Foto LaPresse

Il vero scandalo rimosso dal Csm

Annalisa Chirico

Tra arretrati, carichi di lavoro ipertrofici e il rischio di paralisi dell’attività, che cosa dicono i magistrati sul falso dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale? Le falle nel sistema giudiziario e le scelte discrezionali nei fatti. Un girotondo

C’è ancora qualcuno che crede nell’obbligatorietà dell’azione penale? Il principio è bellissimo, per carità, ma nell’amministrazione concreta della giustizia esso si conferma, ogni giorno, impossibile da realizzare. Unfeasible, direbbero gli inglesi. Con una lettera al Foglio, l’ex procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati ha rotto gli indugi: “Difendere il principio per la sua valenza di garanzia impone di affrontare il tema delle scelte discrezionali del pm che la prassi comporta. Problemi complessi non hanno soluzioni semplici”. Detta in altri termini, se il principio inscritto nell’articolo 112 della Costituzione viene brandito come un “atto di fede”, esso diventa sì un falso dogma.

 

A ben vedere, la posizione critica è sempre più condivisa tra i magistrati che, dovendo fronteggiare un carico di lavoro ipertrofico, fanno i conti con la triste realtà di un arretrato che non arretra e dell’impossibilità materiale di perseguire ogni notizia di reato con la medesima tempestività ed efficacia. Il magistrato è obbligato a compiere scelte discrezionali, pena la paralisi. “Il principio, nei fatti, è già superato – dichiara al Foglio il procuratore aggiunto di Venezia Stefano Ancilotto –. Con una procura sepolta da milioni di fascicoli, il pm finisce per scegliere autonomamente quali reati perseguire e quali no. I procuratori generali e il Csm trasmettono le tabelle di priorità, è vero, ma spesso la genericità delle indicazioni fornite e la specificità dei singoli casi da affrontare fanno sì che ognuno si regoli un po’ come vuole, in modo discrezionale. Le faccio un esempio: se giunge sulla scrivania la notizia di un reato bagatellare che però coinvolge una personalità pubblica, probabilmente quel fascicolo avrà una corsia preferenziale”.

 

Bruti Liberati evidenzia i momenti in cui la discrezionalità del pm si fa più marcata: l’iscrizione nel registro degli indagati, per esempio. “Mi rallegra che anche lui abbracci finalmente questa posizione: com’è noto, Magistratura democratica ha sempre considerato l’azione penale obbligatoria alla stregua di un dogma infallibile. Venendo al merito, il pm, in taluni casi, posticipa l’iscrizione non per qualche oscura ragione ma perché magari sussistono solo sospetti e non elementi integranti un reato”. Il risultato è un sistema a macchia di leopardo: procura che vai giustizia che trovi. “Io ritengo che in un sistema riformato dovrebbe essere il Parlamento, culla della sovranità popolare, a fissare le priorità di politica giudiziaria, non il Csm”.

 

Stefano Ancilotto: “Con una procura sepolta da milioni di fascicoli,
il pm finisce per scegliere autonomamente quali reati perseguire e quali no”. Giuseppe Amato: “Il principio va mantenuto perché è posto a garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Tuttavia, la sua applicazione, nella prassi, è assai limitata”

 

Ricapitolando: l’obbligatorietà dell’azione penale, nella prassi, è già disattesa per manifesta impossibilità. Intanto i 2 mila magistrati requirenti – una minoranza sui circa 9 mila togati italiani – esercitano ampia discrezionalità. Non c’è da stupirsi poi se la gente pensa che sia meglio avere un pm amico che un giudice amico. “I pm di primo grado, incaricati di seguire le delicate fasi delle indagini, sono ancor meno di duemila, eppure godono di maggiore visibilità, sono quelli che si mettono di più in vista. Una volta si diceva che la procura di Roma vale come un ministero. Il motivo è semplice: il pm controlla l’azione penale, esercita un ruolo superiore. Se le chiedo i nomi di magistrati eccellenti, sia in positivo che in negativo, le verranno in mente soltanto dei pm. Accade così pure negli Stati Uniti dove tutti ricordano Rudolph Giuliani: non è un bene o un male, è semplicemente l’effetto del processo accusatorio che ha posto al centro del procedimento il pm attaccante, non un modesto centrocampista”.

