Urbano Cairo (foto LaPresse)

Un altro governo è possibile. Il manifesto politico di Cairo

Annalisa Chirico

Il fallimento del M5s, il flop della Lega, le criticità del governo rosso-giallo, l’Europa come perno del futuro. E poi i giornali, il calcio e cinque idee per rilanciare l’Italia. Chiacchierata con Urbano Cairo, che gioca con la discesa in campo

Non è più questione di se, ma di quando. Urbano Cairo scende in campo senza scendere in campo. “Al momento l’idea non mi sfiora”, dice lui. Poi aggiunge: “Progettavo la scalata a Rcs da dieci anni senza farne mai parola con nessuno, nell’assoluto riserbo. Un giorno l’ho realizzata. I sogni non si svelano in anticipo: si mettono in pratica”. Sono in corso le consultazioni quirinalizie, i gialloverdi galleggiano nel caos, Mattarella sbuffa, il Pd non sa a quale segretario votarsi, e il presidente di Rcs si dirige in macchina verso lo stadio per la partita del suo Torino. Per la prima volta in assoluto, Cairo non vuole parlare di calcio e tv, di giornali e settimanali. Solo politica, tanta politica. “Grillini e leghisti hanno fallito, mi pare evidente. Dove pensavano di andare?”. Al governo, presidente. “Non sono neppure deluso perché solo chi coltiva aspettative può esprimere delusione: io non ne avevo. Quel ‘contratto di governo’ era totalmente irrealistico, Salvini e Di Maio avevano agende inconciliabili. Come fai a tenere insieme flat tax, quota 100 e reddito di cittadinanza? Come si possono giustapporre politiche monetariste e keynesiane? Non si può promettere tutto e il contrario di tutto. Se annunci cose mirabolanti, la gente ti vota perché ha bisogno di una speranza, dal 2008 a oggi la condizione della classe media è obiettivamente peggiorata. Se però poi non sei in grado di trasformare le promesse in realtà, i cittadini ti voltano le spalle, e fanno bene”.

 

Il connubio gialloverde non doveva neppure cominciare? “Ci hanno fatto perdere quindici mesi, nel frattempo l’economia è entrata in stagnazione, e pure in politica estera non abbiamo fatto un figurone. Era davvero necessario sprecare questo lasso di tempo per prendere atto che il matrimonio non funzionava? Io, nelle mie aziende, determino il corso degli eventi nei primi cento giorni”.

Ci hanno fatto perdere mesi, l’economia è entrata in stagnazione, e anche in politica estera non abbiamo ottenuto nulla

Insomma, i due l’hanno tirata troppo per le lunghe. “Le dico come la vedo io. Matteo Salvini è perfetto per le campagne elettorali, ha portato il suo partito dal 4 al 34 per cento delle elezioni europee, anche se un recente sondaggio segnala un repentino calo al 31, mi pare. Lui sa agitare le piazze, fomenta le folle da politico esperto qual è, ma governare è tutta un’altra storia. Facendo la voce grossa in Europa, che cos’ha ottenuto? Questo mostrare i muscoli così smaccato ha forse dato qualche frutto? E’ servito soltanto alla Lega che ha raddoppiato i consensi nel giro di un anno”.

 

Ora che ha mazzolato il leghista, mi dica qualcosa di Di Maio. Per par condicio. “Il M5s ha promosso in ruoli istituzionali gente senza esperienza, che non ha mai studiato, che non ha mai fatto la gavetta. La giovane età va bene ma da sola non basta. Non sempre essere giovani è la soluzione: la competenza è fondamentale, soprattutto di fronte ai problemi complessi in una società complessa. Non esistono ricette facili. Perciò un leader onesto non promette l’Eldorado: se non lo realizzi, la gente si stufa e l’escursione del consenso è fulminea”.

 

In molti vedono in lei il nuovo Berlusconi. “Io non sono e non sarò mai l’erede del Cavaliere. Io sono molto diverso da lui. Per essere ancora più chiaro: non vivo nell’attesa di ricevere una qualche investitura né intendo assumere la guida di partiti già esistenti che hanno attraversato una parabola puntellata di successi e fallimenti. Nella vita non si prende il posto di qualcun altro… Se si vuole compiere il grande passo, si dà vita a una creatura inedita, la s’inventa di sana pianta. Gli innovatori inventano il nuovo, non riciclano il vecchio”.

