Segnaletica che ricorda la distanza minima da tenere tra le persone in un parco a Boston (foto LaPresse)

Il rischio necessario

Piero Vietti

Le regole imposte dalla pandemia per contenere i contagi e il confine tra salute, responsabilità e controllo. “Nessuno si salva da solo”, ma ora l’altro è un pericolo

Assediati dal coronavirus, ligi alle regole imposte per il nostro bene, persino a quelle più assurde, guardiamo quotidianamente i numeri del contagio, in Italia e nel mondo, cercando un indizio per la fine dell’emergenza. Abbiamo imparato a restare a casa, a indossare le mascherine, a fare la fila fuori dal supermercato senza dare in escandescenza, nella fase 2 abbiamo persino imparato a prendere gli aperitivi restando a distanza, e quando vediamo un congiunto sappiamo quasi sempre resistere alla tentazione di abbracciarlo. Non c’è complottismo che tenga: i numeri dei morti per Covid-19, quasi certamente sottostimati, parlano di una pandemia che ha ferito e ancora sta sconvolgendo il mondo. La paura che la curva del contagio possa tornare a crescere ha cambiato i nostri comportamenti, segnando il rapporto con gli altri, rendendo profetico il pensiero di Sartre: “Gli altri sono l’inferno”, dato che potrebbero essere asintomatici portatori di un virus che uccide. Da inizio marzo gli esperti, e i politici consigliati dagli esperti, ci hanno spiegato come comportarci per rallentare la pandemia, “distanziamento sociale” è diventata formula familiare, mantra da ripetere e applicare. Ha funzionato, ci dicono oggi molti di quegli esperti snocciolando i numeri dei ricoveri ospedalieri e dei morti. Lo stato di eccezione in cui viviamo è entrato non soltanto nel nostro modo di agire, ma anche nel nostro modo di pensare, trasformandoci a volte in delatori di chi prima andava a correre o portava un figlio a spasso e oggi beve una birra sui Navigli. A Torino due ragazzi che si baciavano per strada in piena notte sono stati denunciati e multati. Un episodio marginale che ha però fatto riflettere il procuratore aggiunto Paolo Borgna, che su Questione giustizia poche settimane fa parlava di “uno stato d’eccezione così immanente, prima ancora che nei decreti legge del governo, nelle nostre teste: al punto che due ragazzi di diciotto anni che alle due di notte si baciano in piedi sul marciapiede di una via deserta vengono denunciati da un solerte cittadino, che si affaccia alla finestra e chiama la volante della polizia. Tutto giusto e (a parte qualche eccesso) tutto necessario. L’esserci imbattuti nel ‘cigno nero’, l’improbabile e quasi impossibile che diventa realtà, ha plasmato i nostri comportamenti collettivi e privati. Siamo noi stessi a invocare la nostra prigionia”.

 

In tutto il mondo ci si interroga, lo scrivevamo su queste pagine due giorni fa, sull’esistenza di una soglia di sicurezza oltre la quale si torni a vivere. La percezione del rischio varia a seconda del paese in cui si è, delle esperienze vissute durante le settimane di lockdown, e va inevitabilmente a incocciare con la percezione del rischio dell’altro. Da qui la necessità di norme chiare che definiscano i comportamenti durante l’emergenza, ma anche un’umanissima preoccupazione per quello che da molti è sentito come un eccesso di controllo sulle nostre vite, un’applicazione troppo zelante del principio di precauzione. La volontà di messa in sicurezza della vita quotidiana da parte di esperti e istituzioni comprime inevitabilmente le libertà dei cittadini. Fino a quando, e fino a che punto? “La pandemia ha cambiato profondamente il nostro modo di pensare, di conoscere, di attendere e di vivere – dice al Foglio lo psichiatra Eugenio Borgna – e non sarebbe facile da parte delle istituzioni, e degli esperti confrontarsi con questi cambiamenti senza schematizzarli e svuotarli del loro contenuto umano. Certo, siamo esposti continuamente alla paura e alla possibile realtà di essere divorati dal coronavirus, e alla ricerca di tecnologie sempre più sofisticate che consentano di circoscriverne i rischi e le conseguenze che possono essere, e sono, mortali. Anche tenendo presenti queste semplici considerazioni è comprensibile che si possa ricadere in un eccesso di principio di precauzione: come abitualmente avviene quando è in gioco il vivere e il morire. Le formulazioni giuridiche sono sempre più aride, sempre più oscure e orientate solo a evitare modelli di comportamento che possono essere ritenuti danneggiati dalle stesse leggi. Le cose oggi sono ancora più complesse per la selvaggia rapidità del contagio che il virus ha in sé, e allora mi sembra di poter dire che le indicazioni legislative non possono essere contestate nei loro orizzonti di significato. Questo se si tiene conto poi della complessità e della impossibilità di valutare fino in fondo la distanza di sicurezza che c’è in ogni diversa condizione sociale”.