 

Nel 2017 il Csm, con l’allora vicepresidente Giovanni Legnini, emana una circolare sulle priorità investigative e l’obbligatorietà dell’azione penale riconoscendo pubblicamente l’ipocrisia di un sistema che, da un lato porge un ossequio formale al suddetto principio costituzionale, e dall’altro esercita quotidianamente il suo contrario. “In realtà, si tratta di un ‘principio attenuato’, già oggi disatteso nella sostanza – dichiara al Foglio Legnini che oggi è consigliere regionale in Abruzzo –. Con quella circolare esso fu disciplinato, per la prima volta in assoluto, in un atto consiliare”. Un’azione obbligatoria, dunque, nella misura in cui ciò sia “sostenibile” a fronte di un “carico di lavoro spesso poco gestibile e magmatico, sproporzionato rispetto alle risorse e alle esigibili risposte di giustizia che possono fornirsi all’utente, con conseguente esposizione alle valutazioni disciplinari e di professionalità”. “Il provvedimento del dirigente dell’ufficio in materia di ‘priorità’ – si legge nella circolare del Csm - sarà strumento di orientamento del lavoro del singolo, del quale il Consiglio potrà tener conto sia in materia di valutazione di professionalità del singolo magistrato (con particolare riferimento al rapporto fra quantità e qualità degli affari trattati), che in occasione della conferma o della nuova nomina ad altro incarico del dirigente”. Nello stesso documento di Palazzo de’ Marescialli, si ribadisce che “scelte di priorità sono immanenti nel precipuo esplicarsi del potere di organizzazione del procuratore della Repubblica, attraverso la discrezionale distribuzione delle risorse umane e tecnologiche, il concreto impiego della polizia giudiziaria, la declinazione del principio di semispecializzazione attraverso la creazione di gruppi di lavoro, l’emanazione di direttive in materia di protocolli investigativi, la creazione di strutture di trattazione centralizzata degli affari, l’indirizzo per l’utilizzazione massiva di riti alternativi come il decreto penale di condanna, e dunque a prescindere dalla eventuale enunciazione di un catalogo di reati prioritari, intesi in astratto o attraverso concorrenti metodi selettivi”.

 

Rifugge dall’ipocrisia il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato: “A mio giudizio, il principio va mantenuto perché è posto a garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Tuttavia, la sua applicazione, nella prassi, è assai limitata: siamo inondati da una mole enorme di notizie di reato, anche grazie alla tendenza del legislatore alla panpenalizzazione. Ogni fatto sociale, oggigiorno, è affiancato da un reato di nuovo conio che, a sua volta, genera una moltitudine di procedimenti. Per prima cosa, dunque, sarebbe auspicabile un serio programma di depenalizzazioni”. D’accordo, questo è compito della politica, ma nel frattempo l’azione penale è obbligatoria secondo un parametro di “sostenibilità”, diciamo così. “Il nostro compito è fornire una risposta adeguata alla domanda di giustizia che proviene dai cittadini, a tale scopo servono norme chiare e responsabilità organizzativa. Io mi sono sempre attenuto alla seguente regola: reati diversi seguono modalità organizzative differenziate. I reati bagatellari o, comunque, a minore allarme sociale, per esempio, sono destinati a una modalità routinaria, mentre nei casi ove manchino i presupposti per la sostenibilità dell’accusa in giudizio è bene procedere rapidamente all’archiviazione, senza tirarla per le lunghe. Nel momento dell’iscrizione della notitia criminis nell’apposito registro, il pm deve decidere se impiegare il modello 45 (degli atti non costituenti notizie di reato), il modello 44 (delle notizie di reato a carico di persone ignote) o il modello 21 (a carico di persone note); questa scelta, che è fondamentale perché, a far data dalla iscrizione, decorrono i termini per le indagini preliminari, è carica di conseguenze sulle fasi successive. La formula del cosiddetto ‘atto dovuto’ è spesso un alibi per coprire uno scarico di responsabilità. Assistiamo così a processi per reati colposi con un numero sproporzionato di indagati rispetto al risultato finale: in questi casi la procura ha operato delle scelte scorrette ab origine”.

