Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il probabile premier del Regno Unito Boris Johnson (foto LaPresse)

Opportunisti e mercenari di ideali. Ecco la leadership di Trump e Johnson

Alastair Campbell

L’ex spin doctor di Tony Blair traccia un parallelo tra il presidente americano e il premier del Regno Unito, prendendo di petto la domanda più terribile: è tornato il fascismo?

La sinistra non ha mai amato Ronald Reagan, né qui né sull’altra sponda dell’Atlantico. Eppure se vi capita di ascoltare oggi i discorsi dell’ex presidente americano non potete non chiedervi com’è che il suo partito e il suo paese oggi siano guidati da Donald Trump. Per assaporare una grande, emozionante retorica, basta cercare online “l’ultimo discorso di Reagan presidente”. Non c’è bisogno di condividere ogni cosa detta o fatta da Reagan per essere in grado di riconoscere una chiara visione per l’America e per il suo ruolo nel mondo, l’empatia nei confronti dei cittadini, la capacità di comunicare, con le immagini che emergono dalle sue parole, la sua voce e i sentimenti che rappresentava. 

 

Com’è che la destra americana e quella britannica sono passate da leader visionari – Reagan e la Thatcher – a quelli di oggi?

“Puoi andare a vivere in Francia, ma non puoi diventare francese”, diceva Reagan: “Puoi andare a vivere in Germania o in Turchia o in Giappone, ma non puoi diventare tedesco, turco o giapponese. Ma chiunque, da qualsiasi parte del mondo, può venire a vivere in America e diventare americano”. L’intero discorso – con la spiegazione del simbolo che rappresenta la Statua della Libertà, il benvenuto per stranieri nel regno della libertà e delle opportunità – si concentra su come ogni ondata di nuovi arrivi da altre terre abbia rinnovato e arricchito il paese, e la frase potente sui nuovi arrivati che finiscono per sentirsi americani più di ogni altro sembra una lettera d’amore rivolta agli immigrati e all’immigrazione. “Guidiamo il mondo perché, unica nazione tra tutte, prendiamo forza da ogni paese e da ogni angolo del pianeta. Se dovessimo mai chiudere la porta a nuovi americani, la nostra leadership nel mondo andrebbe perduta”. Che preveggenza. Che differenza rispetto alla leadership dell’America oggi, e al suo posto nel mondo.

 

Proviamo a confrontare e contrastare l’empatia di Reagan con il nazionalismo e il narcisismo odiosi di Donald Trump. E’ difficile che le parole di Reagan, pronunciate da un politico descritto sempre come un uomo di destra, possano uscire dalla bocca dell’attuale inquilino della Casa Bianca – solo il cielo sa dove si può collocare Trump nello spettro politico. L’ultima volta che Trump ha parlato di Reagan è stato su Twitter – what else? – e l’attuale presidente sosteneva di essere più popolare tra i repubblicani di quanto fosse Reagan. Io, io, io.

 

Ma proviamo a confrontare quel discorso anche con le invettive ringhiose e beffarde in difesa degli attacchi a quattro deputate democratiche di colore, tre delle quali nate e cresciute negli Stati Uniti, e con il consiglio di tornarsene nei loro paesi: ritroveremo l’argomentazione di razzisti e fascisti, la nozione che se qualcuno critica cose che accadono nel proprio paese non può appartenere a quel paese e certamente non può amare quel paese, non può che “tornarsene a casa”.

 

Send her home”, “send her home”, cantato da una grande folla mentre Trump si beava compiaciuto dell’adulazione, come è accaduto la settimana scorsa, è razzismo. E’ suprematismo bianco. E’ un segnale di fascismo.

 

Se vi è capitato di vedere o leggere l’intervista che ho fatto qualche tempo fa a Tony Blair su GQ, ricorderete che abbiamo un’opinione diversa su Donald Trump. Io segnalavo i parallelismi con gli anni Trenta e la mia preoccupazione per le tendenze pericolosamente fasciste di Trump. Tony pensava che fossi esagerato.

 

“Il confronto con Hitler e Stalin è ridicolo”, aveva detto.

