Il populismo ci ha mostrato l'Italia dell'irrealtà
Voto o non voto il risultato non cambia: un paese che costruisce la sua agenda sulla base delle percezioni si occuperà sempre più del percepito e sempre meno del reale. Due vaccini possibili per sconfiggere con la realtà il virus populista
Sappiamo ancora sognare la luna? Non si sa quando succederà, non si sa se succederà, non si sa se si voterà, non si sa se il governo reggerà, non si sa se lo scazzo si risolverà ma ciò che si sa, invece, è che quando Matteo Salvini deciderà di staccare la spina a un governo ormai decotto da mesi ci sarà una domanda cruciale alla quale ogni anti sovranista con la testa sulle spalle avrà il dovere di dare una risposta efficace: che errori non andranno commessi per evitare di regalare al trucismo di governo un’autostrada ancora più grande rispetto a quella che esiste già oggi? A giudicare dal fatto che gli elettori considerino come alternativa naturale al governo uno dei due partiti azionisti del governo si potrebbe dire che il disastro delle opposizioni è in qualche modo già certificato dalla realtà. Ma se solo si volesse osservare l’Italia di oggi con una lente di ingrandimento diversa rispetto a quella offerta dai campioni del sovranismo, si potrebbe facilmente capire che, al di là del tema non secondario della leadership, la chiave migliore per ridurre la distanza tra i partiti al governo e quelli all’opposizione è mettere a fuoco quali sono alcune grandi balle raccontate sull’Italia che hanno permesso al virus populista di diffondersi nel nostro paese con una certa velocità.
In un anno di governo i populisti sono stati travolti spesso dal fenomenale rullo della realtà ma in un certo senso è anche grazie ai populisti che l’Italia di oggi avrebbe gli strumenti giusti per osservare il nostro paese con un occhio diverso e meno ingenuo rispetto al passato.
Si è detto che il populismo si è affermato in Italia a causa di una insostenibile povertà diffusa a macchia d’olio all’interno della nostra penisola, ma a quattro mesi dall’introduzione di uno strumento che, come da promessa di Luigi Di Maio, avrebbe dovuto abolire la povertà, si può dire, per fare un primo esempio, che i numeri raccontati in Italia sulla povertà non corrispondono alla realtà. Pasquale Tridico, creativo, diciamo così, presidente dell’Inps, la scorsa settimana ha fatto sapere che in tutto sono state un milione e trecentomila le richieste pervenute per ottenere il reddito di cittadinanza e che in totale ne sono state accolte 840 mila. Di queste in particolare, ha aggiunto Tridico, 700 mila sono per il reddito e circa 100 mila per la pensione di cittadinanza, mentre 340 mila sono state quelle rifiutate. In tutto, ha detto sempre Tridico, il reddito di cittadinanza “raggiungerà circa 900 mila nuclei familiari pari a 2,5-2,7 milioni di individui per un reddito medio di 490 euro”. La povertà non è una bugia ma la bugia, stando ai numeri del reddito di cittadinanza, è legata alla dimensione del problema: un conto è parlare di 6 milioni di poveri in Italia, come facevano Di Maio e Salvini prima di arrivare al governo, un altro è parlare di 2,7 milioni di poveri (la stessa cosa è successa con il numero degli immigrati irregolari: in campagna elettorale Salvini diceva che erano oltre 500 mila, arrivato al Viminale, ops!, ha scoperto che sono meno di 100 mila).
In questo senso, un’alternativa di governo che sceglie di non prendere atto di questi numeri (rispetto a ciò che il governo aveva stanziato per quota cento e per reddito di cittadinanza, come sappiamo, l’Italia nel 2019, grazie a una richiesta inferiore rispetto alle attese, ha potuto recuperare un miliardo dalla prima riforma e 815 milioni dalla seconda) e che sceglie di non portare avanti una grande operazione verità mostrando agli elettori la differenza tra il dito e la luna è decisamente un’alternativa di governo che si ostina a non capire che ciò di cui ha bisogno un paese come l’Italia non è usare i pochi soldi che ci sono in giro per redistribuire ricchezza ma è usare i pochi soldi che ci sono in giro per tentare di creare ricchezza.
E in qualche modo lo stesso discorso, utile a capire come sta davvero l’Italia di oggi, si potrebbe fare mettendo in fila una serie di dati molto interessanti offerti la scorsa settimana dal servizio studi di Intesa Sanpaolo e dal Centro Einaudi di Torino. Dato numero uno: “Negli ultimi tre anni i bilanci delle famiglie hanno riacquistato parte della prosperità perduta durante la lunga crisi: il saldo tra coloro che ritengono sufficiente o insufficiente il reddito per sostenere il tenore di vita corrente sale nel 2019 al 69 per cento degli intervistati, massimo storico del decennio”.