 

Chi dovrebbe fissare le priorità: il pm o il Parlamento? “Che sia il singolo procuratore, con le proprie determinazioni, a individuare i reati a trattazione privilegiata, mi sembra inopportuno. Nella mia esperienza, io mi attengo esclusivamente alle linee diramate dal Csm e ai criteri di priorità che trovano una copertura nella legge primaria, del resto in diversi casi è il legislatore a prevedere delle corsie preferenziali per talune fattispecie criminose. Per l’omicidio stradale, per esempio, il legislatore fissa termini ravvicinati per l’esercizio dell’azione penale”. Bruti Liberati, nella sua lettera, si sofferma anche sull’invio dell’informazione di garanzia. “L’ex procuratore ha ragione quando sostiene che la trasmissione di un atto, posto a tutela dell’indagato, rischia talvolta di trasformarsi in un boomerang se rende pubblica l’indagine nei confronti di una persona destinata all’archiviazione. Alcuni strumenti di garanzia, per paradosso, appesantiscono il fascicolo di adempimenti inutili, a scapito dell’indagato che dovrebbero invece tutelare”.

 

“Mi fanno rabbia le scorciatoie”, dichiara al Foglio Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, con i toni spicci che sono diventati il marchio di fabbrica del pm anti-’ndrangheta. “Prima di riformare l’obbligatorietà dell’azione penale, esistono altre urgenze che eliminerebbero il problema alla radice”. Quali? “Informatizzazione del processo e degli uffici giudiziari. Se applicassimo la tecnologia più innovativa disponibile nel 2019, lo spaventoso arretrato odierno scomparirebbe in un battibaleno. Invece sento dire che questo non si può fare, quest’altro neanche, quest’altro ridurrebbe le garanzie, come se l’informatica fosse il diavolo. I bambini, al giorno d’oggi, stanno in culla con lo smartphone in mano e la connessione Internet. Nessuno si domanda perché certi fascicoli attendono quattro anni sulla scrivania di un pm e poi altri sei nell’ufficio del gup o del giudice di primo grado. E’ davvero necessaria per il buon andamento della pubblica amministrazione questa pletora di magistrati fuori ruolo? Se qualcuno di loro rientrasse in servizio, a pieno regime, un po’ del carico pendente sarebbe abbattuto. L’ex ministro della Giustizia Paola Severino si è intestata una riforma importante della geografia giudiziaria con la chiusura dei cosiddetti “tribunalini”, io sono favorevole a proseguire l’opera di accorpamento”. L’attuale guardasigilli, Alfonso Bonafede, è di avviso opposto: dice che con gli uffici di prossimità la giustizia è “sotto casa”. “Conosco la sua opinione e gli ho espresso personalmente il mio disaccordo – replica Gratteri – Francamente stento a credere che questo esecutivo sia in grado di fare una seria riforma della giustizia”.

 

Nicola Gratteri: “Prima di riformare l’obbligatorietà dell’azione penale, esistono altre urgenze che eliminerebbero il problema alla radice”.
Mario Palazzi: “Non si parla di depenalizzazioni”. Guido Salvini favorevole “all’autonomia delle procure, purché fondata su criteri trasparenti, pubblici”

 

La discrezionalità di cui gode oggi il pm non rischia di essere eccessiva? “Se il pm deve agire per automatismi, allora è meglio utilizzare un computer, costa meno. Noi dobbiamo mettere i magistrati nelle condizioni di svolgere il mestiere per cui hanno vinto il concorso. La discrezionalità c’è ma non è senza limiti. Di norma, si dà la precedenza ai fascicoli con persone agli arresti o ai reati di maggiore allarme sociale. In presenza di omicidi o stupri, il furto in appartamento passa in secondo piano. Nella vita ci vuole un po’ di buon senso: il capo dell’ufficio svolge una funzione d’indirizzo e controllo, deve applicare le norme e usare la testa per essere un buon direttore d’orchestra. Bisogna rassegnarsi a trascorrere le giornate in ufficio, dalle otto del mattino alle otto di sera, solo così si rimane sul pezzo”. Il suo è un accenno polemico verso i lavativi? “Esistono anche in magistratura, come in ogni categoria”.