 

Fatemelo dire chiaro: non penso che Trump sia un nuovo Hitler o un nuovo Stalin. Non sto dicendo che vuole uccidere milioni di persone né voglio mancare di rispetto ai tantissimi che morirono per volere di quei mostri insinuando una qualsivoglia equivalenza morale con Trump. Quello che sto dicendo è piuttosto che Trump ha tendenze pericolosamente fasciste, che sta scuotendo le protezioni messe a difesa della democrazia e che il miglior modo per rispettare la memoria delle vittime del fascismo è di essere vigili di fronte alla minaccia che possa ritornare – in qualsiasi forma.

 

Lo stesso Blair pensa che sia “ridicolo” paragonare questa stagione a quella totalitaria: ma guardate alcuni segnali

Comunque, ho incontrato Tony qualche giorno fa e mi ha detto che sta leggendo “Storia del Terzo Reich”, un saggio scritto nel 1960 da un giornalista americano, William Shirer, che racconta la Germania durante gli anni di Hitler. “Non riesco a smettere di leggere”, ha detto Blair: “Devi leggerlo”. Lo sto leggendo. Sono a circa duecento pagine sulle milleduecento totali. E’ in effetti coinvolgente. E a ogni pagina c’è qualcosa, grande o piccola, che ti fa pensare all’oggi: l’anormale che diventa normalizzato; quel che è considerato “impossibile” da tutti succede; la rivolta contro le élite a causa della crisi economica; il fallimento delle istituzioni; lo sfruttamento delle sofferenze invece che lo sforzo – duro – di trovare una politica che si occupi delle sofferenze; la sottomissione di personalità deboli, nel mondo della politica, del business e dei media, nei confronti di chi è percepito come forte soltanto perché bullizza, intimidisce, silenzia; il fallimento di altri leader, in casa e all’estero, di parlare con franchezza ai politici al potere; il desiderio di credere che le cose alla fine si sistemeranno; il culto della personalità; la ripetizione costante di bugie su se stessi e sui propri avversari; la propaganda ininterrotta; il nazionalismo; la creazione deliberata di divisioni sociali e culturali; la stigmatizzazione vile di quelli che non erano ritenuti veri tedeschi, che oggi vale per quelli che non sono veri americani – per il presidente Trump il vero americano oggi sembra essere chi è bianco, cristiano e soprattutto trumpiano.

 

C’è un punto in cui però Blair ha ragione nel definire ridicolo il paragone tra Trump e Hitler: l’ascesa al potere. Hitler aveva sviluppato la sua visione politica fin dall’inizio e il Mein Kampf, scritto in prigione, la metteva nero su bianco. Per tutta la sua vita Trump ha tratto motivazione e ispirazione non dall’ideologia ma dalla fama e dalla ricchezza e ha scelto visioni politiche differenti a seconda del momento e delle circostanze. “The Art of The Deal” non è un manifesto di dominio mondiale. E laddove Hitler è sempre stato guidato dall’idea improbabile che sarebbe diventato un giorno il dittatore della Germania, conquistatore dell’Europa e assassino degli ebrei (il resoconto di Shirer mostra con che forza e con che genio si impegnò in questo sforzo, prima lentamente e poi sempre più rapidamente), l’ascesa alla presidenza di Trump è stata molto più accidentale.

 

Ma ora che è lì, quali sono le sue motivazioni? Quando si guarda allo specchio la mattina, pensa alle vite dei suoi elettori, alle difficoltà che incontrano nelle loro vite, o pensa a se stesso, al tweet successivo, all’abuso successivo, al dispetto successivo, al capriccio successivo ispirato da Fox&Friends? Non penso di essere iniquo se dico che Trump pensa più ai propri interessi che a quelli del popolo americano o alle responsabilità che ha nei confronti del resto del mondo. E quando pensa alle persone, pensa alla sua base, ai suoi sostenitori, a come mantenere fedeli, arrabbiati con chiunque sia in disaccordo con il loro leader, accusatori e odiatori di democratici, sospettosi nei confronti della maggior parte dei media, fiduciosi soltanto nei tweet di Trump e nelle fantasie di Fox News. Laddove la maggior parte dei presidenti ha cercato di creare unità attorno a una visione, Trump punta sulle divisioni, sulla polarizzazione, sulla necessità di imporre a ognuno di prendere una parte, con me o contro di me. Essere odiati va bene fino a che l’odio infiamma la base, la rende pronta per lavorare a un secondo mandato, dopo il quale chissà. Mi chiedo se l’uomo che aveva detto che non avrebbe accettato il risultato se a vincere fosse stata Hillary Clinton non voglia tentare la fortuna e cambiare la Costituzione per avere un terzo mandato: l’anormale che si normalizza, l’impossibile che succede.

