Immagine tratta dal film C'eravamo tanto amati

Come torneremo a mangiare al ristorante

Bianca Maria Sacchetti

Per pranzi, aperitivi e cene cambieranno tempistiche e abitudini. Ma gli italiani non rinunceranno alla ristorazione. “Nel Dopoguerra la riapertura dei locali divenne simbolo di ripresa”, ci dice Pupi Avati

Paraventi di plexiglass, quattro metri per ciascun cliente, misurazione della temperatura e osservazione sintomi, flaconi di gel disinfettante, serre di vetro e app menù: non poche le proposte in attesa di un protocollo unico che definisca il perimetro della ristorazione post Covid. 

 

Gli italiani amano mangiare fuori, non vi è dubbio, e a gennaio 2020, poco prima del blocco, a confermarlo è stato il rapporto annuale della Federazione Italiana Pubblici Esercizi, che quantificava il giro d'affari complessivo attorno ai 237 miliardi di euro, di cui 85 per i pasti consumati fuori in costante crescita. Se infatti nel 2008 rappresentavano solo il 32,7 per cento, prima del lockdown erano saliti al 36 e, secondo le stime Fipe, dovevano raggiungere il 40 per cento nel 2030. Esigenze lavorative o ludiche, bisogno di convivialità o anche occasione un po’ trasgressiva rispetto agli imperativi salutisti: mangiare fuori appartiene di diritto alla gioia di vivere e, a seguito di una crisi, ancora di più.

  

Abbiamo negli occhi e nella testa immagini dal sapore vintage di persone che mangiano, bevono e ridono allegre ed è il cinema di Scola, Fellini, Visconti, Monicelli ad avercele impresse. Lunghe tavolate con tovaglie a scacchi e fiaschi di vino, ciotole di pasta al sugo, piazze e piazzette, i bambini che corrono al sole e le mamme che riposano all'ombra. È il dopoguerra, la fine della povertà di massa, quegli anni in cui l'Italia è in corsa per il benessere e le famiglie conquistano quote crescenti di un reddito che sale a tassi sino ad allora impensabili: 1946-61, in anticipo rispetto al boom, i consumi crescono in termini reali del più 293,6 per cento e soprattutto quelli alimentari dettano il ritmo della rinascita. Una rinascita che, come ogni volta, parte dal cibo. 

 

“Sin dalla società omerica, quando dopo una battaglia i guerrieri, deposte le armi, si riunivano con le famiglie intorno al fuoco e mangiavano assieme”, dichiara il gastrosofo Alex Revelli Sorini - l’uomo, non appena lasciata alle spalle una crisi, ha bisogno di condividere il cibo, di condividerlo fisicamente, su di una tavola ben imbandita. Noi siamo nati in una società nella quale il mangiare fuori è centrale e si cucina in casa sempre meno. Passato questo periodo, avremo una ristorazione basata sui prodotti del territorio e i giovani saranno i 'meno attenti’ e quindi i più disponibili a tornare in fretta alla condivisione del cibo”. 

 

E come negli anni ’50, ’60 e ’70, una volta superato l'impatto dell'epidemia Covid-19 sul comparto (perdita di 8 miliardi di euro, secondo le stime Centro Studi della Federazione Italiana Pubblici Esercizi), saremo di nuovo un paese da trattoria? Certo che sì, proprio come in C’eravamo tanto amati, il capolavoro di Scola in cui i tre ex partigiani, Manfredi, Gassman e Satta Flores, si ritrovano a raccontare, non senza nostalgia, vite e relativi bilanci, in una trattoria della capitale, “Il re della mezza porzione”. Allora pensata per coloro che non potevano concedersela intera, oggi più per quelli che le mezze porzioni se le aspettano nel menù degustazione stellato. Una lente d’osservazione quella della tavola, specie dopo dolore e privazione, perché mangiando assieme si può esorcizzare la paura, guardare avanti e credere nel miracolo. 

 

“Del dopoguerra italiano, avevo solo sette anni, ho un ricordo molto sfumato”, dichiara il regista Pupi Avati. “Ho la sensazione comunque che nostro padre, collezionista d’arte e rappresentante di filati, viaggiando molto, sia appartenuto a quella classe privilegiata di chi ha saputo individuare le migliori trattorie dell’Emilia Romagna. La fine del conflitto fece sì che in pochi mesi cominciarono a rifluire le materie prime e quindi la qualità del cibo, anche nelle case, migliorò vistosamente. La riapertura dei locali divenne simbolo di ripresa e via via tutte le grandi celebrazioni familiari, dai matrimoni alle cresime alle prime comunioni, abbandonarono i contesti domestici per occupare i grandi ristoranti. A Bologna poi, se volevi essere sicuro di conquistare una ragazza, la dovevi invitare al Pappagallo, sotto le due Torri, il ristorante dove per le loro nozze avevano pranzato Tyron Power e Linda Christian”, prosegue il maestro Avati. “A casa nostra, però, la certezza che fossimo definitivamente entrati nella modernità ce la diede nostro padre, quando partì per la Fiera Campionaria di Milano, evento che mobilitò l’intero paese. Tornò con una grande sorpresa per noi bambini, segno della nuova era: il famoso cestino da viaggio Casali acquistato alla stazione di Parma. Lo aveva conservato intatto. Conteneva una porzione di lasagne, un quarto di pollo arrosto, un vassoietto di patate fritte, una pagnottella, una bottiglietta di lambrusco, un tovagliolo di carta, le posate di legno e una sigaretta. Deliziandoci di quelle prelibatezze, nostro padre ci descrisse come fosse piacevole viaggiare e mangiare comodamente, con il paesaggio che attorno si muoveva in continuazione”. 

