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Ma a che serve la app?

Eugenio Cau

Dalle esperienze e dalle sperimentazioni negli altri paesi contro il Covid per ora la risposta è: quasi a niente

Milano. Dieci giorni fa sull’Isola di Wight, nel canale della Manica, è cominciata la sperimentazione ufficiale della app di contact tracing del governo britannico. Ai 140 mila abitanti dell’isola è stata data la possibilità di installare l’applicazione prima di tutti gli altri cittadini britannici, per capire se può essere uno strumento utile nel contenimento del coronavirus. A questa sperimentazione si guarda con interesse anche dall’Italia, perché, almeno a quanto sostiene il governo, nel giro di pochi giorni si dovrebbe cominciare a sperimentare anche Immuni, la app di contact tracing italiana. E dunque come sta andando la sperimentazione sull’isola britannica? Maluccio, a essere buoni. Anzitutto, l’hanno scaricata in pochi. Lunedì il parlamentare conservatore britannico Bob Seely ha detto trionfante a Sky News che la app sull’isola aveva avuto il 65 per cento di adozione. Peccato che soltanto il 64 per cento degli isolani abbia un telefono adatto a scaricare la app, e che se rapportato all’intera popolazione il tasso di adozione sia soltanto del 40 per cento circa, lontano dalla copertura minima fissata dagli studiosi. Ma anche tra il 40 per cento degli isolani più diligenti, la app di tracciamento ha tracciato ben poco. Secondo la Bbc “non è successo quasi niente” sull’Isola di Wight in questi dieci giorni di sperimentazione, e se è vero che una parte consistente della popolazione è ancora in lockdown e che dunque i contatti sono limitati, è altrettanto vera una questione ben più ampia: dopo un’ondata iniziale di entusiasmo, il mondo sta riconsiderando l’approccio tecnologico al tracciamento dei contagiati, e sta cominciando a chiedersi: ma funzionano davvero ’ste benedette app di contact tracing? La risposta, a giudicare dalle sperimentazioni e da come sono andate le app già lanciate all’estero, è: tendenzialmente no, nel migliore dei casi molto molto poco.

 

Che il tentativo di tracciare il coronavirus con una app sul telefono rischi di rivelarsi infruttuoso se ne comincia ad accorgere anche la politica britannica. Ieri la Commissione per la scienza e la tecnologia dei Comuni ha inviato al primo ministro Boris Johnson una lettera molto dura il cui primo scopo era criticare l’operato del governo sulle politiche di test, ma in cui a un certo punto si legge che ormai è chiaro che “non possiamo fare affidamento sull’uso di una applicazione di contact tracing per fare fronte ai nostri bisogni” nel contenimento del virus.

 

Altre esperienze internazionali confermano che il ruolo delle app di contact tracing nelle politiche sanitarie è scarso o nullo. A Singapore la app Trace Together, che ha fatto da modello per Immuni e per le app occidentali, è stata scaricata soltanto dal 20 per cento della popolazione ed è fallita miseramente. In Australia la app per ora è stata scaricata da un quarto della popolazione. In Norvegia da un quinto. In India appena 100 milioni di persone su una popolazione di 1,3 miliardi hanno scaricato la app, anche se il premier Narendra Modi l’ha resa obbligatoria per i lavoratori e altre categorie.

 

In Islanda sembra che le cose siano andate meglio: il 40 per cento della popolazione ha scaricato la app del governo, che si chiama Rakning C-19. Ma ecco: anche se l’adozione è stata discreta, la app è servita a ben poco. “La tecnologia è più o meno... non dico inutile... Ma non è stata una svolta per noi”, ha detto alla Mit Technology Review Gestur Pálmason, l’uomo a capo delle iniziative di contact tracing del governo. Tutti questi precedenti non fanno ben sperare per Immuni.

 

Una nota importante: sui media si è spesso letto che le app messe in campo in occidente sono poco efficaci perché i governi sono troppo preoccupati di rispettare la privacy. Se solo fossimo un po’ più assertivi e meno ipocriti sulla privacy, dicono alcuni, allora sì che potremmo tracciare i contagi e salvare vite umane! I proponenti dell’opzione anti privacy citano il fatto che la maggior parte delle app occidentali usa la tecnologia bluetooth per fare il tracciamento e dicono che bisognerebbe piuttosto usare il gps per controllare tutti gli spostamenti delle persone ed essere davvero efficaci. Ecco, avete presente la app islandese di cui sopra, quella che non serve? Usa il gps.

 

E allora se le app servono a poco come li tracciamo i contagiati? Come si fa da due secoli, a mano, con persone deputate allo scopo. E’ lento ma funziona, come mostrano i risultati eccellenti del governo tedesco, che ha contenuto la pandemia con un lockdown soft e senza app (una app è in preparazione, ma Berlino non ha fretta). Il governo britannico l’ha capito e lunedì ha annunciato di aver assoldato 17 mila persone per fare contact tracing. Il ministero della Salute italiano ha fissato una soglia minima di un contact tracer ogni diecimila abitanti, ma per ora non ci sono notizie sul reclutamento.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.