Un leader onesto non promette l’Eldorado: se non lo realizzi, la gente si stufa e l’escursione del consenso è fulminea

I toni sembrano quelli di una discesa in campo. “Al momento l’idea non mi sfiora, gliel’ho già detto”. Lei detesta gli appellativi di “berluschino” e “cavalierino”, eppure i punti di contatto sono più d’uno. “Le trovo espressioni spregiative. Io sono orgoglioso di aver lavorato per il Dottore, all’epoca avevo trent’anni, oggi ne ho più del doppio. Lui è sempre stato bravo nello sviluppare i ricavi delle aziende ma non si è mai occupato delle singole voci del conto economico, delegando questa attività ad altri. Io non delego”.

Lasciamo un attimo da parte il Cav. e torniamo al suo discorso sul consenso volatile, sull’elettorato fluido che tradisce facilmente. “Lo dicono i numeri: sotto la guida di Di Maio i grillini sono passati dal 32 al 17 per cento, Matteo Renzi ha portato il Pd dal 40 al 18 per cento delle scorse politiche. Nel caso di Salvini non so come andrà a finire”.

 

Lei è un attento osservatore delle parabole altrui. “La politica è vita. Io sono un imprenditore e seguo le cose della politica, certo. Oggi i social network hanno disintermediato il rapporto tra elettori ed eletti, siamo tutti sottoposti a uno scrutinio permanente, in tempo reale, e le bugie hanno le gambe corte. Per questo, ritengo che alla gente vada raccontata la verità: il momento è complicato, l’economia è in stagnazione, spirano venti di recessione a livello globale. Dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare sodo”.

 

Niente reddito di cittadinanza? “Non scherziamo, quello è un incentivo a non fare, o a fare nel sommerso. Oggi serve l’esatto opposto: le persone vanno spronate a mettersi in gioco e a rischiare, anche se non possono scegliere l’impiego dei loro sogni. Secondo me, nella vita è sempre meglio iniziare, poi da cosa nasce cosa”.

 

Il problema è il lavoro che manca. “Infatti un’agenda economica seria non dovrebbe partire né dai sussidi né da provvedimenti, tipo quota 100, che mirano a mandare prima la gente in pensione. Ché poi, e qui parlo da imprenditore, se vanno via tre dipendenti non è detto che li rimpiazzi tutti e tre. Pure il decreto dignità ci ha complicato la vita togliendo a tante persone la dignità di un impiego. Aumentando i costi dei licenziamenti e obbligando ad assumere a tempo indeterminato, molte aziende si sono trovate, giocoforza, nella condizione di non poter rinnovare i contratti flessibili, il che è del tutto irragionevole, soprattutto in un momento economico come quello attuale. La vita insegna che le cose precarie, spesso, sono le più durature. Capisco che vorremmo tutti un’occupazione ultra garantita ma non attraversiamo una fase di boom. Allora io dico: meglio un contratto a tempo che nessun contratto”.

 

Quali sono i capisaldi della Caironomics? “In primo luogo, vanno incentivati gli investimenti prevedendo un piano di robuste agevolazioni fiscali per le imprese che puntano sui beni produttivi. Va facilitato l’accesso al credito perché molte aziende affrontano problemi di liquidità anche di breve periodo e vanno sostenute, non penalizzate. Terzo punto: un cuneo fiscale esorbitante ci penalizza rispetto ai nostri competitor. Se io pago un dipendente 70 mila euro l’anno, per quale ragione lui deve intascarne soltanto 30 mila? E poi serve una seria riforma fiscale che allenti il peso sulle famiglie del ceto medio. Quinto e ultimo punto: la giustizia, in particolare quella civile. L’incertezza dei tempi per far valere un contratto disincentiva gli investitori”.

Il suo è un programma di governo. “Io sono un uomo che pensa, riflette, dormo cinque ore a notte, così ogni tanto mi arrovello sulle questioni che riguardano il mio paese dal quale ho ricevuto tanto”.