 

Siamo il paese dei commi e delle pandette, certe norme di comportamento previste dai decreti di queste settimane hanno un forte sentore di paternalismo. Non si fidano di noi? “Fidarsi comporta sempre dei rischi – dice Guido Gili, professore di Sociologia della comunicazione all’Università del Molise e autore con Massimiliano Panarari del recente ‘La credibilità politica’ (Marsilio) – Abbiamo visto in queste difficili settimane come si sia posto continuamente il problema se, e fino a che punto, le persone possano fidarsi dei dirigenti politici e anche degli esperti che, non di rado, hanno proposto analisi e soluzioni diverse scendendo anche in polemica tra loro”. Ma le istituzioni si fidano di noi? “Il contenimento e la sconfitta della pandemia è legata, si ripete, ai comportamenti dei cittadini, al loro grado di collaborazione con le politiche e le strategie messe in atto dai governi per fronteggiare la crisi sanitaria. L’idea è che i cittadini dovrebbero condividere quei principi di precauzione che, declinati nei comportamenti quotidiani di milioni di persone, permetterebbero di combattere e sconfiggere la pandemia. Perché senza questa collaborazione non è possibile vincerla. Ma fidarsi delle persone da parte dei poteri politici e istituzionali è difficile. Si possono moltiplicare i messaggi persuasivi, le minacce (del tipo: ‘se non vi comporterete in questo modo, obbligheremo tutti a restare a casa’) e le sanzioni, ma di fatto questo resta un ineliminabile punto di debolezza”. L’altro, in questo caso il cittadino, può sempre deludere le aspettative di chi governa e deve pensare al bene di tutti. “La stragrande maggioranza dei politici in generale, e soprattutto chi sta al governo oggi, pensano a noi italiani come a un ‘popolo di furbi’ – dice al Foglio Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia ed esperto di comunicazione – Di conseguenza ogni legge o disposizione è pensata per bloccare, non per valorizzare e liberare le energie positive delle persone, delle famiglie, delle imprese e del terzo settore. Si aggiunga una mentalità intrisa di statalismo e bisognosa di un popolo impaurito, perché più ‘docile’ da governare, e la miscela è perfetta”. Ci viene ripetuto che “l’importante è la salute”, e in nome di questo si è accettato di rinunciare ad alcuni diritti e libertà, demandando la responsabilità della nostra vita a chi dice di saperne più di noi. E’ giusto pensare che non ci si può fidare degli individui, o esiste un livello di “rischio intelligente” in cui il comportamento del singolo può venire prima di norme di comportamento imposte dall’alto? “E’ vero che si propongono modelli di comportamenti imposti dall’alto – dice il prof. Borgna – senza tenere presenti la libertà e la autonomia che ciascuno di noi ha nel momento in ci si confronta con malattie così imprevedibili come quelle determinate dai virus, in particolare quelle determinate dal coronavirus. Sono scelte quelle che ciascuno di noi è tenuto a fare, che hanno radici profondamente etiche, e che dovrebbero indurci a comportamenti che rispettino la nostra libertà, ma anche quella degli altri. Temo però che, se non ci fossero indicazioni molto rigide, non tutti saprebbero fare scelte che salvaguardino la nostra salute e quella degli altri”.

 

“Ci trattano da sudditi, da bambini – dice il sociologo Luca Ricolfi, che già a inizio marzo denunciò il rischio che l’epidemia potesse assumere toni drammatici e con la Fondazione Hume studia l’andamento della pandemia – e lo fanno con norme sfocate e assurde come quella sui congiunti. Ma questo paternalismo non è dettato dal fatto che secondo chi fa le leggi noi non siamo in grado di regolarci, ma dal fatto che sanno già che le riaperture della fase 2 non funzioneranno: non ci hanno dato strumenti per controllarla e vogliono che la colpa sia dei cittadini. Se non funziona, il capro espiatorio è già pronto”.

 

E’ difficile trovare un equilibrio tra tutela della salute, compressione dei diritti, rischi accettabili e libertà individuale. Ma la responsabilità personale non è solo adesione impiegatizia alle regole vigenti, nasce anche da una coscienza del rischio non imposta per legge ma frutto dell’esperienza. Da sempre l’uomo cammina nell’imprevisto, ha bisogno delle regole per vivere ma il suo essere non è costituito dalle regole: è l’alternativa tra individui liberi e soldatini spaventati dalle multe. Viviamo però tempi eccezionali e drammatici, certi distinguo rischiano di essere pericolosi, anche se è difficile immaginare che a salvarci saranno – per dirla con Eliot – sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’esser buono.

 

“Come notava McLuhan in uno dei suoi ultimi e meno conosciuti scritti – dice ancora il prof. Gili – la percezione dell’insicurezza, legata alle relazioni con estranei, conduce a proteggersi attraverso la continua necessità di aggiornare le informazioni sul patrimonio e i movimenti dei singoli. La contropartita della maggiore estraneità e incertezza delle relazioni è un’intensificazione del controllo sociale sotto forma di informazioni sull’interlocutore: alcuni dati personali potranno essere registrati a insaputa dell’interessato; più spesso gli potranno essere richiesti per diminuire il rischio delle relazioni (soprattutto economiche); altri dovranno essere prodotti per assolvere determinati obblighi sociali o usufruire di determinati servizi. Questo è ciò che sta avvenendo in queste settimane anche a proposito della pandemia, in cui ci si propone di ricorrere ad app che monitorino continuamente percorsi e interazioni con altre persone per mappare i rischi di contagio (chi, quando, dove) e ad altri dispositivi tecnologici che sorveglino e ‘contengano’ il rischio della libertà altrui (droni, telecamere e robot nelle strade e negli spazi pubblici, etc.)”.

 

Non si tratta solo di privacy. C’è chi ha proposto di fare tornare i bambini della materna a scuola dotandoli di un braccialetto che suoni quando si avvicinano troppo al compagno, sempre e comunque potenzialmente contagioso. Per Stefano Epifani, docente di Internet Studies alla Sapienza di Roma e autore di “Sostenibilità digitale”, da poco uscito per il Digital Transformation Institute, “è aberrante a più livelli: abituiamo bambini al fatto che uno strumento ti dice che avvicinarsi a un altro bambino è male. Non è più educazione, è addestramento, il cane di Pavlov: sentono un suono e si allontanano. Quella è l’età in cui formi i bambini alla socialità, in questo modo capiscono solo che l’altro è un male. Non è un gioco: imparano che una tecnologia che indossi governa i tuoi comportamenti, e che il controllo sociale è un bene”. Il governatore della Liguria, Giovanni Toti, vorrebbe un braccialetto così anche per gli adulti che andranno in spiaggia quest’estate. “Così abituiamo le persone al fatto che sia opportuno oltre che lecito perdere libertà in funzione della sicurezza”. E non riguarda solo la salute. “E’ il principio della rana bollita: se per pandemia è lecito perdere la propria libertà, allora per potenziali atti terroristici? Per manifestazioni potenzialmente pericolose?”. Obiezione, comune: ma noi non viviamo in un regime autoritario. “La differenza tra un poliziotto che controlla i documenti a qualcuno durante una manifestazione e la possibilità di schedare tutti elettronicamente è decisiva. Vedo esperti e politici ripetere che dobbiamo meritarci la libertà di uscire di casa e andare al parco o ce la toglieranno”. Diritti che avevamo già prima adesso vengono elargiti come un premio. “Il rischio di annichilire dei diritti in nome di un risultato buono è enorme: vale per difenderci dal Covid, perché non dall’inquinamento controllando con una app chi accelera troppo con la sua auto?”. Si tratta di un’emergenza momentanea, però. “Quando perdi libertà è difficile tornare indietro se ti convincono che è giusto”.

