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Balzac a spasso per tribunali

Giuseppe Sottile

Ricordate il racconto del soldato che conviveva nel deserto con una pantera? Pensate ai Gip e alle procure

Ma sì, facciamolo anche noi uno di quei giochini proibiti che tanto affascinano la bella società. Armiamoci di una palla di vetro e proviamo a immaginare che cosa succederebbe se, tra cinque o sei anni, Luca Palamara venisse assolto da tutti i vizi e i peccati che gli sono stati riversati addosso in questa asfissiante estate di scandali e confusione. Verosimilmente il verdetto, che sarà emesso dal collegio giudicante dopo mesi di dibattito e approfondimenti, gli scivolerà addosso come acqua sul marmo. Perché da qui a cinque anni le luci saranno spente e del potente Palamara – il magistrato che fu pubblico ministero, presidente dell’Anm e membro autorevole del Csm – non resterà che un mucchietto di inique memorie, ossificate dal tempo e dai giochi balordi della politica.

  

La sola giustizia che conta oggi è quella amministrata hic et nunc dalla Repubblica delle Procure. E Palamara lo sapeva bene

Che se ne farà dell’assoluzione in carta bollata dopo che in una stagione selvaggia è stato sfregiato e oltraggiato da tutte le nefandezze catturate da uno strumento barbaro come il Trojan, vistate dalla procura di Perugia e consegnate a rate e senza pudori a giornalisti e mistificatori, agli apostoli della libertà di stampa e anche ai mascalzoncelli che passano le giornate a costruire forche e palchetti per la gogna? La pena massima che Palamara poteva ricevere, per le sue leggerezze di uomo o per le sue scempiaggini di potere, l’ha già subita e scontata. Ha già pagato i suoi errori a caro prezzo. E lo ha fatto prima di avere la possibilità di spiegare se dietro quegli errori c’era colpa o dolo; oppure un semplice equivoco. Altro che giustizia sommaria. Lo sputtanamento ha toccato punte di pietrosità mai viste: è stata trascinata nel fango non solo la sua storia, privata e professionale, ma anche i nomi di chi lo aveva incontrato, magari occasionalmente, nei giorni feroci delle intercettazioni. Ogni suo interlocutore, anche il più distante e il più innocente, è stato trasformato in complice. Ogni sua parola in un atto di incolpazione. Che se ne farà, tra cinque o sei anni, di una sentenza che spaccherà il capello in quattro, che separerà il grano dal loglio, che andrà a compensare le aggravanti con le attenuanti? E che se ne farà poi di un eventuale appello o del sigillo finale della Cassazione? Niente. Tutto quello che aveva da perdere lo ha già perso. Tutta la giustizia che verrà sarà giustizia inutile. Perché la sola giustizia che conta oggi è quella amministrata hic et nunc dalla Repubblica delle Procure. E Palamara lo sapeva bene. Provate a rileggere – turandovi il naso, va da sé – le registrazioni dei colloqui, anche notturni, tra lui e i suoi colleghi del Csm, tra lui e i suoi colleghi del palazzo di giustizia di Roma, tra lui e Luca Lotti, ex ministro di Matteo Renzi, tra lui e Cosimo Ferri, deputato del Pd e plenipotenziario della corrente di Magistratura Indipendente. Non si affannano per accaparrarsi un posto di primo presidente del Tribunale o per piazzare un sodale alla Procura generale, o per trovare l’uomo adatto da sistemare al vertice di una Corte d’Appello o tra gli ermellini più eccellenti della Suprema Corte di Cassazione. Diciamolo: dei giudici che giudicano non glie ne frega nulla. A Palamara, e alla spregiudicata combriccola che lo segue, interessano solo le procure. E pur di conquistare uno di quegli uffici sono capaci di intessere le trame più opache e di stringere le alleanze più disgustose. Perché il potere vero è lì, solo lì: nelle procure.