 

“L’Italia è il paese che amo”, disse qualcun altro. “Lei scherza ma io ho chiaro in testa quello che va fatto. Al momento, però, non sono nelle condizioni di poter assumere ulteriori impegni. Al momento, non saprei immaginarmi in ruoli diversi. Sulle mie spalle grava la responsabilità di cinquemila dipendenti diretti, persone in carne e ossa con le rispettive famiglie, cui se ne aggiungono altrettanti nell’indotto. Le aziende del gruppo, quando le ho acquistate, perdevano complessivamente tra i 350 e i 400 milioni l’anno, oggi ne guadagnano cento. Io le ho salvate”.

E’ venuto il momento di salvare il paese? “Lei insiste, è una donna insistente, ma io le ho già detto che al momento non posso farlo. Poi, in futuro, non si può mai sapere che cosa la vita ti riserva”.

 

“Io non sono e non sarò mai l’erede del Cavaliere. Io sono diverso da lui.
Per essere più chiaro: non vivo nell’attesa di ricevere una qualche investitura né intendo assumere la guida di partiti già esistenti che hanno attraversato una parabola puntellata di successi e fallimenti”

 

E’ vero che ha spulciato il bilancio dello stato? “Sì, ho dato un’occhiata per capire entrate, uscite, come funziona. Mi piace andare in fondo alle cose. Ho scoperto che i soli costi di beni e servizi – non parlo né di dipendenti pubblici né di pensionati – ammontano a oltre 180 miliardi l’anno. Un’enormità. Se riduci un po’, puoi fare una manovra super espansiva, allora sì che metti i soldi nelle tasche degli italiani e gli italiani li spendono. Tagliare la spesa pubblica non è un’impresa folle: è possibile”.

 

Lei ha la fama di tagliacosti sparagnino: leggendarie le sforbiciate sui taxi che a La7 costavano cinquecentomila euro l’anno. “Qualche tassista si sarà risentito, pazienza, intanto noi abbiamo risparmiato. Poi, vede, alcuni tagli colpiscono la fantasia, poi ce ne sono altri che impressionano meno ma sono assai più rilevanti per efficientare una società. Io ho acquistato aziende in rosso, destinate alla catastrofe, e le ho risanate senza licenziare nessuno. Nelle mie aziende non mi occupo soltanto di tagli ma sviluppo anche i ricavi. Così, fuor di metafora, all’Italia non serve l’ennesimo Mr. Spending review, né un ministro incaricato di sforbiciare qua e là. Serve un capo con una strategia e una visione per il futuro”.

Lei a Palazzo Chigi, insomma. “Qualcuno deve farlo, io lo faccio nelle aziende, potrei farlo altrove, ma al momento non ci penso, glielo ripeto, non mi sfiora l’idea… Poi, nella vita, mai dire mai”.

 

Lei adora elencare, con un certo compiacimento padronale, le cifre dei suoi successi imprenditoriali, e i giornali che a lei fanno capo esaltano le epiche gesta. “Mah, una macchina del consenso in mio favore? Se c’è non me ne sono accorto. Alcuni numeri vengono diffusi perché sono di pubblico interesse. Aggiungo che l’adulazione servile mi dà fastidio, se fatta con un po’ di ironia può far piacere. Poi, vede, io sono orgoglioso di quello che ho realizzato perché sono partito da zero. Io mi sono fatto da solo. La mia è una famiglia di piemontesi trasferiti a Milano, mia madre faceva l’insegnante, mio padre era un rappresentante di mobili, ha lavorato per tanti anni per una ditta che produceva ingressi, salotti, tinelli. Era un venditore, io mi sono ispirato a lui”.

Masio è il borgo dell’alessandrino, popolato da millecinquecento anime, dove lei è cresciuto. “Lì mio nonno e mio zio facevano gli agricoltori, da piccolo mi divertivo a raccogliere con loro le barbabietole. Mi davo da fare”.

Una certa dose di narcisismo è il peccato veniale di ogni leader che si rispetti. A proposito del Torino, acquistato nel 2005, lei ha detto che è un affare in perdita ma “essere amati è bellissimo, e questo amore in Italia te lo dà solo in calcio”. “E’ vero, i tifosi ti trasmettono un calore pazzesco, la gente ti ferma per strada per manifestarti il suo affetto. Mi riempie d’orgoglio sentire che tante persone credono in me”.

