21 ottobre 2018. Militanti grillini al Circo Massimo per Italia a 5 Stelle (foto LaPresse)

I silenzi contro i giacobini dell'ecologia

Claudio Cerasa

Oltre l’Ilva. L’ambientalismo giustizialista è come la fogna di Nuova Delhi

Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, a margine di un’audizione tenuta ieri in commissione Finanze alla Camera, ha detto di essere d’accordo con il Foglio, sul caso Ilva, e ha fatto suo il titolo pubblicato sul nostro giornale: “Whatever it takes to save Ilva”. Gualtieri ha detto di essere convinto “che un paese serio debba fare tutto il necessario per evitare quello che sarebbe un esito negativo e drammatico” e probabilmente anche il ministro sa che in questo momento fare tutto il necessario per evitare la fuga degli investitori stranieri significa essere disposti a salvare Ilva chiedendo una mano all’opposizione per introdurre quello scudo penale che il M5s non sembra avere intenzione di reintrodurre (la linea del M5s, fatta propria ieri anche dal ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli, è che se ArcelorMittal non aspettava altro che avere un pretesto per andarsene, beh, la porta d’uscita è quella, grazie).

 

Oltre alla battaglia politica interna alla maggioranza (riuscirà il Pd a dimostrare di non essere la sesta stella del M5s?) la storia di Ilva nasconde però una battaglia nella battaglia che è quella che riguarda una partita culturale che nessuna forza politica sembra avere oggi intenzione di combattere con credibilità. Quella battaglia riguarda la ragione per cui l’Italia si è ritrovata nelle condizioni di dover garantire a un investitore straniero uno scudo penale per investire in Italia. E una volta che i commentatori dei grandi giornali avranno smesso di perdere tempo a giocare con i loro tic industriali per dimostrare che in fondo gli indiani di ArcelorMittal questa Ilva proprio non la volevano salvare (davvero è questa la tua linea, cara Rep.?) sarebbe forse il caso di allargare l’obiettivo della nostra telecamera per mettere a fuoco un tema che nessuno vuole inquadrare e che costituisce però la vera ciccia della storia di Ilva: le conseguenze generate sul tessuto economico italiano dalla fusione a freddo tra un ambientalismo giacobino e una magistratura ideologizzata.

 

Alla radice del caso Ilva c’è una battaglia che va ben al di là del conflitto tra diverse fazioni della politica e che è cominciata la mattina del 26 luglio del 2012, quando il giudice per le indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco, firmò un provvedimento di sequestro degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto, confermato poi pochi giorni dopo, il 7 agosto, dal tribunale del Riesame. All’epoca, il governo in carica era quello di Mario Monti, il quale pochi mesi dopo firmò un decreto legge (convertito poi il 24 dicembre) per sbloccare gli impianti sequestrati dalla magistratura e imporre all’azienda l’avvio immediato degli investimenti per la bonifica ambientale dell’area e l’introduzione delle “migliori tecnologie produttive”. A quel decreto rispose ancora il gip di Taranto che decise di fare ricorso, contro la legge, alla Corte costituzionale, alla quale venne di fatto affidato il compito di verificare se non fosse stato menomato un potere della politica: il tentativo da parte di una procura di voler guidare la politica industriale del secondo paese più industrializzato d’Europa. In quel passaggio, il gip di Taranto, che intanto era diventa un’eroina delle gazzette delle procure, perse la sua battaglia e si ritrovò a fare i conti con un principio ricordato magistralmente dalla Corte: il diritto di fare politica industriale non spetta ai magistrati, ai giudici o alle procure ma spetta al potere politico. 

 

Ovvero: “L’avere l’amministrazione, in ipotesi, male operato nel passato non è ragione giuridico-costituzionale sufficiente per determinare un’espansione dei poteri dell’autorità giudiziaria oltre la decisione dei casi concreti. E una soggettiva prognosi pessimistica sui comportamenti futuri non può fornire base valida per una affermazione di competenza”. La radice storica dello scontro su Ilva è utile da rievocare perché ci permette di ricordare quello che pochi politici e pochi commentatori hanno avuto in queste ore il coraggio di ammettere: quando un paese si ritrova a fare i conti con una magistratura convinta di aver ricevuto per volontà dello spirito santo il compito di affermare una propria competenza sulle politiche industriali di un paese – e quando quel paese si ritrova ad avere un movimento politico nato anche per rappresentare quelle istanze politiche – non ci si può stupire se alcuni investitori chiedano come condizione per investire in Italia la garanzia di essere coperti dalla mannaia giudiziario-ambientalista per reati eventuali commessi prima del loro arrivo.

 

E un paese consapevole del rischio della deriva giustizialista-ambientalista (vale per il caso Ilva ma vale anche per il caso Tirreno Power) piuttosto che lisciare il pelo ai professionisti delle manette facili introducendo periodicamente in Parlamento nuove tipologie di reati ambientali (e piuttosto che continuare a dare fiducia a governatori come Michele Emiliano convinti che il problema dell’Ilva, che produce l’1,4 per cento del pil italiano, sia la sua stessa esistenza) dovrebbe fare di tutto non per assecondare ma per combattere questa follia. Dagli anni settanta a oggi, come sa bene chiunque abbia provato a governare l’Italia, l’ecologismo giacobino è stato più volte utilizzato come un’arma ideologica al servizio di una mobilitazione anti industriale e con ogni probabilità se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome i magistrati di Taranto (l’ex procuratore di Taranto si è candidato alle elezioni ed è poi divenuto assessore a Taranto e la stessa battaglia del M5s contro lo scudo penale nasce a febbraio quando il nuovo gip di Taranto si appellò alla Consulta chiedendo di verificare la costituzionalità dello scudo penale: la Consulta non rilevò alcun tratto di incostituzionalità) avrebbero utilizzato un approccio meno distruttivo per risolvere un problema come quello dell’Ilva. Con grande indignazione, Angelo Bonelli, coordinatore dell’esecutivo nazionale dei Verdi, ieri ha detto che “lo scudo penale non esiste in nessun’altra parte d’Europa”. E’ possibile che sia così. Ma se è così è anche perché in nessun’altra parte del mondo esiste un ambientalismo giacobino marcio come quello che ha l’Italia, più inquinato, come da celebre definizione di Jovanotti, dello scarico della fogna di Nuova Delhi. Un paese serio desideroso di non mandare via a calci nel sedere tutti gli investitori stranieri forse dovrebbe provare a ripartire da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.