 

Non scuotiamo la testa desolati soltanto quando pensiamo al leader dell’America. Come con Reagan, non sono mai stato un fan nemmeno di Margaret Thatcher, ma è stato affascinante guardare di recente la serie della Bbc su di lei e chiedere di continuo com’è che il Partito conservatore è passato da Maggie allora a Boris Johnson oggi.

 

Allora c’era Mikhail Gorbachev, un agente di cambiamento significativo, e questa generazione di leader mondiali aiutò ad abbassare la cortina di ferro, a tirar giù il Muro di Berlino e ad accompagnarci fino a quella che prematuramente Francis Fukuyama ha celebrato come la “fine della storia”.

 

Ma se misuriamo questi leader puramente sui loro valori, sulla loro visione e sulla loro onestà, chiunque, a parte i seguaci stretti, oggi dice che Reagan batte Trump, la Thatcher batte Boris Johnson e Gorbachev batte Vladimir Putin. Ma se li misuriamo sulla longevità e sulla sopravvivenza al potere, Putin batte quasi tutti – e qui ci sono lezioni che Trump sembra determinato a imparare.

 

“Niente è vero, tutto è possibile. Avventure nella Russia moderna” è il titolo del libro superbo scritto da Peter Pomerantsev, un inglese, sulla Russia di Putin. Spiega la strategia del Cremlino, nella quale la verità è soltanto un’arma ulteriore della guerra ibrida, che viene forgiata sulla base di quelli che sono gli interessi della Russia in quel momento: dai carriarmati in Ucraina sempre negati fino ai massacri in Siria sempre negati, dai finanziamenti alle campagne elettorali in Europa sempre negati alle missioni a Salisbury sempre negate, con gli assassini riciclati come turisti, nell’incredulità di buona parte dell’occidente e nel divertimento del pubblico russo. Pomerantsev ha pubblicato anche un seguito, “This is not propaganda”, che mostra come il gioco di Putin sia oggi messo in pratica da altri, dalla Brexit a Trump e oltre.

 

 

Come con il fascismo, l’anormale si normalizza, quel che sembra impossibile accade, e le istituzioni collassano

Secondo i fact-checker del Washington Post (allarme “fake news!” per ogni sostenitore di Trump che mi ha seguito fino a qui), il presidente ha fatto dichiarazioni non del tutto veritiere o ha detto bugie dodici volte al giorno per ogni giorno da quando è diventato presidente. E questo è soltanto il conteggio pubblico. Si può immaginare che ce ne siano molte altre, di bugie, dietro le porte dello Studio Ovale e nella sua vita privata. Ma dodici volte al giorno significa che Trump mente al pubblico americano più volte di quanto gli americani lavino le mani al giorno (dieci volte, pare). Quel che è peggio è che questa è una strategia. Questo è diventato chiaro fin dal suo primo giorno di lavoro. Mi ricordo che mi svegliai, guardai le news e sentii che Trump stava andando al quartier generale della Cia a Langley per parlare alla comunità dell’intelligence. “Ah – pensai – Smart. Dopo tutti gli scontri durante la campagna elettorale, ora vuole costruire ponti. Forse alla fine al comando ci saranno degli adulti”. Quanto mi sbagliavo. In quel discorso, di fronte al muro con le stelle che ricordano gli agenti segreti morti durante le operazioni, Trump attaccò i media “fake news” che sostenevano che alla cerimonia di inaugurazione di Barack Obama ci fosse stata più gente che alla sua. Cosa vera, come mostrano le immagini. Poi la sua consigliera Kellyanne Conway disse con orgoglio che i media avrebbero dovuto fare l’abitudine ai “fatti alternativi” e lì realizzai che sì, Trump forse aveva davvero dei problemi a distinguere il vero dal falso, ma ai suoi collaboratori mancavano moralità e princìpi al punto da andargli dietro, per strategia e per tattica. Se niente è vero, tutto è possibile.