   

Chissà cosa sta meditando Bonafede, che ha promesso di sfornare in soli dieci giorni una riforma organica della giustizia

Chissà che cosa starà meditando in queste ore il ministro Alfonso Bonafede, il Guardasigilli che ha promesso di sfornare in soli dieci giorni una riforma organica della giustizia. Nel suo primo anno di regno nel salone cinquecentesco di via Arenula, il ministro di Giustizia ha dato alle procure più di quello che un ufficio dell’accusa avrebbe potuto pretendere e immaginare. E per averne un’idea basta dare un’occhiata agli strumenti e alle discrezionalità contenute nel decreto pomposamente denominato “Spazzacorrotti”. Quel raffinato strumento di persecuzione ad ampio raggio, chiamato non a caso Cavallo di Troia, per gli amici trojan, non solo dilata a dismisura l’invasività delle intercettazioni anche su persone che non sono né indagate né indiziate di reati; ma riesce anche a moltiplicare, per dirla con Piercamillo Davigo, la massa dei “presunti colpevoli non ancora scoperti”. Guai però a sollevare un’obiezione del genere di fronte a Bonafede. Potresti passare per amico del giaguaro. O, nel migliore dei casi, verresti dirottato presso un funzionario dello staff che, con zelante acribia ti dimostrerà come e qualmente le procure sono inserite in un sistema di garanzie all’interno del quale è difficile, quasi impossibile, che possa perpetrarsi un abuso, uno sfregio ai codici o alla dignità umana. “Ma non avete visto – ti dicono – che cosa è successo al Palazzo di Giustizia di Agrigento con l’inchiesta sulla Sea Watch della capitana Carola? Il procuratore Luigi Patronaggio l’aveva arrestata e il gip, Alessandra Vella, l’ha scagionata e rimessa in libertà. In buona sostanza c’è chi fa le prime indagini e dispone i primi provvedimenti; e all’un tempo c’è il Giudice per le indagini preliminari che sorveglia su quegli atti con il ruolo e la dignità di un giudice terzo, mai appiattito sulle procure”.

   

Che un gip possa fare da contraltare a un procuratore è un altro atto di fede, come l’obbligatorietà dell’azione penale. Principi scolpiti a lettere d’oro nella Costituzione ma di fronte ai quali si trova sempre un’esigenza o un’emergenza per scavalcarli. O per calpestarli. L’istituzione dei gip era stata sulla carta una intuizione teoricamente felice. Ricordava, soprattutto a chi è sempre assistito dal dubbio, un giovane librettista francese di fine Settecento, Paradis de Moncrift, che al tempo del soave delirio prerivoluzionario, quando nei salotti di Parigi andavano di moda i gatti e le contesse impazzivano per quelli d’angora, scrisse da vero débauché d’esprit un panphlet che prometteva di narrare la vita dei gatti vista dai topi. Fu un successo. E a Paradis de Moncrift, il cui nome manco a dirlo ricordava quello di un gatto, fu tributato persino un pubblico riconoscimento a Place de Saint Suplice.

  

L’esempio di Palermo: di fronte agli oltre cinquanta magistrati in organico alla procura, l’ufficio del gip non ne conta più di quindici

Non durò a lungo, comunque. Come non è durato a lungo l’entusiasmo per il contropotere del gip nei confronti delle procure. Certo, la stragrande maggioranza dei giudici per le indagini preliminari esercita con coscienza e sapienza il proprio dovere di imparzialità. Ma spesso, troppo spesso, anche per la sproporzione numerica dei due uffici, il gip ha un’enormità di fascicoli sul tavolo che quasi sempre lo costringono a un ingrato e sciatto lavoro di passacarte. Prendiamo Palermo: di fronte agli oltre cinquanta magistrati in organico alla procura, l’ufficio del gip non ne conta più di quindici. Non solo. Se il procuratore ha dei posti vuoti e se ne lamenta – “Non potete lasciare scoperta una frontiera della lotta alla mafia”, intima – il Csm si affretta a ricoprirli. Ma se il capo dei gip alza pure lui la voce, negli uffici di piazza Indipendenza lo ascoltano ma con la calma che si dedica abitualmente alle voci di chi grida nel deserto. Perché il luogo geometrico del potere, dentro i palazzi di Giustizia, sta lì nella procura. Stanno lì i magistrati che possono sapere tutto di tutti. Sta lì il pm che per trecento giorni tira doverosamente la carretta e poi all’improvviso si innamora di una tesi e fa di tutto per raggiungere il suo obiettivo: ipotizza un’associazione a delinquere e fa partire le intercettazioni, regolarmente autorizzate dal gip; ma se dopo tre mesi di pesca a strascino ha beccato sì e no due sarduzze, chiede una proroga di altri tre mesi, che il gip gli accorda tranquillamente, e la pesca si estende da un mare all’altro. Poi finalmente crede di avere le reti strapiene di indizi e firma dieci, venti ordini di cattura. Convoca una conferenza stampa, martella sulle ipotesi di reato, i giornali amplificano e il gioco è fatto. Certo, poi toccherà al gip convalidare o meno gli arresti. Ma il giudice per le indagini preliminari, al momento del suo intervento, si trova già di fronte a una montagna mediatica, a un circo equestre dell’informazione che già ha costruito opinioni e convinzioni e che quasi sempre non sarà facile smontare.