 

Sono le stesse che attendono la sua discesa in campo? “Non le nascondo che ricevo numerose sollecitazioni in tal senso… In tanti mi chiamano e mi dicono: ma quando ti decidi? E’ venuto il tuo momento. Tocca a te. Devi darti da fare per il paese… Io ascolto tutti, con umiltà, mi fa piacere sapere che qualcuno mi considera il punto di coagulo di un nuovo schieramento centrista. Però, come le ho detto, al momento l’idea non mi sfiora”.

In effetti, lei è un centrista devoto: ha votato Dc ai tempi di Zaccagnini, Forza Italia nel ’94, poi Marco Pannella, mai Msi né Lega. “Lei è informata, confermo”.

 

“Reddito di cittadinanza? Non scherziamo. All’Italia oggi serve
l’esatto opposto: le persone vanno spronate a mettersi in gioco e a rischiare, anche se non possono scegliere l’impiego dei loro sogni. Secondo me,
nella vita è sempre meglio iniziare, poi da cosa nasce cosa” 

  

So pure che periodicamente domanda all’istituto di sondaggi Swg di misurare il suo grado di popolarità. “Certo, è importante monitorare il livello di apprezzamento del proprio operato. Del resto, io devo rispondere a numerosi stakeholder, per non parlare dei dipendenti, dei lettori…”.

Quest’anno le è stato assegnato il primo posto nella classifica “Top manager reputation”, seguìto dall’ad Enel Francesco Starace e dal presidente di Fca John Elkann. “Mi ha fatto piacere”.

A maggio ha firmato con Papa Francesco il biliardino della Gazzetta dello sport. “Quello con il Pontefice è stato un incontro emozionante, un vero onore. Il calcio che amiamo vede protagonisti i giovani, il nostro futuro. Il calcio è inclusione, accoglienza”.

A marzo, con la fondazione Guido Carli, ha incontrato nuovamente il capo dello stato Sergio Mattarella. Le manca soltanto Greta Thunberg. “E’ uno dei prossimi appuntamenti in cantiere… Nell’attesa, ho preso Licia Colò che un po’ le somiglia, anzi è più carina. Scherzo”.

 

Donald Trump è la sua cup of tea? “E’ uno spirito controcorrente, impossibile da imbrigliare… Va riconosciuto che le politiche economiche messe in campo dalla sua amministrazione stanno dando risultati positivi. Il tasso di disoccupazione statunitense è sceso al 3,6 per cento, ai minimi dal 1969”.

Trump è il leader populista, politically uncorrect, che dichiara guerra all’immigrazione incontrollata. Un po’ come Salvini con lo slogan dei “porti chiusi”. “Io, per carattere, tendo piuttosto al politicamente corretto, sono un moderato nelle parole, lo considero un segno di rispetto verso il prossimo. Quanto ai flussi migratori, una politica responsabile deve gestirli senza ipocrisia. I migranti politici sono un conto, quelli economici sono tutta un’altra storia. Qualunque ricetta, concepita senza o contro l’Europa, è destinata a fallire. Per regolare l’immigrazione l’Europa deve giocare un ruolo da protagonista, e difficilmente ciò accade se si applica la logica del muro contro muro. Per farti valere a Bruxelles, devi avere doti diplomatiche, devi saper dialogare. A che serve annunciare che sforerai il deficit se poi, a un passo dall’infrazione europea, ti ritrai con la coda tra le gambe? Così perdi ogni credibilità e passi per un facinoroso inconcludente. Peraltro mi pare che in questi mesi il governo abbia costruito uno schema di alleanze sbagliato che ci ha condotto all’isolamento, anche rispetto ai nostri partner tradizionali, Francia e Germania. Voglio dire, Salvini ha rincorso i paesi di Visegrád, Polonia e Ungheria in testa, e i cosiddetti ‘sovranisti europei’ come lo hanno ricompensato? Hanno accordato zero flessibilità al nostro paese in materia di conti pubblici e si sono rifiutati di collaborare per i ricollocamenti dei migranti. Per paradosso, poi, gli stessi che menano contro l’Europa matrigna non sono in grado di impiegare integralmente i fondi messi a disposizione dall’Europa. L’Italia non va da nessuna parte se non capisce che viviamo in un mondo interconnesso: il nostro debito pubblico è detenuto anche da risparmiatori europei, e se non siamo in grado di rifinanziarlo non abbiamo più le risorse per pagare gli stipendi. Semplice”.