 

L'ascesa politica di Trump e Johnson non ha nulla a che fare con l'ideologia né con una visione del mondo e del proprio paese

Trump manderebbe in prigione i suoi oppositori politici se potesse? Il coro incessante “Lock her up” durante la campagna contro la Clinton fornisce una buona risposta. Se potesse, Trump farebbe come Putin o come Recep Tayyip Erdogan in Turchia o come altri che scelgono di imprigionare, torturare, uccidere giornalisti e critici invece che aprire con loro un confronto?

Ridurre grandi giornali come il New York Times a “fake news”, così come grandi tv come la Cnn, trattare ogni critico come un bugiardo, sostenere costantemente i “tough guy”, i duri, con tanto di battute con Putin su come eliminare i giornalisti fornisce anche in questo caso qualche risposta. Dando poi incarichi importanti ai membri della famiglia le cui qualifiche non sembrano molto più ampie del cognome stesso o del matrimonio con chi ha questo cognome, Trump adotta lo stesso approccio che gli americani condannano quando si tratta di dittatori in Africa, Asia o America latina.

 

Il fascismo non comincia con le camere a gas o i processi a Norimberga. Finisce lì, o almeno così è andata con la Germania e con l’Italia che ci condussero alla Seconda guerra mondiale. La storia non si ripete identica. E no, non penso che Trump sia determinato a commettere un genocidio. Ma non dobbiamo immaginare le cose orribili che ci può dare il fascismo, o il male purissimo che rappresenta Hitler, per preoccuparci di quel che ci può essere in mezzo, tra una tendenza al fascismo e il peggio che il fascismo può determinare. Per essere corretti con Trump, per quanto lui renda tutto molto difficile, sembra che voglia genuinamente evitare la guerra. Hitler e i nazisti vedevano la guerra come una parte necessaria per aumentare il potere in modo sicuro, ma anche per plasmare la purezza razziale. Trump vede le cose in modo diverso, in parte perché considera il commercio come una guerra con altri mezzi. E’ più protezionista che imperialista. Vuole anche differenziarsi rispetto ai suoi predecessori, Clinton, Bush e Obama e, incidentalmente, l’incapacità di vedere qualcosa di buono in chi è venuto prima di lui gli fa pensare che il mondo sia cominciato quando lui ha preso il potere. Anche questa è una caratteristica del fascismo. E pure se non vuole la guerra, non è difficile immaginare che ne possa scatenare una, per accidente o per strategia, nella quale darebbe seguito alle minacce letali che ha già rivolto in passato all’Iran e alla Corea del nord. Fire and fury.

 

Ma quali altri cardini del fascismo – o forse è più giusto dire semi – possiamo intravvedere? L’ultranazionalismo – “America First” come una strategia di governo. Tendenze autoritarie, come abbiamo visto prima con la stampa e con gli oppositori. La demonizzazione delle minoranze – il travel ban per i musulmani, la carovana di “criminali e stupratori”, le gabbie dei bambini al confine. Il culto della personalità – non c’è da dilungarsi troppo: se c’è una buona notizia, ci sono i tweet “grazie, Mr President” fatti dallo stesso presidente; se la notizia è cattiva, si dà la colpa a qualcun altro. Stare dalla parte del “popolo” contro le “élite”. Arbitrarietà nel rispetto dello stato di diritto, a secondo delle leggi che appoggiano o no il tuo operato – vedi gli attacchi ai giudici. Disprezzo per le istituzioni politiche, come il Congresso. Slogan che promettono grandi successi senza spiegare come. L’amore per le dimostrazioni di lealtà – ricordate la riunione dell’Amministrazione con i ministri che andavano attorno al tavolo per dire al presidente quanto fosse bravo? – e per le grandi parate, come quella dell’Independence day, con tanto di carri armati (possiamo dare la colpa a Macron: Trump vide la parata del Giorno della Bastiglia e disse: “La voglio anche io! La voglio anche io!”).

