Henrik Håkansson, "A Tree with Roots", 2010, nella galleria Franco Noero all'epoca ospitata nella Fetta di Polenta, edificio storico di Torino situato nel quartiere Vanchiglia

La polenta degli spiriti

Michele Masneri

Franco Noero, il gallerista dandy di Torino ossessionato dai piccoli spazi, e lo strano palazzo che lo ospita

E’forse il gallerista numero uno in Italia, siede nel comitato di Art Basel, il Bilderberg dell’arte contemporanea mondiale, ma mentre i suoi colleghi fanno a gara per creare avamposti sempre più esotici nel gran circo globale tra Miami e Hong Kong, lui, Franco Noero, torinese anzi cuneese tranquillo, ha deciso da tempo che è meglio star fermi e far venire invece il mondo, a Torino.

 

Siamo a un festival d’arte sulla spiaggia e Noero, tra il pubblico in shorts tipico di queste occasioni – barbe, Birkenstock, tracolline e accenti aspirati nordeuropei – borbotta nel suo doppiopetto d’ordinanza, sfida la calura e la sabbia con l’aria sperduta e l’occhio ceruleo-ironico da esploratore inglese o alto ingegnere Fiat: mostra al pubblico in braghe corte le immagini che si è preparato su un proiettore, la prima è una cartina, non del mondo ma di Torino, in cui segna i vari spostamenti delle sue gallerie negli anni. Da una certa via fino a un certo vicolo, da un civico all’altro, come un generale sabaudo sul teatro di guerra: adesso ha due avamposti, uno sopra il Cambio, in piazza Carignano, e uno vicino alla ex Lavazza. Questo è il suo mondo e il suo perimetro e lui lo rivendica, in un momento storico in cui non è che si faccia a botte per abitare nell’ex capitalina ostaggio dell’Appendino. Vent’anni fa la prima galleria, è un anniversario, “venticinque metri quadri, e Torino era l’unico posto in Italia dove un giovane poteva aprire un suo spazio pagando centocinquantamila lire al mese”, e ancora ci si ricorda di una delle prime mostre, la Fiat 126 leggendaria appesa alla parete, opera prima italiana di Simon Starling, uno dei suoi artisti più amati; opera che occupava praticamente tutta la galleria, opera molto Fiat specific: l’artista viaggiò con la 126 fino a Cieszyn, in Polonia, dove si produceva quel gioiellino, e lì sostituiva dei pezzi che sono stati dipinti in colori diversi.

 

Torinese, anzi cuneese tranquillo, si rifugia nel suo doppiopetto e nella dimensione micro e local piemontese

Noero è anche gallerista di star italiane-globali come Francesco Vezzoli o Lara Favaretto; gallerista però a chilometro zero, che rimane abbarbicato a Torino con una scelta quasi vezzosa: ama i piccoli spazi e soprattutto una delle tante gallerie che è diventata casa, la Fetta di Polenta, il flat iron subalpino. “Ho sognato fin da bambino di possedere questo bizzarro palazzo, che Agnelli chiamava la spada”, dice. La casa, celebre, “nella parte più stretta misura cinquanta centimetri”, sembra che “sia solo pareti”, su una pianta di 32 metri quadri per nove piani, disegnata dall’Antonelli “come sfida e divertimento”. L’architetto della mole antonelliana l’aveva costruita per sé, in uno slancio verticale narcisistico, perché i proprietari dei terreni adiacenti non vendevano. Il palazzo poi trasformato in galleria è stato teatro di performance celebri, come quella di “uno dei miei artisti preferiti, Rob Pruitt, che fa il bagno in quella vasca di mosaico d’oro zecchino che occupa interamente la stanza, al settimo piano, nella parte più stretta della casa; per tutta la giornata di inaugurazione stette a bagno, e l’acqua scendeva intubata fino al piano terra, e lì finiva travasata in bottiglie d’autore. Non ne ho venduta neanche una, non tratto più questo artista ma siamo rimasti molto amici”, dice Noero, che non cerca proprio la vendibilità nell’opera d’arte, diciamo. Cerca piuttosto guai, come con questa sua storia d’amore con la fetta di polenta. Un incubo catastale-logistico. “Da bambino la disegnavo e ne sognavo gli interni. Dopo Antonelli è appartenuta a varie famiglie, poi ai Levi-Montalcini”. “Ero talmente ossessionato da questo palazzo che per un mio compleanno gli amici hanno pagato un inquilino al piano terra per aprirla e farmi una festa a sorpresa. Bevemmo un bicchiere e poi ci sbatterono fuori”. “Finché nel 2005 finalmente io e mia moglie abbiamo potuto comprare lo stabile all’asta. L’asta va deserta tre volte, alla quarta alla fine vinciamo noi. Il mutuo lo stiamo ancora pagando. Ma subito per rientrare di un po’ di spese pensammo di metterla a reddito, chiedendo a tutti i nostri artisti di studiare delle opere”. Lì cominciano le disavventure, perché la casa è appunto impossibile: “non possono entrarci più di otto persone per volta, e all’inaugurazione ce n’erano quattrocento”. “Dovemmo far firmare a ognuno una liberatoria per la sicurezza. E portarci le opere era difficilissimo. La prima mostra, di nuovo di Simon Starling, prevedeva un enorme blocco di marmo che dovemmo issare con una gru perché non passava dalle scale”. La casa naturalmente era un ricettacolo delle migliori eccentricità torinesi. “L’ultimo proprietario era un gentiluomo di casa Nasi” (ramo cadetto Agnelli, per i più piccini) “che lo usava come club personale, andandoci solo a colazione e pranzo, ma lasciando il personale al servizio degli amici, che andavano a mangiare anche se lui non c’era. Era tutto arredato da Mongiardino, il decoratore delle case Agnelli, come una specie di villino delle fiabe, tutto in proporzione, persino le balaustre e le mattonelle sono più piccole del normale, per dare l’illusione che gli spazi fossero standard”. Essere John Malkovich, essere Franco Noero: “Per far entrare un frigorifero abbiamo dovuto smurare una scala, che del resto era stata fatta apposta di mattoni, facile da smontare e rimontare”. “Mongiardino quando dovette ristrutturare il palazzo andò a vedere l’appartamento dei nani del palazzo ducale di Mantova: anche il soppalco dove dormo io è bassissimo, ma sembra normale. Era un’illusione e lui era bravissimo a crearne, del resto era anche scenografo, aveva lavorato con Zeffirelli e con la Cavani”. Scenografo che non vende sogni ma solide realtà, però. “L’impiantistica era di altissima qualità”, dice Noero. “Cosicché non abbiamo dovuto rifare niente, anche se il restauro era di trent’anni prima”. Staccarsi da una casa del genere è impossibile: “Ho provato a dire a mia moglie: proviamo a andare a vivere in una casa normale. Magari un loft. Ma niente da fare. Siamo rimasti lì: e si è spostata la galleria”.