  

“Le mie idee? Vanno incentivati gli investimenti con robuste agevolazioni fiscali per le imprese. Va facilitato l’accesso al credito. Serve un taglio
del cuneo fiscale. E poi occorre una seria riforma che allenti il peso
delle tasse sulle famiglie del ceto medio. E infine la giustizia:
i tempi lunghi scoraggiano sempre più gli investitori”

 

Lei è pronto per la prossima campagna elettorale, presidente. “Non ho capito quando si andrà a votare, l’autunno mi sembra davvero una mossa avventata, c’è una manovra da fare, i risparmi degli italiani vanno tutelati”.

Pd e M5s tentano l’accordo in extremis. “Mah, mi pare che sia un percorso dall’esito incerto, le formule di palazzo non mi convincono. Serve chiarezza di programma per un governo coeso ed efficace”.

Flavio Briatore ha annunciato la nascita del Movimento del Fare, rivolto a chi lavora e produce. “Ho letto, ho letto, ma non sono interessato a quel movimento lì.…”.

 

Facciamo un’ipotesi del terzo tipo, dell’irrealtà: ove mai lei decidesse di servire il paese dal quale ha ricevuto tanto, come dice lei, si porrebbe il tema dei suoi interessi in campo editoriale. Lo spettro del “conflitto” ha inseguito per anni il Cav. “Se le rispondessi, vorrebbe dire che mi sono posto il problema. Invece, poiché l’idea non mi sfiora, non l’ho fatto. Mi è chiaro tuttavia che sarebbe una scelta di vita, una cesura tra il prima e il dopo. Mi lasci dire che i giornalisti che lavorano per me e per noi godono della massima libertà. Io rifuggo dal pensiero unico: mi piace la dialettica tra tesi diverse e contrapposte”.

 

Una volta, ha detto a Berlusconi che i cosiddetti “comunisti”, anziché respingerli, avrebbe dovuto attrarli a sé. In effetti, la sua tv è un melting pot culturale: c’è il decano del giornalismo, Enrico Mentana, il bon ton austro-ungarico di Lilli Gruber e lo stile sovranista-pop di Massimo Giletti… Lei vuole piacere a tutti. “Per risolvere i problemi in una società complessa come la nostra, devi guadagnarti la fiducia e la collaborazione di una parte larghissima della popolazione. Io cerco sempre di conquistare il consenso più ampio possibile, anche in azienda. Se qualcuno avanza richieste economiche che non sono in grado di soddisfare, profondo ogni sforzo per ottenere la sua comprensione e guardare avanti verso risultati migliori”.

Lei è un persuasore. O un venditore, a seconda dei punti di vista. “In Rcs non ho mai avuto un’ora di sciopero, a La7 forse una volta. Vuol dire che funziona”.

 

Dalle parti di via Solferino si è registrato qualche pentimento tardivo di fronte alla performance gialloverde. Il Corriere ha titillato la rabbia e l’orgoglio contro la Casta. “All’epoca, l’editore non ero io, la mia scalata a Rcs risale all’estate del 2016. E’ vero che in una prima fase giornalisti e direzione hanno appoggiato i grillini, del resto c’era questa battaglia molto popolare contro certi privilegi, contro certi eccessi… Poi però, all’indomani della mia acquisizione, la linea è cambiata, c’è stato un ravvedimento”.

 

Si dice che i due Matteo, Renzi e Salvini, osservino attentamente gli orientamenti del Corriere, quasi fossero un termometro della sua determinazione a scendere in campo. “Io non somiglio né all’uno né all’altro Matteo, ho una storia e un profilo assai diverso, non ho mai fatto politica in vita mia. In generale, condivido la linea del quotidiano ma non interferisco mai con l’attività della direzione. Il direttore dirige, non io. Può capitare che io non apprezzi un articolo, mi sembra un fatto normale. Tuttavia, non enfatizzerei il ruolo degli organi di informazione. Voglio dire: se passi dal 40 al 18 per cento, com’è accaduto a Renzi, non è colpa del Corriere ma è perché hai commesso degli errori. La gente non cambia idea perché una notizia è collocata in alto o in basso in homepage”.