 

Il populismo oggi si può definire come la retrocessione dei fatti e della ragione rispetto alle bugie e alle emozioni

L’ex segretario di stato americano, Madeleine Albright, che sa moltissimo di dittature essendo scappata sia dai fascisti sia dai comunisti con la sua famiglia quando era una bambina in Cecoslovacchia, ha scritto “Fascism: A Warning”. Vorrei mandarlo a Tony Blair. La Albright, con cui Blair passò molto tempo quando lei era il segretario di stato nell’Amministrazione di Bill Clinton, va molto oltre rispetto a quanto faccio io nel tracciare parallelismi tra Hitler e Trump, e Mussolini e Trump, definendo quest’ultimo “un elefante gigantesco che si agita nelle pagine” del suo libro. “Mussolini chiese ai suoi seguaci di credere in un’Italia che sarebbe stata ‘prospera perché autosufficiente e rispettata perché temuta’”, scrive la Albright. “E’ così che è cominciato il fascismo nel XX secolo: con un leader magnetico che sfruttava le insofferenze disseminate ovunque promettendo qualsiasi cosa. Il Duce, primo ministro dell’Italia dal 1922 al 1943, diceva che la sua missione era ‘rompere le ossa dei democratici… prima si fa meglio è’. Usò l’espressione ‘drenare la palude’ come ‘drain the swamp’”, anche se in quel caso si riferiva alla bonifica di paludi esistenti per davvero. “Aveva un talento per la teatralità e non era un grande ascoltatore, anzi non gli piaceva proprio ascoltare gli altri. Scoraggiò i suoi ministri dal ‘proporre qualsiasi idea che potesse mettere in dubbio i suoi istinti’ che, ribadiva, erano sempre giusti”. Questo certamente suona familiare. 

 

 

Hitler, secondo la Albright, si proponeva come un leader capace di operare in modi che ai leader normali non erano accessibili. “Mentiva incessantemente su se stesso e sui suoi nemici. Convinse milioni di persone che si sarebbe occupato di loro quando, di fatto, li avrebbe volontariamente sacrificati tutti”. Oggi la Albright teme che “i leader antidemocratici stanno vincendo elezioni democratiche e alcuni tra i più saggi leader democratici si stanno muovendo verso la tirannia ogni anno che passa”. Risparmia a Putin l’etichetta di “fascista conclamato” – per ora, ma aggiunge: “Si è buttato nel copione totalitario di Stalin e ha sottolineato i passaggi più interessanti da richiamare quando conveniente”.

 

Come io separo Hitler da Trump, tra le altre cose per il fatto che uno aveva una ideologia potente e l’altro no, così la Albright separa Hitler e Mussolini, sostenendo che Hitler aveva una ideologia fissa e chiara, mentre Mussolini era guidato da un “nativismo populista” – come Matteo Salvini, o Marine Le Pen, Nigel Farage, Steve Bannon. Il nativismo populista. Questa è la loro canzone, ma anche quella di Trump. Trump, dice la Albright, “ha vinto la presidenza perché ha convinto abbastanza elettori negli stati giusti di essere uno che dice la verità in modo diretto, un negoziatore abile e un campione efficace degli interessi americani. Nessuna di queste cose dovrebbe disturbare i nostri sonni, ma c’è un motivo di disagio. Trump è il primo presidente anti democratico della storia moderna americana”.

 

Naturalmente, siccome l’America è l’America, e siccome il presidente riceve più attenzione nel mondo di qualsiasi altro leader politico sul pianeta, sempre, anche se vuole chiudere i confini e mettere l’“America First”, Trump ha una grande influenza sulle politiche delle altre democrazie. Quando mi è capitato di ricevere insulti o abusi da parte dei sostenitori della Brexit, spesso attorno al College Green di fronte alla Camera dei Lord, è stato interessante notare i toni trumpiani. “Fake news”, ti dicono quando cerchi di infilare qualche fatto nel dibattito sulla Brexit. “Perché odi così tanto il tuo paese? Se lo odi così tanto, perché non te ne vai a vivere in Europa?”.

 

“Vivo in Europa – rispondo – Non ce ne siamo ancora andati”.

 

Così si arriva al patriottismo e, prima che te ne possa accorgere, sei già nel territorio del “tradimento”. Come ha scoperto una volta la parlamentare Anna Soubry che si è ritrovata circondata, sei anche nel territorio del “fascista”. La Brexit, lo sapete no?, renderà il Regno Unito “great again”, due guerre mondiali e una Coppa del mondo e tutto quanto. Infatti, alcuni in Inghilterra indossano il cappello rosso di Trump “Make America Great Again” e dicono: “Se Trump potesse gestire la Brexit, la porterebbe a termine”. I sondaggi dicono che Trump è profondamente disprezzato dalla maggioranza dei cittadini di molti paesi, ma ha comunque sostenitori in giro per il mondo ed è il testimonial del populismo. La sua politica, i progressisti e i liberali devono ammetterlo, sta vincendo più della nostra.

 

E’ notevole che leader milionari e cresciuti nelle élite siano oggi diventati i migliori a maneggiare la politica della rabbia

E allora: che cos’è il populismo? Spesso pensiamo che sia fare e dire cose per essere popolari. Non è così. Il populismo oggi è la retrocessione dei fatti e della ragione rispetto alle bugie e alle emozioni. Boris Johnson sta per diventare primo ministro grazie a questo. C’è un rischio reale, non ultimo qui nel Regno Unito e certo negli Stati Uniti, che la sinistra si convinca che la risposta al populismo della destra sia il populismo della sinistra. Trump e Johnson sono entrambi i politici del mondo della post verità e della post vergogna. Mentono. Inventano. Esagerano. Negano di aver detto cose che hanno detto ed escludono le prove che dimostrano le loro bugie. Rispondono alle domande difficili con risposte a cose che non erano state chieste. Si prendono meriti che non hanno e danno colpe per cose di cui dovrebbero assumersi la responsabilità. Sono sfrontati davanti agli scandali e fanno affidamento sul sostegno dei media adulatori che vanno loro in aiuto.

 

Come Trump, nemmeno Johnson ha realmente un’ideologia. Ha costruito una carriera da giornalista in parte grazie alla sua personalità, alla sua capacità di far ridere – con lui o di lui, non gli importa granché – e alle sue bugie. E’ un simbolo di questa stagione di post verità e di post vergogna il fatto che Johnson abbia perso in passato il lavoro al Times per una menzogna e che lo stesso Times, nonostante abbia fatto esperienza della natura di quest’uomo, lo abbia sostenuto nella sua candidatura a primo ministro. Ma il periodo più importante delle sue bugie è stato quello in cui Johnson è stato corrispondente a Bruxelles del Daily Telegraph: il suo amore per le storie inventate apposta per far sembrare le istituzioni europee pazze e ridicole non ha soltanto costruito la sua fama, ma ha anche preparato il terreno per quell’euroscetticismo – alimentato dai media – che ha forzato infine David Cameron a indire il referendum sulla Brexit nel 2016. Sappiamo com’è finita, la vittoria del leave è stata determinata in gran parte dalla tardiva diserzione di Johnson e Michael Gove e dalla campagna costruita sulle bugie sul sistema sanitario o sulla Turchia, pompate anche dai media. Le promesse di fondi alla sanità sono state rinnegate subito dopo il conteggio dei voti e le menzogne sui milioni di turchi in arrivo sono state dimenticate mentre il nuovo ministro degli Esteri Johnson si recava ad Ankara – per offrire il suo sostegno all’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Post verità. E senza alcuna vergogna.

 

Il fatto che Johnson avesse due versioni del suo articolo sul Daily Telegraph sull’esito della campagna del 2016, uno sul remain e uno sul leave, conferma che a guidarlo non erano i princìpi o una ferma convinzione o un’ideologia. Era, prima di allora, diventato sindaco di Londra presentandosi come un liberale progressista per poi finire oggi molto più a destra per assecondare le attese dei membri del Partito conservatore e farsi nominare primo ministro. Alcuni sostengono che Johnson poi tornerà indietro, più verso il centro – un po’ come quelli che si aspettavano che Trump sarebbe diventato più moderato una volta presidente. Temo che si stia facendo lo stesso errore fatto con lui. Johnson non è uno che bada ai dettagli, come ha mostrato superbamente Andrew Neil quando lo ha intervistato sulla Bbc durante questa ultima campagna per la premiership. E’ uno che guarda ai titoli, alle battute, alla teatralità e allo spettacolo. E se vi chiedete quale stile di leadership vorrà emulare – Trump o Angela Merkel, o anche Trump o Emmanuel Macron – credo che sappiate già la risposta: Trump.