Dato numero due: “Le tre fasce centrali di reddito del campione, che includono coloro che percepiscono dai 1.500 ai 3.000 euro al mese, si attestano al 57,5 per cento rispetto al 51,7 per cento di tre anni prima. Approssimativamente, un milione e trecentomila famiglie, secondo i dati del 2019, sono rientrate a far parte del ceto medio o vi sono entrate per la prima volta, riallargandolo”.
Dato numero tre: “Case e patrimonio: record di proprietari. Il 63 per cento dei patrimoni è rappresentato da case. Gli intervistati dichiarano il possesso di una ricchezza finanziaria media pari a 101 mila euro (3,9 volte il reddito medio); la ricchezza immobiliare è invece pari a 169 mila euro. Ne deriva una ricchezza complessiva per intervistato di 270 mila euro (al netto delle quote di aziende), che sale rispettivamente a 355 mila e 384 mila euro nel caso dei laureati e dei professionisti e imprenditori”.
Dato numero quattro: “Nei dodici mesi precedenti l’indagine il 6,7 per cento del campione ha investito in case (8,7 per cento nel 2018 e 5,7 per cento nel 2017) ma solo il 3 per cento circa l’ha fatto per acquistare o cambiare la propria prima casa; gli altri acquisti sono stati realizzati per ragioni collegate all’impiego ereditario o per avere un reddito aggiuntivo nella vecchiaia”.
Dato numero cinque: “I risparmiatori (52 per cento) superano di nuovo i non risparmiatori (48 per cento). La percentuale dei risparmiatori nel campione torna finalmente a superare quella dei non risparmiatori, dopo aver toccato il minimo storico del 39 per cento nel 2013. La percentuale di reddito risparmiata raggiunge nel 2019 il massimo storico (12,6 per cento, vs il 12 per cento nel 2018 e il 9 per cento nel 2011)”.
Dato numero sei: “Il 45 per cento degli attivi ha avuto miglioramenti al lavoro; le retribuzioni sono migliori per il 37 per cento degli intervistati”.
Questi dati, come ha notato il Foglio in un corsivo della scorsa settimana, sconvolgono in qualche modo le analisi prevalenti sulla nostra situazione economica, smontano le letture sulle tendenze elettorali presenti e passate e dimostrano che la grande verità della crisi-del-ceto-medio-che-sarebbe-stata-causata-dal-fallimento-della-globalizzazione è una balla colossale: negli ultimi tre anni, nel caso in cui il passaggio fosse sfuggito, in Italia è “tornato a irrobustirsi il ceto medio e le tre fasce centrali di reddito del campione passano dal 51,7 per cento di tre anni fa al 57,5 per cento, approssimativamente un milione e settecentomila famiglie sono rientrate a far parte del ceto medio”. La storia della differenza tra la povertà percepita e quella reale così come quella degli effetti percepiti della globalizzazione e di quelli reali ci dice che un paese che costruisce la sua agenda sulla base delle percezioni è destinato a occuparsi sempre più del percepito e sempre meno del reale. In un libro pubblicato poche settimane fa da Einaudi intitolato “I rischi della percezione: perché ci sbagliamo su quasi tutto”, Bobby Duffy, direttore del Policy Institute presso il King’s College di Londra, ha ricordato, a proposito del rapporto perverso che vi è tra percezione e politica, che “la nostra idea di ciò che gli altri pensano e fanno può incidere pesantemente sul modo in cui ci comportiamo”.
Sotto questa prospettiva, accettare l’idea che l’Italia sia un paese forte, bisognoso non di redistribuire le risorse ma di crearne di nuove, bisognoso non di alimentare le paure ma di combatterle, bisognoso non di piangere su se stesso ma di trovare ragioni di orgoglio, è la premessa giusta, necessaria anche se non sufficiente, per avere un’alternativa di governo capace di offrire agli elettori progetti tarati per ragionare sul futuro. L’Italia della paura è ben rappresentata, l’Italia della speranza è ancora in cerca d’autore. E per combattere l’Italia della paura non basta combattere la forza della percezione con la verità dei dati. Serve costruire quello che oggi non c’è. Serve costruire un proprio sogno, riempire il vuoto e smetterla di rincorrere gli incubi degli altri. Serve spiegare agli elettori non come chiudersi a casa, per proteggersi dal mondo ma come trasformare il nostro mondo in una grande fonte di opportunità, per tornare prima o poi anche noi a sognare la luna.
Antifascismo per definizione