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(Non) si legge in città

Nella capitale degli editori la lunga crisi dei periodici provoca nuove mosse. E poi c’è Cairo…

Sempre meno copie vendute, sempre meno ricavi pubblicitari. Il mercato editoriale italiano pare non voler uscire dal tunnel che si è aperto, come una voragine, nel lontano 2008. La luce non si vede, questo va detto. E la fine della crisi non è visibile neppure da grandi gruppi editoriali internazionali. Che non per caso hanno le loro basi strategiche e operative a Milano, capitale dei giornali, e i cui cambiamenti, o rumors di cambiamenti, hanno poi ripercussioni lungo tutta la Penisola, come sciami sismici. Il primo segnale è che più o meno tutti gli editori, in particolare quelli concentrati sui periodici, si stanno dando un gran daffare per tagliare costi, che spesso significa licenziare, prepensionare o far scivolare dipendenti, ivi compresi i giornalisti. E se le case editrici di quotidiani guardano con particolare attenzione alle dichiarazioni e alle intenzione del neo sottosegretario con la delega all’Editoria, ovvero il piddino Andrea Martella, i competitor attivi principalmente sul fronte dei magazine (settimanali, mensili e così via) da tempo hanno attuato politiche di ristrutturazione che paiono non voler finire mai. Del resto, se in termini di advertising i quotidiani perdono (a fine luglio) il 10 per cento, i periodici scendono inesorabilmente di più (- 14 per cento). Se nel 2014 la raccolta pubblicitaria dei magazine ammontava a 495 milioni, quest’anno dovrebbe attestarsi sui 318 milioni, ossia il 30 per cento in meno, un terzo del mercato di riferimento.

 

E’ così che, forse, si spiega la volontà di Mondadori, primo operatore del settore nazionale con una quota del 28,8 per cento, che sta valutando l’ipotesi di societarizzare la divisione Periodici (come avvenuto per la Libri e la Retail) in vista di una futura, possibile cessione, in toto o di singole testate, o magari andando alla ricerca di un alleato. Del resto, a Segrate si sono già disfatti di quella che un tempo era l’ammiraglia del gruppo, prediletta di Silvio Berlusconi, Panorama, rilevata da Maurizio Belpietro. I Berlusconi, però, non sono gli unici che si stanno muovendo. Da alcuni anni i big esteri quali Condé Nast ed Hearst hanno avviato politiche di ristrutturazione con forti incentivi all’esodo dei giornalisti (Condé Nast arrivò a offrire fino a 40 mensilità per di tagliare l’organico giornalistico) e la trasformazione in player digitali. Una strada che per ora non ha portato a risultati concreti, neppure passando dalle Academy (chi ne sente più parlare dopo le roboanti presentazioni?) per fare crescere futuri influencer, modello Chiara Ferragni, che però i soldi li fa con le foto su Instagram e con i vestiti. Hearst, invece, dopo avere spostato le redazioni dei siti in Svizzera, ha provato a dare una svolta al suo portafoglio, fondendo il mensile d’alta gamma Elle con il settimanale più mass-market (non ce ne voglia la Casalinga di Voghera), Gioia. Un’operazione tutta da valutare ancora. E notizia di questi giorni: sarebbe stato il benservito a una figura storica, tra l’altro già in pensione, quale quella di Antonella Antonelli che dopo aver trascorso oltre trent’anni a Marie Claire (per 10 anni ne fu il direttore), a inizio 2018 era stata nominata Fashion vice president at large di Hearst Italia. Il tutto dopo che in maggio il gruppo aveva avviato lo stato di crisi con il taglio del 30 per cento degli stipendi e dichiarato 26 esuberi a Hearst Magazines Italia e una decina a HMC Italia, che pubblica Marie Claire e Marie Claire Maison.

 

Ma la crisi quasi irreversibile che ha colpito l’editoria italiana e non solo (anche in Francia ci sono segnali assai evidente di débâcle come dimostra la vendita della controllata locale definita nei mesi scorsi da Mondadori), colpisce indistintamente i player del settore. Così passando dalla carta al web ecco che proprio in questi giorni è stata definita una mini-rivoluzione al giornale online Linkiesta, lanciato diversi anni fa da un pool di finanzieri, manager, imprenditori italiani che si erano uniti attorno al banchiere d’affari Guido Roberto Vitale, morto nel febbraio scorso, e al commercialista Andrea Tavecchio: alla direzione, al posto di Francesco Cancellato (passato a Fanpage), è arrivato Christian Rocca, già fogliante, ex Sole 24 Ore e direttore del mensile di via Monterosa, IL. In bocca al lupo. Rocca proverà a importare i tratti di quegli stili giornalistici in una creatura fragile. Non è una sfida facile: nel 2018 Linkiesta ha registrato sia un netto calo di utenti unici totali (da 22 a 18 milioni) sia delle page view, scese da 54 a 50 milioni nell’arco di un anno. Trend negativo che ha portato a una diminuzione del fatturato da 421 a 393 mila euro con una perdita di 266 mila euro rispetto a un rosso di 169 mila del 2017. Così gli azionisti in estate hanno dovuto varare un nuovo aumento di capitale da 240 mila euro. Ps: a Milano, nei corridoi della finanza e nei salotti buoni, circola una indiscrezione, da prendere tutta con le pinze: la tedesca Burda, più che la connazionale Axel Springer, ha dato un’occhiata ai numeri di Rcs, nel caso in cui Urbano Cairo dovesse decidere di fare il grande passo e buttarsi in politica.

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