 

“Il populismo è l’arte di mobilitare elettori disaffezionati a un voto contrario ai loro interessi, amplificando i problemi senza offrire realmente nulla in cambio”. Così ha scritto un commentatore che si firmava “sleuthfortruth” sotto a un’intervista che ho rilasciato di recente a un giornale in Australia. Trump, Johnson e Farage, Salvini, Orbán in Ungheria, Bolsonaro in Brasile: questo è il loro registro dei nomi. Come dice “sleuthfortruth”: “Votare per un partito populista è come tuffarsi di testa in una piscina vuota perché sei arrabbiato che non c’è l’acqua nella piscina”. La rabbia, la moneta corrente delle politiche populiste, rappresenta un modello elettorale: “Sei arrabbiato. Hai ragione a essere arrabbiato. Perché loro (le élite/nemici vaghi, non definiti) non ti stanno dando quello che vuoi o di cui hai bisogno o che ti meriti. Si tengono tutto per loro. Perché non stanno dalla tua parte. Io sono dalla tua parte. Soltanto io ti capisco e soltanto io ho la forza di realizzare cose per te”. E’ notevole che Trump, milionario grazie all’eredità di famiglia, che Johnson, il figlio di un eurocrate formatosi a Eton, Oxbridge e con un lavoro al Telegraph, che Jacob Rees-Mogg, figlio multimilionario di un direttore del Times, che Nigel Farage, un trader della City che ha studiato nelle scuole private siano stati capaci di far emergere questa politica. Eppure lo hanno fatto.

Si può fermare il virus populista? L’inversione può essere determinata da un secondo referendum e da un rivale democratico che batta Trump

La domanda è: possono essere fermati? Il virus populista può essere rovesciato? Se no, che mondo stiamo creando? Lo sapremo presto. Se Trump sarà rieletto, cosa che non è impossibile e che dipende moltissimo dalla capacità dei democratici di scegliere il candidato giusto (per favore: non un populista, ma uno che sappia affrontare a testa alta il populismo), vorrà ancora di più, raddoppierà la sua puntata. Se Johnson cerca di lasciare l’Ue senza accordo – anche se non c’è un mandato specifico, visto che tre anni fa lui e tutti gli altri dissero che questa non era un’opzione – allora diventa davvero impossibile capire come possa anche solo iniziare a riunire questo nostro paese. Come dice Denis Staunton dell’Irish Times, il Regno Unito “è una nazione dove i consumatori si arrabbiano se il loro pacco di Amazon Prime arriva con qualche ora di ritardo. Non c’è modo che possano convivere con la riduzione o la mancanza di prodotti”. Johnson prende in giro se stesso se pensa che la Brexit possa in qualche modo ispirare una specie di “Blitz spirit”. L’Inghilterra si unì a Churchill di fronte a una minaccia esistenziale. La Brexit è un danno autoinflitto e una divisione autoinflitta e Johnson è il primo artefice di entrambe le cose. E cosa succede se ci sono agitazioni e disordini, come dicono molti dentro le forze di sicurezza, a partire dall’Irlanda del nord? Johnson vorrà rispolverare alcuni suoi vecchi piani e usare i cannoni d’acqua per contenere le proteste? E se invece Johnson non riesce a fare quello che vuole sulla Brexit, un’eventuale proroga del mandato parlamentare, che ora lui stesso ha escluso, ricadrebbe nelle categorie discusse prima? Disprezzo per le istituzioni. Allo stesso modo, gli slogan sulla Brexit e quelli sul confine nordirlandese, i tagli alle tasse, i grandi fondi statali per i servizi pubblici, il costo del no deal “molto basso, che svanisce” … oh, ogni cosa sarà bellissima e facile, come avevamo detto tre anni fa.

 

No, non sto dicendo che Johnson è un fascista. Sto dicendo che la premiership di Johnson può finire in una qualsiasi di queste direzioni.

