che faccia mostreremo al mondo: i fuochi che agitano la Swexit e gli slogan tornatevene-da-dove-siete-venuti, o la crescita, l’integrazione, la sistemazione della casa del popolo? Se la domanda suona familiare è perché la Svezia ci riguarda, e un po’ ci assomiglia.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi