Alfonso Bonafede ospite di "In Mezz'ora in più" (foto LaPresse)

Il vero test per Salvini: la pazza riforma della giustizia grillina

Annalisa Chirico

Il disegno di legge Bonafede allunga i tempi dei processi e dà al Csm nuovi poteri sulla priorità dell’azione penale. Il leader della Lega si accoda?

Abracadabra, sim sala bim, bibbidi bobbidi bu. Niente da fare, stavolta l’incantesimo non funziona. L’annunciata riforma della giustizia è fuffa, l’ennesima operazione di maquillage. Resta una domanda: il vicepremier Matteo Salvini vorrà davvero intestarsela, insieme al blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio? Tutto può accadere in questo scombiccherato governo il cui ministro della Giustizia Alfonso Bonafede brandisce come un trofeo la conclusione di un procedimento, con i suoi tre gradi di giudizio, nel giro di nove-anni-nove. I cittadini, secondo il Bonafede-pensiero, dovrebbero sentirsi sollevati: nove anni è meno di venti o trenta, può sempre andar peggio. Il disegno di legge, voluto dal Guardasigilli, non accorcia i processi, anzi li allunga; non agevola il ricorso ai riti alternativi; non interviene sull’organizzazione giudiziaria se non per aumentare il potere dei vertici degli uffici; infine, tanto per gradire, introduce un complicatissimo metodo di elezione dei nuovi membri del Csm, unico organo titolare del potere di fissazione delle priorità dell’azione penale, espropriando così il Parlamento di una competenza politica.

  

    

Se la parabola di Luigi Di Maio appare segnata dall’essenza costitutiva e statutaria di un movimento allergico alle incrostazioni di leadership (tanto più per un “capo politico” che ha fatto dimezzare i consensi alle urne), diverso è il caso del leader leghista con il vento in poppa, non si sa fino a quando. Salvini è allettato dalla futura corsa solitaria verso Palazzo Chigi, perciò deve badare alle convinzioni oltre che alle convenienze. Nel governo che approva i “decreti crescita” che seppelliscono la crescita e le misure “sbloccacantieri” che bloccano i cantieri (da ultimo, il niet di Mr. Toninelli alla Gronda, tanto per dire), il “Capitano”, che a ogni occasione scandisce uno slogan bellissimo, “fino a prova contraria”, vuole davvero perdere la faccia per inseguire l’agenda pentastellata sulle cose giudiziarie? Salvini intende davvero presentarsi agli elettori con il macigno di una prescrizione che non c’è più, dei processi in eterno, dell’intercettateci tutti? Salvini intende davvero sacrificare le ragioni del processo giusto ed efficiente sull’altare della realpolitik?

    

La questione non è di poco conto: in Italia sulla giustizia si fanno e disfano i partiti, sorgono e tramontano le leadership, si saldano e sfaldano alleanze di governo. Il ministro Bonafede, sommo fautore del blocco della prescrizione e della riapertura dei “tribunalini” sotto casa, ha presentato il suo disegno di legge su processo civile e penale, ordinamento giudiziario e Csm. “Una norma manifesto”, ha sentenziato l’Anm in singolare sintonia con l’Unione delle Camere penali italiane. In effetti, il testo del governo sembra ispirarsi alle magie fiabesche come se bastasse un colpo di bacchetta, o una formuletta magica, per trasformare la zucca in carrozza, il ranocchio in principe, il processo lento in processo smart. Stando alle nuove norme, le indagini dovranno svolgersi entro il termine di sei mesi (per reati per cui la legge prevede la pena pecuniaria o la detenzione per non più di tre anni) oppure di un anno e sei mesi al massimo per le fattispecie di maggiore gravità. Le indagini preliminari potranno essere prorogate una volta soltanto. Il pm dovrà comunicare, senza ritardo, all’indagato il deposito delle indagini, ed egli dovrà avere la possibilità di visionare tutta la documentazione. Se il pm omette questa comunicazione, potrà incorrere in un generico illecito disciplinare.

  

Inoltre, a dispetto delle richieste dei penalisti, il testo non estende il ricorso al patteggiamento, anzi il governo marcia nella direzione opposta di un accesso più limitato al rito abbreviato. S’ignora pure il tema decisivo del momento dell’iscrizione nel registro degli indagati né s’interviene su criteri e meccanismi organizzativi interni agli uffici giudiziari. Eppure, come documentato dallo stesso ministero di via Arenula, oggigiorno, a parità di norme e risorse, esistono vistose differenze di produttività tra uffici giudiziari: un buon magistrato non è per forza un buon dirigente. Negli Stati uniti, per esempio, l’organizzazione del lavoro è demandata a un “court manager” laureato in Business administration, non in diritto. I magistrati, ben consapevoli dello stato dell’arte, potrebbero diventare i protagonisti di un vero cambiamento, magari in cambio di più risorse, più cancellieri, più stampanti, più computer, e, perché no, compensi più alti legati ai risultati effettivi. Di questo però non vi è traccia, il ddl delega si premura di eliminare le funzioni semidirettive di procuratori aggiunti e presidenti di sezione, fino a oggi individuati dal Csm; aumenta invece il potere dei capi degli uffici incaricati di nominare, d’ora innanzi, il “magistrato coordinatore”, figura di nuovo conio.

  

Se l’abolizione delle “porte girevoli” tra politica e magistratura (con rientro, alla scadenza del mandato, nei ranghi della pa senza ruoli giurisdizionali) può essere accolta positivamente, non c’è da gioire per la riforma del Csm, ennesima operazione fiabesca, da abracadabra, priva di impatto concreto. Il funzionamento della sezione disciplinare, che in molteplici casi ha mostrato le armi spuntate di Palazzo de’ Marescialli, non viene intaccato se non per la previsione che i membri della disciplinare non potranno far parte di altre commissioni. Le nuove norme mettono in piedi un arzigogolato e irragionevole metodo di votazione che ne assomma in sé tre diversi (voto, sorteggio, voto percentualizzato) con il paradosso di una “riforma demagogica”, come l’ha definita Armando Spataro: “La rappresentatività dell’intera magistratura – ha scritto su Repubblica l’ex procuratore capo di Torino – non può in alcun modo essere salvaguardata con l’artificio di definire ‘eletti’ coloro che costituirebbero solo una platea da cui estrarre a sorte i membri del Csm i quali potrebbero essere persino i meno votati”. Il Csm tornerebbe a contare trenta componenti (venti togati e dieci laici), sei in più degli attuali. In base al nuovo testo, inoltre, sarà l’organo di autogoverno della magistratura a indicare alle procure i criteri di priorità dell’azione penale, estromettendo dunque il Parlamento da una funzione squisitamente politica. Se oggigiorno le procure si orientano autonomamente in base alla sensibilità dei magistrati e alle peculiarità locali (obbligatorietà, auguri), nel progetto di Bonafede il compito di determinare la politica giudiziaria verrebbe assorbito in via esclusiva dal Csm, generando una confusione tra poteri dello stato che richiederebbe invece il coinvolgimento primario del Parlamento, culla della sovranità popolare.

  

In conclusione, si può affermare che se spetta alla riforma in questione il compito di disinnescare la “bomba atomica” (copyright di Giulia Bongiorno) della defunta prescrizione, c’è poco da stare allegri. Matteo Salvini stavolta non potrà scrollare le spalle. Gli italiani hanno a cuore il tema, anzitutto per un motivo esperienziale: in ogni famiglia almeno una persona ha attraverso una qualche bega giudiziaria. Siamo tutti, chi più chi meno, superstiti di una giustizia lenta, inefficiente, inaffidabile. Salvini dovrà parlare anche a noi, e difficilmente potrà farlo con credibilità all’indomani di una controriforma così congegnata. La battaglia per una giustizia amica di cittadini e imprese è una cosa seria, e le ragioni del garantismo non possono essere invocate soltanto quando è il momento di difendere i propri “uomini” dagli attacchi scomposti di un branco di tricoteuses a cinque stelle. L’incantesimo, stavolta, non funziona.

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