 


Pupi Avati (foto LaPresse)


 

Quello che non sappiamo non è tanto quando ma come torneremo a mangiare fuori, consapevoli che vi saranno tuttavia anche aspetti positivi e punti di forza, come la centralità del fattore qualità, dalla tracciabilità delle materie prime alle norme igieniche, insieme ai nuovi standard e requisiti necessari per stare in piedi e bene sul mercato, non perdendo di vista mai valori come eccellenza e sostenibilità. 

 

Diremo addio per un po’ alla Milano da bere, quella fatta di buffet, happy hour e banconi dei bar stile mercato rionale, e riapprezzeremo la pratica dell’aperitivo per come era nata: sacro momento di socialità raccolta, stuzzichini e piccola ma buona carta mixology alla mano.

 

"Come sarà l’aperitivo nel post Covid-19?”, si chiede Alessandro Bernardi, vice presidente ABI Professional (Associazione Barmen Italiani). "Risulteranno avvantaggiate quelle strutture che, grazie alla tecnologia, potranno permettere il consumo al tavolo, senza ricorrere al menu cartaceo e stanno partendo, già da diverse settimane, le proposte delivery con box aperitif (completi di drink e finger-food) per party domestici. Ma non sarà solo questo il futuro dell’aperitivo italiano celebrato in tutto il mondo”, prosegue Bernardi, "il cui valore prima del coronavirus, secondo il nostro osservatorio ABI, era del 15,8 per cento nel consumo fuori casa con un trend in ascesa dal 2012. Prevediamo un calo dei consumi aperitivo intorno al 60/70 per cento e oggi siamo in attesa di capire con quali regole giocheremo e, questa volta, per disegnare il domani dell’ospitalità, sarà fondamentale guardare indietro, alle grandi strutture alberghiere, dove sin dai primi anni del ‘900 nascevano i più famosi cocktail”.

 

E la pausa pranzo? Uno dei fattori che, fonte Nomisma, più influenza il secondo pasto degli italiani è il tempo: generalmente non dura più di 40 minuti e il 21 per cento dei lavoratori con il 19 per cento degli studenti afferma di riservargli meno di 20 minuti. Il 43 per cento poi mangia in ufficio almeno 2 o 3 volte a settimana, rispetto a un’altra fetta consistente, il 45 per cento, che rincasa, mentre il 35 opta per il ristorante aziendale. Una fotografia a breve scadenza, in quanto la fase 2 e, perché no, ormai anche la 3 imporranno modifiche sostanziali, a partire dal fattore tempo che potrebbe subire limitazioni, visti gli scaglioni previsti nei ristoranti e nei bar. Chiamata certamente a salire la percentuale relativa all’opzione lunch box da scrivania, a prima vista la più sicura e anticontagio. 

 

“Un fenomeno che osserveremo è la nascita di quel che già viene definito new normal e che andrà a trasformare radicalmente il modo in cui le persone frequentano il luogo di lavoro”, dice Dario Laurenzi, fondatore della Laurenzi Consulting, società specializzata in consulenza e realizzazione format ristorativi. “Questo cosa vorrà dire? Che probabilmente vivremo degli orari diversi, senza più le concentrazioni a cui siamo abituati nei locali da pranzo per uffici. Dietro il new normal si nascondono occasioni, nella ristorazione come altrove, per riconquistare ciò che avevamo perso: un tempo il ristorante era un ambiente per pochi, quasi elitario, e la scommessa sarà quella di mescolare i dati dell’alta qualità con un consumo a base molto ampia. Sarà questa la sfida, sarà questa la vera ripartenza”. 

 

Ci troveremo senza dubbio di fronte a uno scenario mutato nel profondo e a mutare saranno proprio abitudini e tempistiche della ristorazione in generale: cene, aperitivi, pranzi della domenica, brunch, colazioni al bar, torneranno a essere occasioni speciali, non scontate ma frutto di desideri e scelte.

  

E a proposito di scelte, assisteremo alla nuova epoca del picnic, già immancabile nella routine di ognuno ma, per i prossimi mesi, di certo destinato a spopolare. Simposio all’aperto fatto di ricette genuine e chiacchiere, il picnic è parte del nostro immaginario collettivo, segna l’arrivo della bella stagione ed è adatto a tutte le tasche. “È il momento di aprire i nostri giardini e i nostri cestini. Di necessità virtù: torna di moda la formula eterna del picnic, la più appropriata per ritrovarsi insieme nella cosiddetta fase 2”, dice Annamaria Tossani, giornalista esperta di costume e galateo. “Portiamo tanta frutta e piccoli dolcetti, magari una torta fatta in casa ma comunque già porzionata e cerchiamo di eliminare pirofile, teglie, griglie, pentolini così da semplificare il tutto. Più velocità anche nel mangiare, stop alle scampagnate di un tempo dalla durata infinita, così da avere anche la possibilità di correre e godere della natura, leggere sotto la fronda di un albero, ascoltare musica e soprattutto ascoltare noi stessi, bisogno forte e chiaro mai come adesso”. 

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