 

La mitologica Fetta di Polenta, il flat iron subalpino, acquistata nel 2005: “Lì comincia l’incubo perché è una casa impossibile”

Adesso la galleria ha i suoi due nuovi megaspazi identitari, sopra il ristorante del Cambio e in un hangar vicino alla ex Lavazza. Rimane orgogliosamente a Torino anche se la città non se la passa proprio bene. “E’ molto cambiata”, ammette Noero. “Quando ho iniziato io dicevamo che era una città grigia metallizzata. Per lo smog e per la Fiat. Adesso lo smog è rimasto, ma il tessuto della città no”. “La percentuale di clienti torinesi una volta era altissima, ora sono molto meno. E’ sparita soprattutto una meravigliosa comunità di collezionisti, che si incontrava, si conosceva e si scambiava informazioni”.

 

La città “ancora quindici anni fa era piena di vita, adesso anche la gestione politica incide”. “Hanno queste trovate, la decrescita felice: così non potranno che far andar via chi ha idee. La loro concezione di modernità è fare il festival internazionale dei droni”. Come, i droni? “Sì, hanno sostituito la festa tradizionale di San Giovanni, coi fuochi d’artificio, con i droni”. Beh interessante. “Come no”. Il festival dei droni ci mancava. E poi non ha neanche funzionato. Dei ragazzini l’hanno hackerato, e i droni sono cascati giù. Non lo so, forse mi sbaglio e Torino diventerà l’epicentro globale dei droni, ma non mi sembra una gran ricetta per il futuro”. Dall’Avvocato che planava in elicottero ai droni hackerati in effetti qualcosa è cambiato. “E poi la guerra alla Tav, o come dicono loro ‘il’ Tav: da dove vengo io, già nel Quattrocento il marchese di Saluzzo aveva bucato il Monviso per farci un tunnel; si chiama il Buco di Viso, è il primo traforo delle alpi, è di seicento anni fa. Già ci andavano strette le alpi. Questi sono i piemontesi. Altro che non fare la Tav”.

 

Però con queste alpi, bucate o intatte, non ci fate niente. “Nel 2006 Torino aveva avuto un sussulto con le Olimpiadi invernali”, ma poi si è fatta soffiare quelle del 2026 da Milano, la città senza montagna. Sospira. “Torino non è in competizione con Milano, la città dove ormai tutti i miei clienti, e i figli dei miei clienti, miliardari filippini e libanesi, vogliono andare, perché pensano che sia il posto più cool dell’universo, com’era Londra negli anni Novanta”. E perché non ci va pure lei? Niente, lui vuole rimanere nella fetta di polenta.

