L'asse Conte-Renzi
Sul timing della scissione c’è anche lo zampino del premier. Come cambiano gli equilibri nel governo
Roma. Più che l’operazione in sé, messa comunque già nel conto delle rogne da dover affrontare, a turbare l’animo di Luigi Di Maio sono i tempi. “Insomma Renzi scalpita davvero”, sorride, mescolando stupore e scetticismo, Laura Castelli, fresca di riconferma al Mef. E, nel dirlo, manifesta uno stupore che è lo stesso che prova pure il capo politico del M5s, che trascorre la giornata nella sua trincea della Farnesina ad assistere, quasi da spettatore disinteressato, al maturare degli eventi. “Per noi non cambia nulla”, ha cercato di rasserenare i suoi fedelissimi che lo interpellavano. Certo, come confessa un ministro grillino, “questa scissione complica tutto, perché già dovere trovare i compromessi in due non è facile”. Figurarsi, dunque, se davvero anche Teresa Bellanova otterrà la promozione a capo-delegazione renziana nel governo. Ma Di Maio non si scompone: “In ogni caso, con Renzi si sarebbe comunque dovuto farci i conti, lo sapevamo”, dice il ministro degli Esteri, dissimulando una serenità che forse non era totalmente reale. Perché il timore di Di Maio, non proprio infondato, è che a dettare l’accelerazione all’ex premier sia stato quello attuale, di premier, quel Giuseppe Conte che non ha mai interrotto i contatti col Giglio Magico, e che negli scorsi giorni è stato contattato dallo stesso Renzi: “Il governo non è a rischio”. E pare che proprio l’“avvocato del popolo” abbia, se non suggerito, quanto meno assecondato la fretta del Rottamatore redivivo, convinto che il momento sia propizio. E infatti a chi, ieri, gli chiedeva se non temesse di avere fatto il passo più lungo della gamba, lui si limitava a rispondere con un laconico “la politica non è per tutti”.
La politica, o se non altro quel surrogato della politica che s’invera nella tattica, lo ha convinto a spingersi oltre il confine del Pd: perché quello “spazio enorme che si è aperto al centro”, come lo fotografa un esperto della materia come Bruno Tabacci, agli occhi di Renzi è apparso improvvisamente minacciato da troppe ombre incombenti. E tra queste, anche quella di Carlo Calenda, che pur rivendicando la coerenza dei puri ha intanto sguinzagliato il suo sherpa Matteo Richetti a raccogliere proseliti e adesioni, a costruire una “rete bianca” di contatti perfino in quel centro cattolico che apparentemente così poco si confà all’esuberanza dell’ex ministro dello Sviluppo. E Richetti si è infatti subito messo all’opera, e non a caso ieri pomeriggio ha offerto un caffè, a due passi dal Senato, a Giorgio Merlo, ex deputato del Pd e oggi sindaco di Pragelato, nel Torinese, che porterebbe in dote anche l’ex senatore montiano Gianluca Susta. L’eterno ritorno del centro, con tanto di programmate scampagnate a Santa Tecla e ad Assisi, e con un caveat ben chiaro: “Diffidare di Pier Ferdinando Casini, che in questa fase – così Richetti catechizzava il suo interlocutore – è una specie di consigliere di Renzi”.
Chi invece, per conto di Renzi, svolge impensabilmente il ruolo di mediatore, è Luigi Marattin. Che si è incaricato di tranquillizzare i grillini, che poi hanno riportato il messaggio distensivo al loro capo. “Il timing della scissione – dice il deputato del Pd – è scelto proprio per togliere ogni dubbio sui possibili rischi al governo. Se fosse fatta in seguito, sarebbe in teoria legittimo dubitare. Ma se la fai pochi giorni dopo la nascita dell’esecutivo, è evidente che non lo vuoi far cadere, bensì rafforzare”. Il che presuppone l’ingresso di qualche forzista in libera uscita. Nuovi arrivi che però non sembrano mettere in imbarazzo lo stato maggiore del M5s. “Se altri membri del Parlamento decideranno di mettere la faccia, e il voto, su provvedimenti che servono agli italiani, compresa l’apposizione di una eventuale fiducia, mica glielo vietiamo”, dice il tesoriere grillino Sergio Battelli. “Ma questo – ammonisce – non deve diventare un ricatto per ‘avere qualcos’altro’”. Roberto Maroni, tornato ad affacciarsi alla buvette della Camera con l’aria di chi fiuta l’odore dei riposizionamenti, capisce l’allusione e scuote la testa: “Ma perché i fuoriusciti Forza Italia dovrebbero aderirvi ora? Semmai lo faranno tra un anno, quando ci saranno da assegnare le nuove presidenze di commissione”. A meno di ipotizzare una “operazione verdiniana”, per cui, in ogni caso, entrare in maggioranza è sempre meglio che no. Che poi, raccontano, è stato proprio uno dei dubbi espressi a Renzi, nelle ore decisive, da Luca Lotti e Lorenzo Guerini. Che non seguiranno il loro fu leader, né lo faranno le loro folte truppe di Base Riformista che in molti al Nazareno hanno spesso considerato come “diversamente renziane”. E i sospetti che serpeggiano in Transatlantico, quelli su un perverso gioco d’intesa tra chi resta e chi esce, s’infrangono in verità contro la voce dello stesso Lotti che a metà pomeriggio si premura di richiamare all’ordine chi, tra i suoi, ha assunto posizioni ambigue sull’opportunità della scissione. “Base Riformista resta nel Pd”, sentenzia Enrico Borghi. Che però, quando gli si chiede di spiegare meglio, dice che “l’atteggiamento dipenderà da come ci considera il segretario e se capisce o meno il ruolo di ‘argine plurale’ che possiamo avere”. E poi condivide una metafora storica: “De Gasperi riservò un trattamento di favore all’Alto-Adige, per evitare l’annessione all’Austria. Vediamo se Zingaretti ha studiato bene la storia”.
Quanto a Renzi, invece, la storia appare chiara. “Se fa questa scissione – dice Maroni – lo fa per giocarsi la partita delle nomine di marzo 2020”. E l’analisi del leghista coincide di fatto con quella che offre il grillino Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa sopravvissuto alla buriana dello spoil system. “Ci sta che Renzi voglia contare di più, è naturale”. E nel dirlo, non sembra affatto scandalizzato.
Antifascismo per definizione