Donald Trump durante un comizio a Cincinnati (foto LaPresse)

La ribellione che non c'è più

Paola Peduzzi

Il Gop americano e i Tory inglesi hanno smesso di criticare i loro leader

Milano. In due anni e mezzo di presidenza Trump, il Partito repubblicano ha messo da parte i suoi imbarazzi, ogni tanto esprime qualche tiepida preoccupazione nei confronti del suo leader ma senza troppa convinzione. La resistenza interna a Trump, presidente atipico, è finita: tutti i discorsi che si sentivano nel 2017, quando è iniziato il mandato alla Casa Bianca, sulla necessità di imbrigliare un presidente così poco rappresentativo della sua stessa famiglia politica non ci sono più. Non servono: nessuno riesce a domare Trump, e allora tanto vale prendersi la parte bella di questa storia, che significa in sostanza potere, e per le idee poco ortodosse ci si penserà quando questo ciclo sarà finito. Molti intellettuali conservatori stanno cercando di dare una forma dottrinale alla presidenza: di recente alla conferenza nazionale dei conservatori, la maggior parte dei contributi – al netto del trionfalismo – è stata rivolta alla creazione di un pensiero trumpiano, un’ideologia cui fare riferimento e in cui inquadrare questa presidenza repubblicana. Per trovarla non bisogna andare troppo lontano, basta fare un balzo all’indietro nel tempo, prima della trasformazione liberale del Partito repubblicano, prima di Ronald Reagan in sostanza: lì si ritrovano tutti gli elementi di cui c’è bisogno per costruire la cornice, poi dentro Trump fa un po’ quel che gli pare – se quando gli chiedono un commento sui 75 anni dalla rivolta di Varsavia risponde che è molto amico dei polacchi e andrà presto in Polonia è evidente che o non sa o comunque non è interessato granché ai dettagli dottrinali.

 

Non è che il movimento cosiddetto neverTrump non ci sia: Max Boot e Bill Kristol, per citare due tra i commentatori più veementi, insistono sulla responsabilità del Partito repubblicano nello stravolgimento causato da Trump. “E’ il momento più ignobile” per il partito scriveva ancora qualche giorno fa Boot sul Washington Post, mentre Kristol ha tentato la strada istituzionale e politica: organizziamo le primarie dei repubblicani (quando c’è un presidente incumbent di solito non si fa), Trump deve convincere anche il nostro elettorato di essere ancora il miglior rappresentante che abbiamo. E’ tutto finito in nulla, sono soldi sprecati, iniziativa ridicola: godiamoci le affollatissime primarie dei democratici piuttosto, lasciamo che siano loro a litigarsi l’eredità di Barack Obama.

 

La resistenza interna non c’è più, la destra americana è Trump, esattamente come accade al Partito conservatore inglese che ha appena confermato alla sua guida Boris Johnson.

Per i Tory britannici la disputa ideologica è deturpata dalla Brexit, e il partito è passato attraverso il premier Cameron che ha indetto il referendum e l’ha perso, la premier May che non è riuscita a concretizzare la Brexit e ha perso la maggioranza in Parlamento, fino a Johnson, che oggi prepara il paese allo scontro con l’Europa e alla Brexit disordinata del no deal. Ci sono state delle fughe dai Tory, poche e chiacchierate e irrilevanti, ma ora molti parlamentari sostengono di voler rifiutare l’accordo già siglato con l’Unione europea anche nel caso in cui si dovesse togliere dal testo il famigerato backstop del confine nordirlandese. I Tory non fanno più alcuna resistenza, e anzi alcuni considerano l’ipotesi, un tempo inimmaginabile, di un’eventuale alleanza con il Brexit Party di Nigel Farage, per creare un solido fronte pro Brexit nel caso si dovesse andare a elezioni. Anche in questo caso, come negli Stati Uniti, è meglio godersi lo spettacolo delle divisioni e dei tormenti dell’opposizione piuttosto che infilarsi in dispute interne di principio.

 

I due partiti del conservatorismo anglosassone hanno prodotto al loro interno leader atipici, si può dire soprattutto nel caso di Trump che se li sono ritrovati, ma lo scorno iniziale l’hanno dimenticato in fretta e hanno anche smesso di preoccuparsi delle derive ideologiche e retoriche. E pazienza se questi leader non governano gli istinti più rudi (e xenofobi) degli elettori ma li alimentano: si troverà un posto a tutto nella cornice del passato che è di nuovo qui.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi