Il disastro di non avere più culture politiche e il bluff del personalismo

Paolo Cirino Pomicino

Il caso Umbria letto come declino delle identità e i rischi di implosione dei partiti leaderistici: da Grillo a Berlusconi (a Renzi?)

Roma. Il voto dell’Umbria ha spinto molti politici a dare valutazioni superficiali sugli effetti che quel voto può determinare. Guardiamo ai fatti. Il primo dato è la riduzione del 50 per cento dei voti dei Cinque stelle (dal 14 per cento delle europee al 7 di oggi) che testimonia il declino inarrestabile di un movimento dai profili alcune volte inquietanti ed altre volte comici ma sempre inadeguati. L’Italia ha sempre avuto movimenti politici di questo tipo. Il ricordo va all’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini che pure ebbe alla sua prima uscita nelle elezioni della Costituente nel 1946 diverse decine di parlamentari. Però fu rapidamente assorbito perché c’erano i grandi partiti di massa forniti non solo di una organizzazione importante ma anche di culture precise e diverse e tutte in grado di offrire quel senso di appartenenza che resta sempre la chiave per l’adesione dei militanti e per il consenso degli elettori. E questo è il punto cruciale delle debolezze partitiche che le elezioni in Umbria hanno ancora una volta confermato.

 

Mentre l’attivismo frenetico di Salvini corroborato da una cultura visibile anche se molte volte inquietante dà alla Lega una identità comprensibile, nel centrosinistra i partiti ed i movimenti camminano nel vago senza una bussola e senza una visione. Quasi tutti danno da tempo un giudizio pesante sul Pd concentrandosi sulla figura del segretario, secondo la logica perversa della personalizzazione. Alla domanda “caro Zingaretti ma voi chi siete?” il segretario del Pd risponderebbe “siamo la sinistra democratica e costituzionale”. Dire la parola sinistra senza qualificarla è dire sostanzialmente nulla. La sinistra può essere comunista, socialista, cattolica, liberale, ecologica, radicale ma non può essere un qualcosa di tutto un po’ racchiusa nell’altro termine altrettanto generico “democratico”, che negli Stati Uniti ha dietro di sé due secoli di battaglie mentre in Europa resta un termine vago.

 

La follia di quel lontano 2007 in cui Rutelli e Fassino misero insieme le culture socialiste, democristiane e post comuniste a distanza di oltre un decennio si dimostra tutta. E’ la drammatica scomparsa di una propria identità che possa alimentare una visione e una militanza. Ecco perché noi, pur sostenendo da dieci anni la necessità di sciogliere quella fusione a freddo tra i i Ds e la Margherita, restiamo delusi della nascita del partito di Renzi che ha scelto un nome che non dice quasi nulla di politico al paese. Renzi da tempo sta sciupando un talento indiscusso perché forse ritiene che il proprio nome sia ad un tempo una cultura ed una identità. Ma così non è e quando questo dovesse avvenire, una volta che tramonta il personaggio che alimenta la vitalità di un partito si estingue anche il partito.

 

E’ stato così con Berlusconi, fu così con Bossi che aveva portato la Lega a poco più del 4 per cento. I leader del passato, al contrario, resistevano per decenni ed erano tali anche fuori dal governo perché la loro autorevolezza non era legata alla funzione governativa quanto alla cultura politica che avevano alle spalle ed alla loro visione. Dire come ha spiegato lo stesso Renzi che Italia viva è un partito democratico e liberale è dire niente e male. Noi auspichiamo che Renzi nel prosieguo ci smentisca nell’interesse del paese che ha bisogno come l’aria di recuperare un partito centrista e di ispirazione cattolica come accade in Germania, in Austria, Spagna e in tantissimi altri paesi. Questa mancanza di culture e di identità si riversa inevitabilmente anche nel governo intorno al quale i partiti si affastellano come piccoli comitati elettorali. La legge di bilancio, poi, è l’occasione migliore per porre le bandierine dimostrando ancora una volta la confusione anche metodologica in cui è caduta la Repubblica. Ma quando mai le leggi di bilancio nel corso della sua redazione vedevano il coinvolgimento dei responsabili economici dei partiti? Mai! I ministri finanziari si interfacciavano con i ministri di spesa e il giorno prima del Consiglio dei ministri illustravano ai segretari di partito le linee di fondo della politica economica nella legge di bilancio per l’anno successivo. Il giorno dopo il Cdm l’approvava (che significa oggi la comica frase “salve intese”?) e subito dopo la parola passava al Parlamento che esercitava la sua sovranità. Direbbe l’indimenticabile Califano: il resto è noia. Noi umilmente aggiungiamo che è anche pericoloso per il paese.

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