 

Per il sociologo Giovanni Boccia Artieri, docente di Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, “c’è bisogno di un redesign comportamentale, rendere abitudini cose che prima non lo erano. Non obbligando, ma costruendo situazioni sociali nuove. Il principio di precauzione è ancora schiacciato sulla fase emergenziale. Continuiamo a vivere come se non si fosse prodotta una esperienza della pandemia, cosa che invece c’è. Si discute solo sullo stato di eccezione, anche sui media si cercano situazioni estreme”. Prima le piazze vuote, adesso i Navigli pieni. “Non si può ragionare pensando che tutti hanno comportamenti a rischio. C’è una nuova normalità, e la tecnologia, per tanti molto più familiare dopo questi mesi, può aiutare”. Anche la app di tracciamento? “La app è come la mascherina – prosegue Boccia Artieri – serve innanzitutto agli altri. Per questo è sbagliato colpevolizzare la gente, minacciare il lockdown perenne. Forse i tecnici che lavorano nelle task force sono un po’ troppo ‘tecnici’, e propongono soluzioni da tecnici, dando per scontato che noi siamo dei selvaggi”. Bisognerà imparare a riavvicinarsi agli altri nel modo giusto, “ma intanto già sappiamo tenere le distanze”.

 

Rieccoci allora al punto che in fondo sfugge. Più o meno controllati (ma poi siamo sicuri che il braccialetto da indossare il spiaggia sia il problema, quando la paura del virus ha reso palese che la nostra testa è piena di braccialetti che suonano di fronte a comportamenti “sbagliati”, nostri o altrui?), osserviamo come la nostra relazione con gli altri è a tratti annichilita dall’emergenza del virus da combattere: il prossimo è visto come un potenziale pericolo sempre, uno da guardare con sospetto e possibilmente da evitare. “La paura del contagio e la paura della morte dilagano – conclude Borgna – e non di rado non consentono di agire, rispettando fino in fondo la nostra dignità e quella degli altri. Nell’osservazione che il prossimo è vissuto come portatore di pericolo mi sembra di cogliere l’aspetto più doloroso della condizione di vita in cui siamo imprigionati. Uscire di casa, e anche solo intravedere una persona che dall’altra parte della strada si avvicina, genera reazioni emotive sconcertanti, come se gli sguardi ci potessero contagiare. Sono stati d’animo che si possono anche comprendere, da un certo punto di vista, ma che indicano la trasformazione della paura in una condizione di panico che non consente nemmeno più di valutare razionalmente i nostri comportamenti. Sentimenti fondamentali della vita, come quelli della gentilezza, della mitezza, della tenerezza e della solidarietà sono davvero in pericolo. Non so, ma lo spero, se quando la presenza del virus si indebolisca, questi sentimenti, così importanti nella vita, possano rinascere, e questa è la speranza che non dovremmo lasciare morire. Questa pandemia ha modificato le nostre relazioni con gli altri, ma penso anche che quando il pericolo si sia attenuato possano rinascere sentimenti nobili e altruistici, oggi divorati dalle paure, e anche dall’egoismo, che sono sempre pronti ad accompagnarci nella nostra vita”. Il cardinale Carlo Caffarra opponeva a Sartre il “non è bene che l’uomo sia solo” della Bibbia. “Nessuno si salva da solo”, ha ricordato Papa Francesco qualche settimana fa. L’altro è anche un rischio che vale la pena correre.

Di più su questi argomenti:
  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.