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Le Frattocchie verdi

Marianna Rizzini

Che cosa resta della “formazione” leghista a Radio Padania (e alla Padania), tra Salvini e Savoini

L’oro di Mosca, gli amici di Putin, l’intrigo che si infittisce, le spie che forse ci sono e forse non ci sono, l’inchiesta per corruzione internazionale a far da sfondo – e poi le plusvalenze e le materie prime e il petrolio e l’amico avvocato e l’amico assessore e i rubli e le valigette e i gialli e i verdi e il governo che traballa e la costante che s’affaccia: il comune passato di alcuni dei presunti protagonisti, comprimari ed esperti dell’affaire Lega-Russia affonda nelle cosiddette “Frattocchie” leghiste, quel luogo fisico, di carta e di etere che comprendeva, con confini labili, Radio Padania, il quotidiano La Padania, Telepadania e la Padania come concetto in sé (la terra sognata se non promessa, all’inizio degli anni Novanta, ai seguaci di Umberto Bossi). E insomma, se Matteo Salvini – vicepremier che, sui presunti finanziamenti russi, dice di non voler “riferire sulla fantasia”, ma di “aspettare la chiusura delle indagini” – può pensare con riconoscenza al passato giornalistico a Radio Padania, da lui a un certo punto anche diretta lungo la tradizionale linea del “dare voce alla pancia del Nord”, Gianluca Savoini, il presunto uomo nero del Russiagate, anche fondatore dell’associazione culturale Lombardia-Russia, può vantare trascorsi cronistici alla Padania, il quotidiano leghista chiuso nel 2014. Giornale dove, come ha dichiarato l’ex direttrice Stefania Piazzo, Savoini teneva dietro la scrivania alcune fotografie definite “presenza iconografica anomala”: “Se le riconduci a goliardia può anche andar bene, ma a quel punto te le tieni nella tua cameretta, non in una redazione politica”, ha detto Piazzo, pur definendo l’ex collega “un giornalista brillante” (“presenza iconografica anomala” come per esempio la foto di Adolf Hitler che, secondo un articolo uscito nel 2002 su Liberazione, Savoini teneva in ufficio – ma sul particolare non c’è unanimità di ricordi).

 

L“andavamo in via Bellerio” come comune denominatore, e la triade mediatica padana dove fare il  grande balzo politico nella Lega

Leggenda o verità che sia, un altro ex direttore della Padania, Gigi Moncalvo, così si è espresso in proposito: “La definizione esatta di Savoini è nazista”. E da qualche parte la suggestione fumosa – dal rosso al nero, dal nero al rosso, passando per i rubli sospetti – alimenta la polemica sui tormentati giorni di luglio del governo sovranista. Che, dal lato leghista, ha radici proprio lassù, tra via Bellerio e via Bellerio. Unico indirizzo per radio, giornale e partito – e c’è anche chi, proprio passando per via Bellerio, ha fatto recentemente il salto dal verde al giallo, come Gianluigi Paragone, ex conduttore de “La Gabbia”, prima vicino alla Lega, poi eletto senatore per i Cinque Stelle.

 

Ed è chiaro che ora non si dice più “andavamo in via Bellerio” con la baldanza con cui lo si diceva a fine anni Novanta o nei primi anni Duemila, quando le percentuali leghiste non erano quelle di oggi ma ci si poteva descrivere come “anti-sistema”, e certo non si ingaggiavano un giorno sì e l’altro pure scontri populisti. D’altronde neanche a sinistra nessuno o quasi osa più dire “andavamo alle Frattocchie”, mitologica scuola centrale del Pci nonché luogo della mente per chiunque, in anni recenti, in area pd, abbia coltivato e coccolato l’amarcord. Come scriveva Francesco Cundari su questo giornale: “Tutti quanti… ne ricavarono un’inguaribile nostalgia per corsi, riunioni, assemblee e seminari come si svolgevano allora, in quella grande villa ottocentesca – con tanto di piscina e ping pong, con la grande mensa comune e quel terribile vino bianco dei Castelli – all’Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti, la scuola quadri del Pci.