 

Torniamo al Cav. Pubblicità, squadra di calcio, giornali, libri, televisioni: manca solo la politica, il resto c’è tutto. “Al Dottore mi lega un rapporto di sincera ammirazione ma abbiamo poche cose in comune. Sono orgoglioso di aver mosso con lui i primi passi quando ero ancora un giovane studente universitario. Berlusconi è stato un formidabile imprenditore, soprattutto in campo televisivo. Come politico lo considero invece una promessa mancata. Poteva fare di più ma non è riuscito”.

 

Al momento, non saprei immaginarmi in ruoli diversi. Sulle mie spalle grava la responsabilità di cinquemila dipendenti, cui se ne aggiungono altrettanti nell’indotto. Le aziende del gruppo, quando le ho acquistate, perdevano tra i 350 e i 400 milioni l’anno, oggi ne guadagnano cento. Io le ho salvate

Eppure da bocconiano con il pallino dei numeri e del business, lei era inebriato dal carisma del Cav. al punto di telefonare alla sua segreteria. “Trovai il numero sull’elenco del telefono, Edilnord. 8880. Mi rispose la segretaria, la mitica Marinella. ‘Buongiorno, sono uno studente della Bocconi e vorrei parlare con il dottor Berlusconi. Ho due idee eccezionali. Se lei non gli permette di parlare con me, gli farà un danno’”.

Intraprendente. “Ottenni un appuntamento con Marcello Dell’Utri, poi con Berlusconi. Gli illustrai le mie due idee: interconnessione e informazione. Lui mi rispose che le aveva già avute e mi prese come assistente. Anzi, lui mi chiamava aspirante assistente, tanto per prendermi in giro”.

 

Con Dell’Utri lei non si prese benissimo. “Portai i ricavi della Mondadori Pubblicità da 390 miliardi di lire a quasi 500, ben otto punti di quota di mercato in più. Eppure nessuno mi diceva bravo. Io volevo dare una identità forte all’azienda mentre Dell’Utri voleva che fosse più sinergica a Publitalia nella raccolta pubblicitaria. Ho difeso questa autonomia per quattro anni, poi ho capito che il mio tempo si era esaurito e dovevo mettermi in proprio”.

 

Anche i rapporti con Franco Tatò che era il suo capo in Mondadori non erano idilliaci. “Non mi difese per niente, e comunque non ero il solo ad avere qualche difficoltà con lui. Da Tatò ho imparato come si controllano i costi, ma poi un’azienda devi anche risanarla. Se non sviluppi i ricavi finisci in un vicolo cieco”.

Si racconta che la sua scelta di patteggiare una condanna a diciannove mesi per false fatturazioni le inimicò il grosso del gruppo berlusconiano: i dirigenti Publitalia, all’epoca, respingevano compattamente le accuse. “Avevo fatturato con una mia società i premi di produzione incassati tra la metà degli anni Ottanta e i primi dei Novanta. Decisi di patteggiare perché volevo chiudere quella vicenda e dedicarmi alla mia nuova attività. Non potevo portarmi dietro fardelli. E poi il patteggiamento non è un’ammissione di colpa”.

 

Sia come sia, lei fu licenziato, e con i soldi della buonuscita fondò la Cairo Pubblicità. “La rottura fu traumatica, dovevo ripartire da zero. Mi pagarono due anni di stipendio, guadagnavo 400 milioni l’anno più altri 200 di incentivi. Con il senno di poi, fu una manna dal cielo, lì non ero più contento. Osservavo Berlusconi che realizzava cose straordinarie con una naturalezza incredibile. Era un periodo travolgente, di enorme sviluppo. Non potevo restare fermo, dovevo fare uno scatto e rischiare”.

 

Mi toglie una curiosità: perché scelse l’occhio come logo sui suoi primissimi biglietti da visita? “Quando mi misi in proprio, non avevo un ufficio né un collaboratore né un’automobile, Mondadori se l’era ripresa. Firmai un contratto con la Rizzoli che mi affidò la concessione della pubblicità di Io donna, Oggi e Tv7. Ricevevo le persone in un caffè del centro a Milano, al Sant’Ambroeus. Facevo tutto da solo. Stampai un biglietto da visita rosso con un occhio perché gli occhi della persona che ho di fronte sono un canale rivelatore. Dagli occhi capisco molto se non tutto”.

 

Berlusconi diceva che gli occhi di Cairo emanavano bollicine di intelligenza. “Lo disse a Montanelli il quale gli rispose: ‘Se segue i tuoi ritmi le bollicine scompariranno’”.

Qual è il suo difetto? “L’impazienza”.

L’errore della vita? “Forse dovevo cominciare a fare l’imprenditore cinque anni prima, poi ho recuperato”.

Un errorino, questo. “Fondai una società, Cairo Directory, una pessima idea. La chiusi poco dopo”.

 

Scendere in campo? Non le nascondo che ricevo numerose sollecitazioni in tal senso. In tanti mi chiamano e mi dicono: ma quando ti decidi? E’ venuto il tuo momento. Tocca a te. Devi darti da fare… Io ascolto tutti, con umiltà, mi fa piacere sapere che qualcuno mi considera il punto di coagulo di un nuovo schieramento

Si rimpinza ancora di dolci? “Da tre mesi ho smesso. Niente brioche al mattino, niente cioccolato in ufficio. Devo ammettere che mi sono molto asciugato, e poi cerco di camminare, la palestra non m’ispira granché. Per uno goloso come me, la carenza di zuccheri è un supplizio, sto provando a compensare con la frutta. Anche se ho scoperto che non bisogna esagerare neanche con la frutta. Esagerare fa sempre male”.

E’ vero che dorme cinque ore a notte? “Quando va bene”.

E va a cena alle undici di sera? Lo sa che fa malissimo? “Anche a mezzanotte, se è per questo. Io vivo in ufficio”.

Il primo quotidiano che sfoglia al mattino? “Il Corriere, poi la Gazzetta”.

Di più, Diva e donna, Effe, For men… il suo impero editoriale include una miriade di settimanali e mensili. Riesce a sfogliarli tutti? “M’impegno. Se un periodico è fatto bene, con un’idea dietro, te ne accorgi anche da una rapida occhiata. I periodici di Cairo editore vendono 1,6 milioni di copie ogni settimana, a questi vanno sommati quelli Rcs, i vari allegati, e poi le pubblicazioni spagnole… Stare dietro a tutto è un esercizio sovrumano. Io ci provo”.

 

La cosa sorprendente è che lei, oltre a essere un editore puro, riesce a macinare utili con i magazine pop. “Non è vero che con i giornali non si possono fare soldi. I soldi li fai se concepisci il prodotto non con la testa dei padroni ma con la testa di chi compra. Altrimenti la gente non va in edicola. In Italia diversi editori usano l’editoria per perseguire interessi diversi, di carattere economico o politico, per esercitare leve di influenza, per proteggere altre attività. I miei periodici potranno non piacere a qualcuno ma producono utili. Io faccio i giornali per vendere”.

 

Con il Cav. ha in comune il legame viscerale con la figura materna. A sua madre, Maria Giulia Castelli, dedica ogni anno un trofeo di calcio giovanile. “E’ scomparsa sette anni fa lasciando un vuoto incolmabile. Lei faceva l’insegnante, non era una donna particolarmente calorosa, anzi era riservata e austera, com’è nel carattere piemontese. Mi ha insegnato il senso del dovere, quello che io cerco di trasmettere, con l’esempio, ai miei quattro figli”.

Con il Cav. lei condivide pure la passione per il fascino femminile. “Beh, fa parte della natura. Non ci vedo niente di male”.

Lo vede allora che qualche analogia con il suo primissimo datore di lavoro esiste? “Il Dottore resta un fuoriclasse. L’importante è che lei scriva chiaro e tondo che io non sarò mai l’erede di qualcuno. Io sono molto diverso da lui. Io non attendo alcuna investitura. Nella vita non si prende il posto di qualcun altro. Chi vuole fare fa, e non lo svela in anticipo”. Grazie, presidente.