 

La politica senza un moral compass può andare in qualsiasi direzione, anche la peggiore, considerando lo stato del mondo

Vi confesso un segreto. Johnson non riuscirà a ottenere un accordo di uscita migliore di quello di Theresa May. Cercherà di dire che è così o si sposterà su un altro terreno di gioco, che può essere il non accordo o un mandato per provare a trovarne uno. E’ un giocatore d’azzardo e punterà tutte le sue chance in un confronto elettorale con Jeremy Corbyn. Visto l’andamento del Labour oggi nei sondaggi, con le divisioni continue sulla Brexit nell’entourage di Corbyn, lo scontro interno tra parlamentari e la leadership, la fogna che è diventata la questione dell’antisemitismo, è facile capire perché Johnson possa volerci provare. Che tragedia per il partito e per il Regno Unito che il Labour abbia lasciato che l’antisemitismo risollevasse la testa, quando la stragrande maggioranza delle persone era certa che gli anni di Hitler avessero vaccinato il mondo contro questo obbrobrio. Ed è orribile anche il modo con cui alcuni dentro al Labour hanno reagito alle testimonianze di ex funzionari del partito rilasciate nel documentario della Bbc, un esempio di post verità (“stiamo affrontando il problema, ogni cosa è stata esagerata”) e di post vergogna (“questi hanno ragioni private e hanno sempre odiato Jeremy”).

 

Questo sta accadendo a sinistra, e si rispecchia forse anche nell’islamofobia che regna in alcune parti della destra, ma guardate a come Viktor Orbán e altri leader di destra utilizzano il miliardario ebreo George Soros e la leggenda Rothschild nella loro propaganda: la destra e la sinistra antisemite mostrano ancora una volta che non c’è da storcere il naso davanti al parallelismo con gli anni Trenta.

 

Hitler era una minaccia perché la sua visione e la sua ideologia erano solide. Trump e Johnson sono una minaccia perché i loro ego sono così grandi, la loro tendenza ai capricci quando non ottengono quel che vogliono è così istintiva e il desiderio di essere al centro dell’attenzione è così narcisistica e totalizzante. Le loro visioni, decisioni, azioni saranno plasmate per entrare nel più ampio messaggio che vogliono comunicare. Che è molto diverso da quello di Hitler, ma non per questo è meno preoccupante. La politica senza un moral compass può andare in qualsiasi direzione, ma se di base sei un uomo mediocre – e io penso che entrambi lo siano, sulla base delle prove che hanno offerto loro stessi – non è del tutto stupido pensare che si andrà verso la direzione peggiore, non quella migliore, quando saranno al centro dell’attenzione. E con il mondo com’è oggi, le brutte situazioni abbondano.

 

Se il prossimo voto che si terrà nel Regno Unito sarà un referendum sulla Brexit e il remain dovesse vincere, penso che si possa cominciare a invertire il virus e iniziare a riunire il paese molto più di quanto possa mai farlo il “no deal” di Johnson. Se si riesce a trovare un democratico che sappia affrontare e battere Trump, il virus può essere invertito anche in America. Ci sono dei “se” molto grossi e sono convinto che senza esagerare – come Tony Blair pensa che io stia facendo – dobbiamo prestare grande attenzione ai segnali di fascismo che emergono, quelli sottili e quelli evidenti, tenendo a mente la frase a esergo del libro di Shirer, all’inizio delle milleduecento pagine, una frase del filosofo George Santayana: “Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”.

 

Chiunque stia scrivendo un libro sull’oggi potrebbe avere la tentazione di utilizzare un’altra frase di Santayana. “Raccontare la verità è una passione davvero raffinata”. Visti come sono i nostri leader e quelli all’estero, dobbiamo batterci perché questa passione continui a vivere: le conseguenze di un fallimento sono nere – e pericolose.

 

Alastair Campbell è stato lo spindoctor dell’ex premier Tony Blair. Oggi è editor at large del settimanale The New European e contributing editor di GQ (edizione britannica). Fa campagna per il secondo referendum. Attualmente è sospeso dal suo partito, il Labour: la sua colpa è quella di aver votato per i liberademocratici alle ultime elezioni europee.