 

Una nostalgia che si sarebbe fatta insopportabile negli anni a venire e negli alberghi in cui si finisce adesso, ai tempi dei convegni e delle convention. E delle Summer School…”. E se non erano paragonabili alla scuola quadri comunista, tuttavia la radio e il giornale padani costituivano il passaggio privilegiato per chi volesse fare il grande balzo politico nella Lega. Al punto che la mancanza odierna del quotidiano storico padano, chissà, scherza un leghista, “potrebbe aver ispirato l’ideazione di un luogo sostitutivo”, la scuola di formazione salviniana di cui qualche mese fa molto si parlava: scuola in cui parlare di Russia, di Vaticano, di rapporti con gli Stati Uniti e di Costituzione, per “trasmettere ai figli”, questo era l’intento, il concetto “che la politica non è quella cosa brutta che si vede in tv”. (E vallo a dire a chi Salvini in campagna-slogan permanente non lo vede soltanto in tv ma lo legge ogni giorno sui social network). Ma è di nuovo all’antica via Bellerio, quartier generale della comunicazione verde, tra radio e giornale, che bisogna tornare per capire come, dove e quando l’abitudine alla campagna elettorale perenne, costi letteralmente quel che costi, ha preso piede nell’eloquio del vicepremier e ministro dell’Interno, ma anche per capire dove e come Savoini detto “Savo”, colui che ora nessuno, ex post, sembra voler definire “collaboratore”, ha potuto cominciare a esercitarsi sulle sue idee (allora non maggioritarie).

 

I prodromi dell’indignazione anticasta e i commenti da bar, in assenza (ancora) del Movimento cinque stelle di Beppe Grillo

Andando indietro con il pensiero alle “Frattocchie” leghiste, si ritrova dunque un Salvini conduttore (e presto anche direttore della radio) di “Mai dire Italia”, trasmissione che parafrasava nel titolo “Mai dire gol”, ma per ribadire l’avversione per il patriottismo (oggi rivisitato in chiave leghista), in generale e in particolare, in tempi in cui molti militanti, telefonando in redazione, salutavano non con “buongiorno” ma con “buona Padania”. La trasmissione era lontana dalla linea odierna del “mettere radici al Sud” (anzi l’idea era di distaccarsene quanto prima), come raccontavano i giornalisti Alessandro Franzi e Alessandro Madron nell’ebook “Matteo Salvini - Il Militante” (scritto nel 2015, GoWare ed.) In quegli anni, dopo una lunga gavetta da consigliere comunale, il conduttore Salvini iniziava a farsi le ossa con le sparate di cui sono noti oggi gli estremi. La satira era veicolo del messaggio: non, come oggi, “prima gli italiani”, ma “prima i padani”, a costo di non tifare Italia ai Mondiali di calcio, il tutto mescolato a prodromi di invettive anticasta e antimondialiste. Raccontava a Franzi e a Madron Massimiliano Romeo, poi capogruppo al Consiglio regionale della Lombardia, a proposito del programma di Radio Padania: “Chiunque poteva chiamare e dire tutto quello che voleva. Eravamo quattro ragazzotti che andavano in radio a fare i pirla. La trasmissione ebbe però un successo tale che la facevamo quasi tutta la settimana, dovevamo dividerci i turni. Mi ricordo che una volta capitò di andare in onda anche il giorno di Natale, ci chiamavano in diretta per farci gli auguri”. Salvini diventa allora la voce numero uno dell’emittente, e alla finale degli Europei di calcio del 2000, giocata fra Italia e Francia, dichiara il tifo per la Francia (al grido di “teste di calcio in finale”, come raccontava Linkiesta). Nei Mondiali 2006, invece – particolare che, visto con il senno di poi, appare uno scherzo preventivo del destino – Salvini tifa Germania, cosa che non avrebbe potuto fare a cuor leggero oggi, in epoca di lotta leghista contro l’Europa con impostazione “Angela Merkel”.

 

I microfoni aperti, l’ascoltatore che dice qualsiasi cosa (modello Radio Radicale), e il tifo contro l’Italia ai Mondiali di calcio

L’Italia intesa come nazionale di calcio, diceva allora il futuro vicepremier, per lui rappresentava “il peggio del peggio”. Ma c’era anche la Radio Padania che faceva “controstoria”: un 4 novembre, festa dell’Unità nazionale e delle Forze armate istituita nel 1919, Salvini decideva per una programmazione intensiva improntata all’orgoglio padano – con non stop di dodici ore, tutta in dialetto, canzoni comprese. Ed erano periodi tutto sommato di fasti leghisti – c’era la tv, la radio e il giornale, c’era Bossi che scendeva a qualsiasi ora da un ufficio-appartamento all’ultimo piano, c’erano Roberto Maroni e Roberto Calderoli ancora in versione “duri e puri”. C’era l’idea che i media nazionali stessero sottovalutando il fenomeno padano, motivo per cui l’impresa mediatica doveva farsi non soltanto megafono ma anche maestra di scorrettezza politica per i militanti. Diventò allora imprescindibile il “filo diretto” con gli ascoltatori, come si faceva da sempre a Radio Radicale. Filo diretto in senso letterale: si poteva, durante alcuni programmi, telefonare per dire senza filtri qualsiasi cosa, cose che oggi potrebbe peraltro dire Salvini (su immigrati e sicurezza), e che ieri, quando ancora il governo gialloverde era di là da venire, facevano scrivere a Eugenio Scalfari editoriali in cui si domandava: “Chi sarà la gente con cui parla Bossi?”. Ed era gente che telefonava, per esempio, alla trasmissione “Il Ribelle”, condotta dal Leo Siegel, e sparava contro politici di ogni colore, rom, clandestini e meridionali (della serie: “Roma ladrona”, ma anche “tutti fuori” ma anche, di luogo comune in luogo comune, “Garibaldi non ha unito l’Italia ma ha diviso l’Africa”). E se già si cominciava a discutere di pericolosità o meno di quelle parole, il giudizio dall’esterno restava identico: sarà voce dal sen fuggita al bar, sarà il capriccio popolare un tanto al chilo, sarà la disillusione dall’illusione provocata dal politico imbonitore, sarà il lamento anti-tasse e anti-immigrazione. Nulla che potesse coagularsi in voto maggioritario, men che meno in investitura per Palazzo Chigi. E invece.

 

Quando Savoini scriveva sulla Padania e quando Salvini faceva il conduttore alla radio, rimodellando il calendario in dialetto

Tuttavia in quel momento non si pensava certo, in via Bellerio (ché sulla scena politica c’era ancora Silvio Berlusconi, a monte del caso Ruby e delle “dieci domande”), a una futura alleanza della Lega Nord con il partito-movimento populista della decrescita felice allora in nuce (c’erano soltanto gli spettacoli del comico Beppe Grillo). Così come ancora lontanissime erano le polemiche sullo spegnimento delle frequenze di Radio Padania (da fm a web radio) e sul passaggio di alcuni giornalisti all’impiego nella Regione Lombardia a trazione maroniana. E però contemporaneamente era attiva l’altra palestra, il contiguo quartier generale di carta dell’ancora molto locale offensiva mediatica proto salviniana: il giornale La Padania, come si è detto vicina di casa delle radio e del partito nonché organo “di riflessione” sul presente e sul futuro di una Lega che ogni anno (fino a poco tempo fa) si ritrovava lungo il Po per reiterare il rito cosiddetto “dell’ampolla”. Ed è sulla Padania che scriveva in quegli anni Savoini, leghista prima bossiano (Mario Borghezio lo definisce “un soldato della Lega”) poi maroniano poi, in giorni più recenti, salviniano. Il giornale era già cambiato dai tempi della fondazione (nel 1996) quando, come ha raccontato dopo la chiusura del quotidiano il suo primo direttore Gianluca Marchi (non iscritto al partito ai tempi della direzione), la Lega era “una Lega barbara, non governativa ma sola contro tutti, del tutto antisistema”. Savoini e Salvini già si conoscevano (si conoscono da quando Salvini era consigliere comunale), ma nessuno poteva immaginare che nell’anno 2019 i comuni giorni “alle Frattocchie verdi” sarebbero stati pesanti come zavorra. “Ma come? Scarichi Savoini?” è stata la domanda ricorrente fatta a Salvini all’esplodere del Russiagate, e a nulla è servito, ad allontanare i sospetti di comunanza di vedute se non d’intenti, ripetere che sì, Savoini “è un amico da venticinque anni”, ma che no, “l’associazione Lombardia-Russia non ha nulla a che vedere con la Lega”. Perché è come se tutto si tenesse in ogni caso, al di là dei tribunali, lungo il filo verde che legava queste e quelle stanze della Padania una e trina (radio-tv-quotidiano), ormai scomparsa o trasformata in altro da sé.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.