 

“Tutti vogliono andare a Milano, pensano sia il posto più cool dell’universo”. Anche Torino ha i suoi difetti: l’aeroporto

Rivendica: “anche per l’arte Milano ha due istituzioni private eccezionali, la Fondazione Prada e l’Hangar Bicocca di Pirelli”, riflette. “Sono però, appunto, private. Noi invece abbiamo il pubblico: è diverso. Magari abbiamo meno soldi, ma si riescono a fare delle bellissime cose, come continua a fare il castello di Rivoli. Che rimane il museo contemporaneo più importante d’Italia, insieme al Madre di Napoli, diretto da Andrea Viliani, che è poi un discepolo di Rivoli”. Niente, l’orgoglio torinese è infrangibile. “E poi c’è Artissima, la fiera più importante d’Italia. A Basilea uno va magari per lustrarsi gli occhi, ma non riesce a comprare, ad Artissima invece uno si siede, parla. C’è spazio per una riflessione”. Però mentre qui si riflette, a Miami ci si diverte, ci son feste pazzesche, a Torino chi ci viene? “Oh, già”, ammette Noero, “a Miami un giorno al nostro stand è spuntata anche Beyoncé”, e subito si pente per lo show off così poco piemontese. “Però anche ad Artissima succedono cose divertenti: come quando lo chef Davide Scabin organizzò un vero treno con dei vagoni su cui erano posti i suoi piatti deliziosi, ma il treno era in movimento, e nessuno riusciva a prenderli. Ricordo Massimiliano Gioni (ora direttore del New Museum di New York) che tentava disperatamente di afferrare un vitello tonnato”. Daje a ride. Fou rire, come dicono a Torino.

 

Gli studi milanesi, le prime esperienze a Roma. E poi il lavoro del gallerista ai tempi della speculazione: “Ma io non lavoro così”

Ma Torino è meglio di Miami, specialmente se arrivi da Cuneo. Dove Noero è nato esattamente cinquant’anni fa. “Famiglia di vignaioli, “molto cattolici”. “La provincia ti dà una spinta incredibile. A Cuneo aspettavamo sempre che arrivasse qualche film al cinema Fiamma, che non arrivava mai. Alla fine se volevi vedere un certo film dovevi prendere un treno e andare a Torino con l’autostop”. Ma non ti ci vedo a fare l’autostop. “Lo facevo, lo facevo”. E prima di Torino Roma, addirittura. Come assistente di Gian Enzo Sperone, e poi direttore della sua galleria. “Vendetti un quadro a uno dei suoi migliori clienti, avevo vent’anni, mi volle conoscere”. Roma com’era? Ne parla come di un sogno a colori. “Abitavo nel rione Monti. Ero attonito. Roma era incredibilmente divertente, e non pulita”, dice, nel suo doppiopetto, con quaranta gradi. E’ la sua uniforme sabauda (ne ha tanti tutti uguali. “Vuoi mettere la comodità di non dover scegliere come vestirsi la mattina? Me li fa un vecchio sarto a Torino. Non sono rifiniti come quelli dei grandi sarti londinesi, soprattutto le fodere, ma non lo posso dire perché lui ci rimane malissimo”), anche questa è torinesità. E prima di Roma, Milano. “Studiavo comunicazione pubblicitaria. Che poi: di studiare non c’era verso, io non avevo voglia di fare nulla, finché una mia professoressa mi trascinò a lavorare un paio di mesi nell’archivio della rivista Flash Art, e capii immediatamente tutto”. Che eri un artista. “No, che non lo ero”. “Che l’arte mi sarebbe piaciuto vederla da un altro punto di vista”.

 

E il punto di vista del gallerista qual è? “Devi saper vendere, certo. Io godo come un pazzo se vendo. Però non è solo quello. Noi siamo i produttori degli artisti. Dai la possibilità a un artista di realizzare il suo sogno. E’ molto difficile anche a livello economico, ha bisogno di capitali”. Quello che sembra a noi sempliciotti però è che il mercato dell’arte sia ormai una specie di gran casinò. Il coniglietto di Jeff Koons a novanta milioni di dollari ci ha scandalizzati, noi menti semplici. “Ah, ma Koons è un artista che apprezzo da moltissimi anni, che ha cambiato il modo di vedere l’arte” (diplomazia torinese). “Koons ha fatto una mostra eccezionale da Gagosian. Certo magari opere che non vorrei, non potrei, volendo…”. Poi cede. “Beh, sì, è chiaro che c’è una speculazione pazzesca nel mercato dell’arte negli ultimi anni. Ne ho discusso col gruppo di lavoro di Basilea, siamo in sei. E siamo tutti d’accordo che c’è una differenza che sta venendo fuori sempre più forte ultimamente, quella tra i collezionisti veri e propri e quelli che ora spopolano, che sono buyer”. “Io comunque non sono in quel giro lì”, dice Noero. “Lavoro in un altro modo. Pensa che nel nuovo spazio che abbiamo preso abbiamo trovato una enorme cantina. Non c’erano mai entrati i vecchi proprietari, non c’era la luce. Adesso ci facciamo queste mostre che durano molto più del normale, anche un anno”. Sì, ma in cantina Beyoncé non ti ci viene. Pazienza. “Non abbiamo la necessità di far profitti immediati, ecco. E questo lo puoi fare solo a Torino”. “Altrimenti dovrei andare in provincia”. Di fronte al mio sguardo perplesso precisa: “Perché Torino non è provincia! Non sarà capitale del mondo. Ma del Piemonte sì!”: e detto da lui pare che tra il Piemonte e il mondo non vi sia poi questa gran differenza.

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