   

Chi ha frequentato per lungo tempo le stanze e i corridoi dei palazzacci sa tuttavia che non si può e non si deve mai generalizzare; e Alessandra Vella, il gip che ha restituito la libertà alla capitana della Sea Watch, sta lì a dimostrarlo. Ma la storia della giustizia italiana comprende anche un reliquiario di appiattimenti che avrebbe scoperchiato le tombe di tutti i padri del diritto e della Costituzione. Il più clamoroso risale a ventisette anni fa quando i gip si chiamavano ancora giudici istruttori. Siamo a Palermo, nel pieno delle stragi di mafia. Il 19 luglio del 1992 esplode il tritolo in via D’Amelio e viene assassinato il giudice Paolo Borsellino con gli uomini della scorta. Il 22 luglio, con il cadavere dell’eroe antimafia ancora caldo, i sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato chiedono l’archiviazione dell’inchiesta su mafia e appalti presentata dai carabinieri del Ros e sulla quale aveva molto puntato Giovanni Falcone, ucciso sessanta giorni prima nell’attentato di Capaci. Il 14 agosto, vigilia della festa più calda e vacanziera del mondo, il giudice istruttore Sergio La Commare varca la soglia di un palazzo di giustizia deserto, entra nella sua stanza, apre il fascicolo e firma l’archiviazione. Non c’era nessuna urgenza. Ma il giudice La Commare non se l’era sentita di godersi le proprie ferie e di non rispondere a una richiesta di due stelle nascenti della procura.

   

Per carità, se oggi gli chiedete una spiegazione il dott. La Commare vi risponde di avere fatto quel gesto secondo scienza e coscienza. E vi ammutolisce. Il problema però resta: chi controlla lo strapotere, gli abusi e le storture che allignano in molte procure?

  

Anche qui – e va detto senza riserve e senza retro pensieri – la stragrande maggioranza dei magistrati lavora entro i canoni rigorosi di una impeccabile onestà. Ma l’ufficio del pubblico ministero, proprio per l’eccesso di poteri che gli sono stati conferiti dalle leggi, non ultima la “Spazzacorrotti” di Bonafede, è quello dove è estremamente facile per un giovane rampante costruirsi una carriera folgorante, dove è facile a chiunque traccheggiare con giornali e giornalisti e costruirsi mediaticamente un incrollabile monumento da eroe. I magistrati da talk show – quelli che dispongono di un esercito di fan e raccolgono cittadinanze onorarie in lungo e in largo per l’Italia – nascono soprattutto dentro le procure. Perché anche la tv, oltre ai grandi quotidiani, ha la consapevolezza che oggi il potere giudiziario è solo quello che si celebra in quelle stanze. E quando cerca un ospite va a trovarlo lì dentro.

   

I magistrati da talk show nascono dentro le procure. La storia di seduzione tra il Provenzale e la pantera nella Commedie Umaine

Sì, i gip ci sono e svolgono il loro lavoro con animo nobile. Ma ricordate quel fantastico racconto di Balzac – Une passion dans le dèsert – in cui un soldato di Napoleone, durante la campagna d’Egitto, sfugge nottetempo ai berberi che lo avevano fatto prigioniero e comincia a vagare tra le sabbie roventi al sud del Nilo?

   

Mentre dorme in una caverna ricavata tra le dune, il Provenzale, così lo chiama Balzac, si ritrova accanto una pantera. Non ha come ucciderla e sceglie di corteggiarla, di utilizzare l’unica arma a sua disposizione: la seduzione. La sventurata risponde e il soldato comincia ad amarla come si ama una donna: “La pantera rizzò la coda con voluttà, gli occhi le si addolcirono e quando, per la terza volta, l’uomo mise in atto la sua lusinga, da essa partirono quelle fusa con cui i nostri gatti esprimono il piacere”. Condivisero la caverna per molti giorni e vissero per molte notti felici e contenti.

  

Ecco. Il racconto che Balzac inserirà poi nella Commedie Umaine può essere la metafora dell’azzardato equilibrio dentro il quale tentano di convivere Procura e gip. Ma non rivelate la fine al ministro Bonafede. In una vampata di onestà-tà-tà potrebbe venirgli l’idea di eliminare il gip e di trasformare la procura nella padrona assoluta della caverna. In una tiranna.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.