 

Per il sostituto procuratore di Roma Mario Palazzi “se vuoi ridurre il traffico su una strada intasata di auto, non otterrai il risultato varando una legge che fissa l’obbligo di viaggiare a ottanta chilometri orari, piuttosto dovrai allargare la carreggiata e aggiungere una corsia”. Metafora di viabilità per dire che, se l’effettiva obbligatorietà dell’azione penale resta un miraggio, ciò è dovuto, in primo luogo, all’eccessivo carico di lavoro. “Bruti Liberati – spiega Palazzi – pone un problema ineludibile che paragonerei a un imbuto”. In che senso? “Se a Trento sono ultra efficienti, è perché possono contare su risorse e strutture adeguate. Se noi, a piazzale Clodio, dobbiamo fronteggiare continui ‘imbuti’, è perché le scrivanie sono invase da troppi fascicoli, e di depenalizzazioni non si parla, anzi esiste ormai un ‘diritto penale simbolico’, panacea di ogni male. L’idea che va per la maggiore è che così si possano risolvere i problemi, facendo la faccia feroce, inventando nuovi reati. La verità è che il nostro è un sistema penale autoreferente, ripiegato su se stesso, che applica un unico rito, quello accusatorio, sia a un episodio bagatellare che a un omicidio plurimo. Molte condotte illecite andrebbero affrontate fuori dal circuito penale oppure destinate a un rito speciale”. Esistono già i riti alternativi a scopo deflattivo. “Ma se mantieni invariati personale, risorse, il tetto di udienze possibili, il risultato non cambia, e neppure i tempi. Così l’orizzonte dell’imputato diventa la prescrizione, e il difensore persegue un’aspettativa legittima che certifica il fallimento del sistema”. Chi deve fissare le priorità di politica giudiziaria? “Decidano pure le procure purché ciò avvenga in modo trasparente, tenendo conto del contesto in cui si opera. Voglio dire: il terrorismo rappresentava un’emergenza negli anni Settanta, oggi non più. Milano è diversa da Reggio Calabria”.

 

L’obbligatorietà è un principio assolutamente irrinunciabile per Fabio Roia, presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano: “Il senso profondo del principio costituzionale è che il giudice terzo controlla l’operato del pm. Il pubblico ministero gode di ampi margini di discrezionalità, è vero, ma non nell’esercizio dell’azione penale (dove è sempre sottoposto al controllo giurisdizionale), bensì nei tempi di esercizio della stessa. E’ una questione annosa, legata all’ipertrofia della fase investigativa e all’enorme mole delle notizie di reato con cui dobbiamo fare i conti. Tuttavia, già oggi, il legislatore può prevedere dei canali prioritari per certe categorie di reato: il Codice rosso, di recente approvazione, per esempio, fissa una corsia preferenziale per i casi di violenza contro le donne”.

 

Per Guido Salvini, giudice della prima sezione del Tribunale di Milano, la questione è ben più complessa perché il buon senso non è sempre l’unico criterio a guidare l’azione togata: “Conosco pm che danno l’anima su processi dotati di eco mediatica e magari politica, e poi abbandonano quelli che coinvolgono cittadini comuni. Oggi la scelta è totalmente discrezionale a causa della mole di notizie di reato. Io sono favorevole all’autonomia delle procure purché essa si fondi su criteri ostensibili, trasparenti, pubblici”. Insomma, il principio di obbligatorietà è desueto? “Io ne riformulerei il significato: non l’obbligo di celebrare tutti i processi, il che è irrealistico, ma piuttosto quello di trattare i processi minori, che riguardano i signor nessuno, con il medesimo impegno profuso nelle indagini mediaticamente fragorose, quelle che danno lustro e fama ai procuratori che fanno gara per accaparrarseli”. Quando si dice, la sincerità.

Di più su questi argomenti: